Fonte: Seneca. L’immagine della vita a cura di Matteo Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998.
GLI HUMILES AMICI
La dottrina etico-politica di Seneca e la sua azione riformatrice, durante il “quinquennium Neronis” e in parte negli anni 59-62, culminano in un’appassionata presa di posizione, ampiamente motivata, sul rapporto tra schiavi e padroni. Sono ben poche, purtroppo, nella civiltà classica ed ellenistico-romana le voci che si levarono in difesa della dignità umana degli schiavi. Tra esse sono particolarmente significative nel V secolo a. C., quelle della corrente etica della sofistica, le quali fecero leva proprio sulla contrapposizione fra “nomos”, legge, e “physis”, natura, per affermare – contro il convenzionalismo estremo e la teorizzazione del superuomo di Callicle e Crizia – la priorità di valore della legge naturale sul diritto positivo dell’una o dell’altra città-stato. Antifonte Sofista scrisse: “Onoriamo e rispettiamo quelli che nascono da nobili padri; non onoriamo e non rispettiamo quelli che invece sono di umile discendenza. In ciò ci comportiamo come i barbari; infatti noi tutti, barbari e greci, siamo per natura uguali in ogni nostro rapporto. Ciò risulta dalle cose che sono per natura necessarie a tutti gli uomini;…in tutto ciò né un barbaro è diverso da noi, né lo è un greco. Tutti quanti insieme respiriamo l’aria con la bocca e il naso …”(fr. 2 del “Papiro d’Ossirinco”).
Similmente Platone nel “Protagora” così fa parlare Ippia di Elide: “Uomini qui presenti, tutti io vi credo congiunti e parenti e concittadini per natura, anche se non lo siete secondo legge. Ma il “nomos”, che è come un tiranno per gli uomini, in molte cose fa violenza alla natura” (Prot. 337 c). Famosa è poi l’affermazione di Alcidamante, tratta da un discorso in cui si batteva per la liberazione dei prigionieri di Messene ad opera degli ateniesi: “Dio ha posto tutti nel mondo come uomini liberi, la natura non ha generato nessuno nella condizione di schiavo” (schol. ad Arist., Rhetor. 1, 13, 1373 b). I poeti insistono su un altro punto, anch’esso di notevole rilievo: se uno schiavo ha la possibilità di essere interiormente nobile, dunque bisogna riconoscere la sua umanità. È di Menandro, o di un altro poeta contemporaneo, il verso: “Sii schiavo, come se fossi libero, e tu non sarai schiavo” (fr. 279 in Meinecke, Men. inc. fab.). Ci sono stati conservati anche una frase e due versi di Euripide. La frase dice: “la natura non si cura delle leggi” (fr. 520), ma non conosciamo il contesto in cui essa si trovava. Ed ecco l’altro frammento: “Anche se uno è di umile origine, ciò che lo distingue è il suo merito personale. Il nome non determina nessuna destinazione” (fr. 526). Eschilo è sulla stessa lunghezza d’onda. In un verso dell’ “Agamennone” afferma che “pure nel cuore degli schiavi alberga la potenza divina” e nello “Ione” (vv. 854 ss.): “Ciò che fa vergogna allo schiavo è unicamente il nome. Altrimenti uno schiavo è proprio in tutto non peggiore dei liberi, se egli è nobile”. Nell’ “Alessandro” è detto: “Attraverso le consuetudini il tempo determina l’orgoglio di un ceto. Ragione e discernimento, però, sono la vera nobiltà, e solo Dio li dà, non la ricchezza” (fr. 33 Br. Snell, Wien. Stud. 69, 1956).
L’economia dell’età classica era in gran parte fondata sulla schiavitù e ciò ebbe l’effetto di far apparire per sempre immodificabile la situazione anche a geni di prima grandezza come Platone e Aristotele, che, senza dubbio, personalmente trattavano con signorilità i loro schiavi e raccomandavano agli altri di fare altrettanto. Il primo ritenne indispensabile all’interesse generale il mantenimento della schiavitù: gli schiavi servono per i lavori umili e perciò quanti vogliono vivere in un giusto ordine (kosmios) non possono non ritenere la schiavitù necessaria all’organizzazione sociale (“Leggi” 7, 806 b; “Politico”, 309 a). Aristotele fa sua l’antitesi fra “nomos” e “physis” di Antifonte e Alcidamante, ma solo per rovesciare le loro conclusioni. Ne parla a lungo nella “Politica”, nel secondo capitolo del primo libro. La sua tesi è brutalmente chiara: per legge di natura vi sono quelli nati per comandare e quelli, gli schiavi appunto, nati per obbedire. Gli argomenti messi in campo sono molto deboli, ma le espressioni usate sono di un’implacabile durezza: “Lo schiavo è una proprietà animata (ibid. 4, 4)… Non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui (ibid. 4, 6)… Egli è servo per natura, perché può essere cosa d’altri e, potendo, finisce con l’essere tale effettivamente… Lo schiavo partecipa dell’umana intelligenza sino allo stadio delle percezioni immediate, ma non giunge a quello di una riflessione matura (ibid. 5, 13)… L’utilità degli animali domestici e quella degli schiavi poco differiscono (ibid. 5, 4)”. Quelle affermazioni contribuirono potentemente a perpetuare nei secoli la mentalità schiavista e, dunque, l’istituzione stessa della schiavitù, che fu abolita ufficialmente solo nel 1867.
Le filosofie ellenistiche, malgrado qualche bella espressione della scuola stoica sull’universalità della legge morale che accomuna gli uomini, non presero seriamente in esame il problema della schiavitù: si può dire solo che in esse trovò un più ampio riconoscimento il pensiero della libertà morale dell’uomo giuridicamente non libero. La figura dello “schiavo nobile” è, pertanto, indicativa di una mentalità che in qualche modo tenta di oltrepassare i propri limiti. Che Zenone, il fondatore della Stoa antica, vivesse senza schiavi (Ad Helv. 13, 4) non significa affatto che rifiutasse la schiavitù, ma solo che, essendo “saggio”, esibiva in tal modo la sua capacità di bastare a se stesso. Sia lo stoicismo antico di Zenone, Cleante e Crisippo, sia lo stoicismo medio di Panezio e Posidonio, non formularono una dottrina sulla posizione dello schiavo nella società. Il filosofo neostoico Seneca non poteva perciò costruire il suo pensiero sulla schiavitù, partendo dall’insegnamento dei suoi maestri. L’originalità della sua filosofia su questo problema è indubbia ed è grazie ad essa che si pervenne ad una nuova e più alta configurazione dell’umanesimo come categoria spirituale finalmente aperta alla dimensione stessa dell’umanità.
Seneca è, in realtà, il solo scrittore dell’antichità classica ed ellenistico-romana che affronti apertamente e in extenso il problema della schiavitù, e lo fa in contrasto con modi di agire e sentimenti assai diffusi che il nostro autore analizza con penetrante ironia e con lucido rigore. Del resto, come ministro dell’impero, per ben due volte, nell’anno 56 e nel 61, egli contrastò due pericolose proposte di legge del senato e si vide accusato di “incitare gli schiavi alla rivolta con la promessa della libertà e di voler abbattere l’autorità dei padroni” (Ad Luc. 47, 17). La prima volta la voce di Seneca si levò all’interno del “consiglio del principe” perché l’affrancamento, che era l’unica via aperta alla libertà, non fosse messo in discussione. Il senato, infatti, premeva per votare una legge in virtù della quale ai padroni era concesso il diritto di revocare l’affrancamento. Quali conseguenze avrebbe potuto avere una deliberazione del genere è fin troppo facile immaginarlo (Tacito, Ann. 14, 44, 5). Dopo sei anni, nel 61, il senato tornò alla carica con un’altra proposta che, se approvata, avrebbe comportato una strage e un odioso precedente. Pedanio Secondo, prefetto dell’Urbe, era stato ucciso da un servo, mentre gli altri erano rimasti impietriti dal terrore. Un giureconsulto propose allora la pena di morte per tutti gli schiavi dell’ucciso perché “un’accozzaglia di servi non può essere tenuta a freno che dal timore” (ibid. 13, 26). A Seneca riuscì di sventare la minaccia grazie a un residuo di autorità morale che ancora aveva su Nerone. Nel consiglio di Stato Seneca aveva risposto con osservazioni fondate sul diritto vigente e sulla opportunità politica; del resto aveva già richiamato l’attenzione nelle pagine conclusive del “De clementia” sull’intrinseca fragilità di uno Stato da cui sia esclusa una massa di non-cittadini e di sotto-uomini: “Una volta con una sua deliberazione il senato decretò che gli schiavi dovessero distinguersi dai liberi per l’abbigliamento. Poi, però, ci si rese conto di quale pericolo ci avrebbe minacciato, se i nostri schiavi avesero cominciato a contarsi” (3, 22, 1). Il numero degli schiavi nel mondo antico era, infatti, elevatissimo e le stime oscillano fra i due terzi e i tre quinti della popolazione (cfr. J. Vogt, “L’uomo e lo schiavo nel mondo antico”, trad. it. Silva, Roma 1969, pp. 11-12). Seneca di lì a poco avrebbe illustrato le ragioni filosofiche del suo atteggiamento in due documenti di eccezionale importanza: nel terzo libro del trattato “De beneficiis” e nella “Lettera 47”.
La sua posizione è audacemente difforme dalle norme del diritto positivo e dalle regole della vita sociale, concordi nell’ammettere che lo schiavo non potesse acquistare alcun diritto, di nessun genere, verso il padrone. Il peso negativo della mentalità dominante era forte, ma il Nostro fa appello nelle sue argomentazioni all’esperienza concreta e al diritto naturale. La tesi di Seneca è questa: giudicare il comportamento di uno schiavo diversamente da quello di un uomo libero è contro lo ius humanum, perché la valutazione dell’animus di un uomo è indipendente dal suo status sociale (Ben. 3, 20, 2). La tradizione romana ha giustamente esaltato il dominus che ha sentimenti umani verso i non liberi; ma bisogna andare al nocciolo della questione, incominciando col ricordare il debito di gratitudine che non pochi padroni hanno per i molteplici benefici ricevuti dagli schiavi, al di là degli obblighi a cui li costringeva la loro condizione. Questo dato di fatto sta sotto gli occhi di tutti ed è lì a provare la perfetta capacità dello schiavo a beneficare.
Si abbia, allora, il coraggio di tirare la conclusione logica: colui che una congiuntura disgraziata ha ridotto in schiavitù è, invece, per diritto di natura uguale ai suoi padroni. Ontologicamente lo schiavo è uomo come il suo padrone, quale che sia la diversità delle rispettive condizioni sociali. Il potere del padrone sullo schiavo può giungere a disporre del suo corpo, ma non della sua anima che, a causa della vita interiore che ne costituisce l’essenza, si sottrae a qualsiasi potere esterno: “mens sui iuris est” (Ben. 3, 20).
Seneca fa ricorso anche a un’argomentazione di carattere giuridico. Grazie all’influenza esercitata dagli uomini prudentes, per ragioni insieme di carattere morale e politico, Roma ha avuto il merito di umanizzare progressivamente le leggi riguardanti il trattamento degli schiavi – leggi che in origine erano di una durezza spietata – sì che lo schiavo nella Roma imperiale ha già una capacità giuridica attiva nel diritto sacrale e, parzialmente, anche nel diritto patrimoniale: dunque non è vero – neppure da un punto di vista strettamente legale – che tutto quello che lo schiavo fa è obbligato a farlo, rientrando necessariamente nel dovuto. Seneca è convinto che occorrerebbe proseguire con coraggio su questa strada, slargando con illuminata preveggenza a sfera dei diritti già riconosciuti agli schiavi. È il criterio a cui nobilmente egli ispirò la sua azione di ministro. Ma la sua stessa battaglia politica a favore degli schiavi gli fece toccare con mano quanto lungo e difficile fosse ancora il cammino, nonché il continuo pericolo di arretramenti e di rivalse reazionarie anche in campo legislativo.
Vi sono cose, però, nel rapporto tra lo schiavo e il padrone che si sottraggono all’ambito giuridico: “quaedam sunt quae leges nec iubent nec vetant facere” (Ben. 3, 21, 1). Chi si rapporta allo schiavo con la consapevolezza che è suo inderogabile dovere morale riconoscerne concretamente la dignità umana, di quel suo prossimo chiamato schiavo, oltrepasserà di continuo lo spirito e la lettera di ogni legge positiva, scorgendo nello schiavo l’uomo, anzi l’amicus che vive nella propria casa (Ben. 3, 22, 1). In una prospettiva del genere, il problema posto nel “De beneficiis” andrebbe riformulato nei suoi termini: non è il padrone in quanto tale che viene beneficato dallo schiavo, ma semplicemente un uomo da un altro uomo (sed homo ab homine, Ben. 3, 21,1). Ambedue, infatti, sono esseri umani, hanno la stessa origine, vivono sotto lo stesso cielo (Ben. 3, 28,1). E tutti e due sono chiamati ad attuare una stessa legge morale. La riflessione conclusiva di Seneca è che se la schiavitù è una iattura, originata dalla sorte e dal pregiudizio sociale, il vero male che corrode l’esistenza è la servitù morale in cui eccellono molti dei cosiddetti uomini liberi. Se ne fossero consapevoli, smetterebbero almeno di credersi in diritto di essere arroganti.
Poco tempo dopo la forte presa di posizione di Seneca sulla schiavitù nel trattato “De beneficiis”, il filosofo torna sull’argomento con un altro scritto, che è un vero e proprio manifesto in difesa della dignità umana di quanti costituiscono l’immenso esercito degli umiliati e offesi: la “Lettera 47” a Lucilio. L’amico carissimo sembra averlo informato che, in un accesso di collera, si è astenuto dal punire fisicamente il proprio schiavo: ha preferito far ricorso alle parole, “verba”, piuttosto che alle frustate, “verbera”. Seneca se ne rallegra vivamente e passa immediatamente ad affrontare il tema in generale. In tal modo lo scambio personale tra i due cede subito il posto a qualcosa d’altro: Seneca sa che Lucilio sta dalla sua parte, ma occorre smontare nell’opinione pubblica i pregiudizi e i sofismi, assai diffusi, di quanti stanno dalla parte opposta. Costoro ignorano la propria reale condizione umana e proprio per questo si sentono in diritto di alimentare in sé il pathos della distanza, talora persino del disprezzo, nei confronti degli schiavi. Seneca li designa con tre espressioni: la “turba delicato rum”, la folla degli schifiltosi e dei presunti raffinati, i “superbi” e i “quasi reges”, quelli cioè che, con le loro pretese assurde e arroganti, imitano i tiranni anche tra le pareti domestiche e abusano degli schiavi in modo abominevole, compiacendosi di incrudelire sui sottoposti (Ad Luc. 47, 18). È da ipocriti tacerlo: padroni di questo genere non sono una minoranza, sì che si deve onestamente riconoscere che “verso gli schiavi noi siamo esageratamente superbi, crudeli e ingiuriosi” (ibid. 11).
La “Lettera 47” è, come si vede, uno scritto combattivo, un saggio mirato contro un avversario il cui nome, purtroppo, è legione. All’avversario che ripete con ossessiva pervicacia la sua obiezione: “Sono pur sempre schiavi!”, Seneca replica con una successione di antitesi di straordinaria intensità: “No, sono uomini”; “No, sono compagni di casa”; “No, sono umili amici” (Servi sunt? Immo homines. Servi sunt? Immo contubernales. Servi sunt? Immo humiles amici – ibid. 1). I concetti sviluppati sono espressi con profonda convinzione e mettono capo a sententiae che si imprimono nella mente e nel cuore. “Colui che tu chiami schiavo è nato dagli stessi semi, vive sotto lo stesso cielo, respira, vive e muore proprio come te! Tu puoi sperimentare in lui un uomo libero, come lui può sperimentare in te uno schiavo” (ibid. 10). La regola di un comportamento giusto verso lo schiavo è formulata con semplicità incisiva: “Comportati con chi ti è sottoposto, come vorresti che si comportasse con te chi ti è superiore” (Sic cum inferiore vivas, quemadmodum tecum superiorem velles vivere – ibid. 11).
Come nei “De beneficiis”, anche qui la cena comune diventa un leit-motiv, assurgendo a simbolo del mutamento reale dei rapporti tra padroni e schiavi. La clemenza e la gentilezza verso lo schiavo sono molto lodevoli e il filosofo romano non si stanca di raccomandarle vivamente, perché testimoniano l’affabilità e la grandezza d’animo di chi le pratica. Tuttavia occorre andare oltre: ci vuole l’ “affectus amici”, come disposizione del cuore e orientamento costante della volontà, da una parte e dall’altra. Ma essere amici di una persona significa ammetterla alla nostra conversazione, concederle di partecipare alle nostre decisioni, farla sedere a mensa con noi.
Seneca sottolinea l’importanza particolare di quest’ultimo punto: “«E con questo? Dovrò forse invitare alla mia tavola tutti gli schiavi?» Non più che tutti gli uomini liberi. Sbagli se pensi che respingerò qualcuno perché esercita un mestiere troppo umile, come, ad esempio, il mulattiere e il bifolco. Non li giudicherò in base alle loro funzioni, ma in base al loro modo d’agire: infatti ciascuno è responsabile della propria condotta, mentre i mestieri li assegna il caso. Tu devi pranzare con alcuni, perché ne sono degni, e con altri perché lo diventino: se, infatti, c’è in loro qualcosa di rozzo, dovuto al contatto con gente tutt’altro che educata, la dimestichezza con uomini di più elevata condizione lo eliminerà” (ibid. 15).
All’inizio Seneca aveva ricordato che il favore della fortuna è mutevole e il capovolgimento delle condizioni sociali è fenomeno tutt’altro che infrequente nelle vicende umane: “«Sono schiavi». Sì, e perciò tuoi compagni nella schiavitù, se pensi che la sorte ha il medesimo potere su te e su loro” (ibid. 1). I romani sapevano fin troppo bene che dopo la disfatta di Varo, illustri comandanti finirono guardiani di pecore e di capanne, toccando così con mano che non è affatto la natura a creare gli schiavi. Adesso, però, avviandosi a concludere la sua lettera, Seneca si rivolge di nuovo all’ipotetico avversario e nel paragrafo 17 torna a usare, come nella fiammeggiante ouverture, il procedimento dell’antitesi: “«È uno schiavo», tu continui a ripetermi. Ma forse è libero nell’animo. «È uno schiavo». Ma questo gli sarà di impedimento nel rendersi interiormente libero? E poi mostrami un uomo che non sia schiavo: uno è schiavo della lussuria, uno dell’avidità, uno dell’ambizione; tutti lo sono della paura… E nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria”. Di fronte alla servitù involontaria, frutto della sventura e dell’ingiustizia, sta la “voluntaria servitus”, la più devastante, perché nasce dalla confusione del bene col male e dalla resa all’egoismo, all’istinto di sopraffazione, al desiderio di vendetta, a quelle passioni che ci rendono cupidi, ingrati, maligni, vanesi, prepotenti e paurosi. Questa schiavitù, “di cui nessuna è più vergognosa”, tocca nell’intimo ognuno, quale che sia il ceto sociale a cui appartenga. Di essa dobbiamo finalmente prender coscienza: tutti ci portiamo appresso la nostra fragilità, la nostra miseria, l’inclinazione al male. Riconoscerci per quello che realmente siamo, al di là delle convenzioni e delle menzogne sociali, significa riscoprirci tutti uguali e ugualmente bisognosi di verità e di amore. È solo l’amore, divenuto forma di esistenza, che può cacciar via la paura (ibid. 18).
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Testi di Seneca
SUL PROBLEMA DELLA SCHIAVITÙ
PRIMO DOCUMENTO: DAL TERZO LIBRO DEL “DE BENEFICIIS”
PUÒ UNO SCHIAVO FARE DEL BENE AL PADRONE? Alcuni, fra i quali Ecatone, si chiedono se uno schiavo possa beneficare il padrone. Vi è chi fa una distinzione fra benefici, doveri e servizi: il beneficio è ciò che ci viene da un estraneo, che avrebbe potuto astenersi dal farlo senza per questo essere biasimato; il dovere è proprio del figlio, della moglie e di quelle persone che a causa del legame di parentela sono costretti ad aiutarci; il servizio è tipico dello schiavo, la condizione del quale fa sì che di nessuna cosa egli possa farsi merito, come di un di più, con chi gli è superiore.
Chi sostiene che uno schiavo non possa talvolta beneficare il suo padrone non conosce il diritto umano: ciò che conta, infatti, è la disposizione d’animo del benefattore, non la sua condizione sociale. La virtù non è preclusa a nessuno; essa è accessibile a tutti, invita e ammette tutti, liberi e liberti, schiavi, re ed esuli; non sceglie in base al casato o al censo, le basta l’uomo nudo. Quale difesa potremmo avere contro gli eventi imprevisti, che cosa di grande potrebbe ripromettersi l’animo, se la fortuna potesse cambiare anche una salda virtù?
Se uno schiavo non può beneficare il suo padrone, allora neppure un suddito può beneficare il suo re, né un soldato il suo comandante… Se la costrizione in cui lo schiavo vive e il timore delle peggiori punizioni gli impediscono di essere riconosciuto come benefattore, lo stesso accade per chi è soggetto a un re e per chi è soggetto a un comandante. Infatti, sia pure a titolo diverso, in rapporto a lui costoro hanno la medesima libertà del padrone nei confronti dello schiavo. Eppure, si può essere benefattori del proprio re o del proprio generale: dunque, anche lo schiavo può esserlo del proprio padrone.
Uno schiavo può essere giusto, può essere coraggioso, può essere magnanimo: dunque, può anche concedere un beneficio, poiché anche questo è un tratto caratteristico della virtù. Anzi gli schiavi possono essere benefattori dei loro padroni al punto che spesso sono stati loro a renderli tali, salvandoli con i loro benefici. (Ben. 3,18, 1-4)
Senza dubbio uno schiavo può fare del bene a chiunque: perché, dunque, non potrebbe farlo al suo padrone? «Perché», ci viene risposto, «anche se dà del denaro al suo padrone, non può diventare suo creditore. Altrimenti ogni giorno che passa il suo padrone si sente in obbligo verso di lui che gli è sempre accanto: infatti lo segue quando è in viaggio, lo assiste quando è malato, si affatica a coltivargli i campi. Tutte queste cose che, se fatte da un altro, sarebbero definite benefici, se fatte dallo schiavo, sono servizi. Il beneficio, infatti, si ha quando è concesso da qualcuno che avrebbe anche potuto non concederlo; lo schiavo, invece, non ha la facoltà di rifiutarsi, e perciò neppure di offrire qualcosa, ma obbedisce, e non si vanta di un’azione che non avrebbe potuto evitare di compiere».
Anche in questi termini, però, si impone la mia tesi… Uno schiavo per la salvezza del padrone combatte senza alcun riguardo per se stesso e, crivellato di ferite,continua a resistere, mentre esce dai suoi organi vitali il sangue che gli resta; e, perché quello abbia il tempo di fuggire, cerca con la sua morte di offrirgli una possibilità di scampo. Ebbene, dirai che costui non è un benefattore, solo perché è uno schiavo?
Se ti mostrerò uno che per non svelare i segreti del suo padrone non si lascia corrompere dalle promesse del tiranno, non si fa spaventare dalle sue minacce, né vincere dalle torture, e che, per quanto sta in lui, allontana i sospetti degli investigatori e sacrifica la sua vita per rimanere fedele, come farai a dire che costui non è un benefattore, perché è uno schiavo?
Guarda, invece, se negli schiavi un’azione virtuosa non abbia maggior valore proprio perché compiuta – cosa rara che dovrebbe essere per ciò stesso più gradita – da quanti si elevano al di sopra dell’odio che attanaglia tutti gli altri. In costoro l’amore per il padrone vince il risentimento per le dure imposizioni subite e per il peso gravoso che accompagna qualsiasi costrizione. Non si può dire, dunque, che un beneficio non è più tale perché compiuto da uno schiavo; anzi, esso ha tanto maggior valore perché neppure la condizione di schiavo ha potuto impedirgli di compierlo. (Ben. 3, 19, 1-4)
LA SCHIAVITÙ NON TOCCA L’ANIMA. Sbaglia chi crede che la schiavitù segni un essere umano nella sua totalità. La sua parte migliore ne è esclusa: il corpo è sottomesso e registrato come possesso del padrone, ma l’anima è indipendente, ed è talmente libera e autonoma che neppure questo carcere in cui è rinchiusa le può impedire di servirsi del suo impulso naturale, di pensare grandi cose e, facendosi compagna dei celesti, di lanciarsi nell’infinito.
Perciò è il corpo che la fortuna ha dato in potere di un padrone ed egli lo compra e lo vende; quell’altra parte, quella interiore, non può essere, invece, soggetta a compravendita. Tutto ciò che proviene da essa è libero. Infatti, noi non possiamo comandare tutto, né gli schiavi possono essere costretti a obbedirci in tutto: non eseguiranno degli ordini contro lo Stato, né daranno una mano a commettere un delitto. (Ben. 3, 20, 1-2)
OLTRE LA SFERA DEL DOVUTO: È UN UOMO A RICEVERE DA UN ALTRO UOMO. Ci sono alcune azioni che le leggi non comandano e non proibiscono di fare: in questo ambito lo schiavo trova materia per esercitare i suoi benefici. Finché si limita a fare ciò che abitualmente si richiede a uno schiavo, si tratta di un servizio; quando fa di più di ciò cui è obbligato, si tratta di un beneficio; quando, però, giunge al sentimento dell’amicizia, quello che fa non si può più chiamare servizio.
Ci sono delle cose che il padrone deve fornire allo schiavo, come il cibo e gli indumenti, e ciò nessuno l’ha mai chiamato un beneficio; ma se il padrone ha trattato lo schiavo con benevolenza, lo ha educato liberamente, lo ha istruito in quelle arti che sono proprie dei cittadini liberi, questo è un beneficio. Lo stesso vale nel caso contrario, cioè per la persona dello schiavo: tutto ciò che oltrepassa quanto uno schiavo è tenuto a fare, tutto ciò che viene fatto non per un ordine, ma di propria volontà, è un beneficio, all’unica condizione che quell’atto, indipendentemente da chi lo compie, sia degno di meritare tale nome. (Ben. 3, 21, 1-2)
Lo schiavo, secondo Crisippo, è un mercenario a vita. Però, se un mercenario fa più di ciò per cui è stato ingaggiato, compie un beneficio; così, quando lo schiavo, nella sua benevolenza verso il padrone, supera i limiti della sua condizione servile, e osa compiere un’azione che farebbe onore anche a persone di nascita più fortunata, oltrepassando ogni speranza del padrone, allora abbiamo dinanzi a noi un beneficio compiuto tra le pareti domestiche.
E ti sembra giusto che ci si adiri con gli schiavi, se fanno meno del dovuto, e poi non si abbia per essi riconoscenza quando fanno più di quanto devono, o di quello che sono soliti fare? Si può, in realtà, parlare di beneficio, quando non si può dire: «Se anche non lo avesse voluto, che cosa avrebbe potuto fare?». Quando, invece, uno ha compiuto qualcosa che avrebbe potuto rifiutarsi di fare, allora va lodato perché lo ha voluto.
Il beneficio e l’offesa sono opposti fra loro, ma se si ammette che uno schiavo possa ricevere offesa dal padrone, perché non si vuol ammettere che egli possa anche recargli un beneficio? Sulle offese dei padroni verso gli schiavi indaga un magistrato che ha l’incarico di accertare e reprimere atti di crudeltà e di libidine, nonché l’avarizia nel fornire le cose indispensabili alla vita; tuttavia appare ancora impensabile che un padrone accetti di essere addirittura beneficato da uno schiavo. In realtà, non è il padrone in quanto tale che viene beneficato dal servo, ma un uomo da un altro uomo.
Lo schiavo, dopo tutto, ha fatto quello che era in suo potere, beneficando il padrone, e tu non eri certo nella condizione di rifiutare il bene che ti veniva fatto. E poi, chi è tanto potente da non essere costretto dalla sorte ad aver bisogno anche dei più umili? (Ben. 3, 22, 1-4)
Chi può ancora dubitare che talvolta il padrone può ricevere un beneficio da uno schiavo? Per quale motivo la condizione sociale dovrebbe sminuire il valore di un’azione, anziché essere l’azione ad accrescere il valore della condizione di chi la compie? Per tutti vi è uno stesso principio e medesima è l’origine; nessuno è più nobile di un altro, se non chi ha un’indole più retta e più adatta al bene.
Coloro che mettono in mostra nel vestibolo i ritratti ed i lunghi elenchi degli antenati, collegando tra loro le numerose ramificazioni dell’albero genealogico, sono piuttosto noti che nobili. L’unico padre, comune a tutti, è il cielo: ad esso, per gradi diversi, ora luminosi ora oscuri, ci riconduce la prima origine. Non devi farti ingannare da coloro che, mentre ti elencano i loro antenati, ogni volta che manca loro un nome illustre, vi inseriscono un dio.
Non disprezzare alcun uomo, anche se attorno a lui ha nomi di gente oscura, non favorita affatto dalla fortuna. Che tra i vostri antenati ci siano dei liberti o degli schiavi o degli stranieri, alzate con fierezza la testa e passate sopra a tutto ciò che di oscuro c’è in mezzo tra loro e voi: una grande nobiltà vi attende se vi sarete innalzati alla cima più alta. (Ben. 3, 28, 1-3)
SECONDO DOCUMENTO: LA LETTERA 47
Ho saputo con piacere, da quelli che vengono da parte tua, che tratti i tuoi schiavi come persone di famiglia: questo si addice alla tua saggezza e alla tua educazione. «Sono schiavi». No, sono uomini. «Sono schiavi». No, sono persone che abitano con noi sotto uno stesso tetto. «Sono schiavi». No, sono umili amici. «Sono schiavi». Sì, e perciò tuoi compagni nella schiavitù, se pensi che la sorte ha il medesimo potere su te e su loro.
Per questo me la rido di quelli che ritengono disonorevole pranzare in compagnia del proprio schiavo solo perché una consuetudine, originata da superbia, vuole che attorno al padrone che pranza stia una schiera numerosa di servi in piedi.
Così, mentre il padrone mangia, a quegli sfortunati non è permesso muovere le labbra neppure per dire una parola. Ogni loro mormorio viene punito con la frusta, e così pure qualsiasi rumore casuale come la tosse, gli starnuti, il singhiozzo; chi interrompe il silenzio, anche con una sola parola, incorre in una dura punizione. Gli schiavi, insomma, devono starsene impalati tutta la notte, digiuni e in silenzio.
Il risultato è che gli schiavi, ai quali non è permesso parlare in presenza del padrone, sparlino poi del padrone. Invece, quelli che possono conversare non solo alla presenza del padrone, ma con lui, quelli ai quali non si cuce la bocca, sono pronti a porgere il collo al posto del padrone, a rischiare di persona per allontanare da lui un pericolo incombente…
Si continua poi a ripetere quel proverbio, anch’esso frutto della medesima arroganza, secondo cui tanti sono i nemici di un uomo quanti sono i suoi schiavi. Ma loro non sono nostri nemici, siamo noi a renderli tali. Non parlo per il momento degli altri trattamenti disumani: il fatto è che noi ci serviamo di loro come se non fossero uomini, ma bestie da soma…[parr. 1-5]
Prova a pensare: colui che chiami schiavo è nato dagli stessi semi, gode dello stesso cielo, respira, vive e muore proprio come te! Tu puoi sperimentare in lui un uomo libero, lui può sperimentare in te uno schiavo. Quando vi fu la sanguinosa disfatta di Varo, la sorte degradò molti personaggi di nobilissima origine. Erano uomini che, attraverso le cariche militari, aspiravano a diventar senatori; e invece alcuni di loro furono ridotti a pastori, altri a guardiani di capanne. E adesso disprezza pure, se ti riesce, l’uomo che si trova in una condizione che può toccare anche a te che lo ti credi in diritto di disprezzarlo.
Non voglio spingermi in un argomento così impegnativo e discutere del trattamento che riserviamo agli schiavi, verso i quali siamo esasperatamente superbi, crudeli e ingiuriosi. Tuttavia, questa è in concreto la mia regola: comportati con chi ti è sottoposto, come vorresti che si comportasse con te chi ti è superiore. Ogni volta che ti viene in mente quanto potere ti è consentito sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ne ha altrettanto su di te.
«Ma io», potresti dire, «non ho nessun padrone». Ma se finora ti è andata bene, ciò non vuol dire che tu di padroni non ne debba avere in futuro. Sai a che età cominciarono a essere schiavi Ecuba, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene?
Sii clemente con il tuo schiavo, e anche gentile, ammettilo alla tua conversazione, concedigli di partecipare alle tue decisioni, fallo sedere a mensa con te. A questo punto tutta la schiera dei raffinati mi griderà dietro: «Non c’è niente di più basso, niente di più vergognoso»…
Non così agirono i nostri antenati, i quali seppero togliere ogni odiosità ai padroni e ogni umiliazione agli schiavi. Chiamarono il padrone padre di famiglia e gli schiavi membri della famiglia; stabilirono un giorno festivo, non perché i padroni mangiassero con i servi solo in quello, ma almeno in quello; considerando la casa come una piccola repubblica, permisero loro di ricoprire all’interno della casa posti di responsabilità.
«E con questo? Dovrò forse invitare alla mia tavola tutti gli schiavi?». Non più che tutti gli uomini liberi. Sbagli se pensi che respingerò qualcuno perché esercita un mestiere troppo umile, come, ad esempio, il mulattiere e il bifolco. Non li giudicherò in base alle loro funzioni, ma in base al loro modo d’agire: infatti ciascuno è responsabile della propria condotta, mentre i mestieri li assegna il caso. Tu devi pranzare con alcuni, perché ne sono degni, e con altri perché lo diventino: se, infatti, c’è in loro qualcosa di rozzo, dovuto al contatto con gente tutt’altro che educata, la dimestichezza con uomini di più elevata condizione lo eliminerà.
Non v’è ragione, caro Lucilio, di cercare gli amici solo nel foro e nel senato: se ti guarderai attorno con attenzione, li troverai anche in casa tua. Spesso del buon materiale non rende nulla perché manca un abile artefice: provaci e vedrai. Come è stolto chi, avendo intenzione di comprare un cavallo, non esamina il cavallo stesso, ma la sella e le briglie, così è ancora più stupido chi giudica un uomo dall’abito o dalla condizione sociale, che ci è stata posta addosso come una veste.
«È uno schiavo», tu continui a ripetermi. Ma forse è libero nell’animo. «È uno schiavo». Ma questo gli sarà di impedimento nel rendersi interiormente libero? E poi mostrami un uomo che non sia schiavo: uno è schiavo della lussuria, uno dell’avidità, uno dell’ambizione; tutti lo sono della paura… E nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria. Perciò, non c’è ragione per cui codesti uomini sdegnosi ti distolgano dal mostrarti cordiale con i tuoi schiavi, e non arrogantemente superiore: fa’ in modo che essi ti rispettino piuttosto che temerti.
Qualcuno dirà che io incito gli schiavi alla rivolta con la promessa della libertà e che voglio abbattere l’autorità dei padroni, perché ho detto: «rispettino il padrone piuttosto che temerlo»… Chi parla così, dimentica che non è poco per i padroni ciò che basta a un Dio. Chi è rispettato è anche amato: l’amore non può mescolarsi al timore.
Dunque, ritengo che tu faccia benissimo a non volere che i tuoi servi ti temano, e a correggerli solo con le parole: con la frusta si castigano le bestie.
Il guaio è che noi assumiamo atteggiamenti da tiranni. Anch’essi, infatti, dimentichi delle proprie forze e della debolezza altrui, danno in escandescenze e infieriscono come se avessero subito un torto, mentre è il rango medesimo che li mette interamente al riparo da una simile eventualità. Loro lo sanno bene, ma si lamentano lo stesso perché vanno in cerca di un pretesto per nuocere: fingono di aver ricevuto un’offesa per sentirsi in diritto di offendere. [parr. 10-20]
ULTERIORI RIFLESSIONI
OCCORRE COMPATIRE, NON ODIARE. È vergogna odiare una persona che dovresti lodare. Ma è ancor più vergognoso odiare qualcuno per motivi che, invece, lo rendono degno di compassione. (Ira 3, 29, 1)
TROPPO FACILE INFIERIRE SUGLI SCHIAVI. Noi esercitiamo il controllo su noi stessi a seconda delle persone, e per motivi diversi: timore, rispetto, disgusto. Ma se si tratta di uno schiavo che non ci serve come vorremmo, allora non esitiamo affatto a mandarlo in carcere, a farlo sferzare subito, a fargli spezzare le gambe. Perché non rimandare la decisione a quando siamo noi, e non l’ira, a comandare? Caduta l’ira, allora finalmente vedremo quanto vale la contesa. Sbagliamo soprattutto in questo: si ricorre alla spada, alla pena capitale e puniamo con catene, carcere e fame un fatto che dovrebbe essere castigato con pochi colpi di frusta. (Ira 3, 32, 1-2)
UN CALICE DI CRISTALLO VALE PIÙ DI UN UOMO? UN CASO-LIMITE DI CRUDELTÀ. Un giorno Augusto cenava in casa di Vedio Pollone. Uno degli schiavi aveva rotto un calice di cristallo. Vedio lo fece prendere per farlo morire in un modo non comune: l’ordine era di buttarlo alle grosse murene che teneva nella peschiera. La sua non era folle eccentricità, ma vera e propria crudeltà.
Lo schiavo sfuggì a chi lo teneva e si gettò ai piedi dell’imperatore: non chiedeva la grazia, ma almeno di morire diversamente, senza essere divorato dalle murene. L’imperatore rimase colpito da quella crudeltà di nuovo conio e ordinò che lo schiavo fosse rilasciato, che l’intera cristalleria fosse frantumata in sua presenza e se ne gettassero i pezzi nella peschiera.
L’imperatore punì in tal modo un suo amico, usando bene del suo potere. «Fai trascinare» gli disse «un uomo fuori da un banchetto per straziarlo con un supplizio di nuovo genere? Perché si è rotto un tuo calice pretendi che siano sbranate le viscere di un uomo?». (Ira 3, 40, 2-4)
ESSERE GIUSTI E BUONI CON GLI SCHIAVI. Nei confronti di uno schiavo non pensare a quanto tu lo possa maltrattare impunemente, ma a quanto ti suggeriscono la giustizia e la bontà, che ci comandano di rispettare anche i prigionieri e coloro che sono stati acquistati mediante il danaro. Assai meglio è … trattarli come persone le quali sono state affidate a te, che appartieni a una condizione sociale più alta, non per essere schiavi, ma per essere protetti.
C’è chi ritiene che tutto è lecito nei confronti di uno schiavo, ma c’è qualcosa che il diritto comune a tutti gli esseri viventi non autorizza nei confronti di un uomo. (Clem. 3, 16, 1-2)
NON È CON L’ORO CHE POSSIAMO RENDERCI RETTI, BUONI, GRANDI. Come chiameresti tu un animo retto, buono, grande se non un Dio che dimora in un corpo umano? Tale animo può trovarsi tanto in un cavaliere romano quanto in un liberto, o in uno schiavo. Che cosa sono, infatti, un cavaliere, un liberto, uno schiavo? Nomi prodotti dall’ambizione o dall’ingiustizia. Da ogni condizione, da ogni luogo, anche il più umile, è possibile innalzarsi fino al cielo. Innalzati, dunque, «e renditi anche tu degno di Dio» (“et te quoque dignum / finge Deo”, Virgilio, Aen. 8, vv. 364-5). Non ti renderai, però, degno di Dio con l’oro o con l’argento: da questa materia è impossibile trarre un’immagine simile a Dio. (Ad. Luc. 31, 11)
LA DEGRADAZIONE SUPREMA: UCCIDERE PER DIVERTIMENTO. Si è perso ogni senso morale e niente pare vergognoso purché ci offra qualcosa di allettante. L’uomo, creatura sacra per l’uomo (homo, res sacra homini), oggi viene ucciso a scopo di divertimento, per gioco. E se era già un obbrobrio istruirlo a colpire e a essere colpito, ora lo si fa scendere nell’arena nudo e inerme: la morte in sé basta a far spettacolo. (Ad Luc. 95, 33)
In tanta perversione morale, se vogliamo sradicare mali così inveterati occorre intervenire più energicamente: ci si deve appellare ai principi morali per svellere false abitudini mentali ormai acquisite. (Ad Luc. 95, 33-34)