Tra le attività specificamente umane e più umanizzanti, l’arte ha un suo posto insostituibile. «Sul tramite lungo, cieche son le menti degli uomini / che vogliono senza le Muse / muovere in cerca di saggezza», aveva ammonito Pindaro (Peana X) e Goethe ci ha ricordato che la poesia squarcia il velo interposto, fra la realtà e noi, dalle innumerevoli occupazioni che ci svuotano e «dissipa le nubi che impediscono all’assetato di vedere le mille sorgenti che scaturiscono a due passi da lui» (“Viaggio invernale nello Harz”).
Non si può fare di un individuo un uomo che pensi bene senza aver prima formato la sua sensibilità. Un mondo deserto di bellezza non sarebbe più un mondo umano, e nondimeno la disumanizzazione è un’insidia che incombe anche sull’arte. L’inautentico nell’arte oggi consiste nel bandire il bello, cioè il valore che specifica e caratterizza l’espressione artistica, come un mito di altri tempi, confondendo col calligrafico e col convenzionale che sono tutt’altra cosa.
Sempre equivoci sono la ricorrente asserzione del primato dell’arte, indebitamente assunta a unica e perenne rivelazione dell’Assoluto, e l’estetismo o contrazione di tutto il senso della vita nella sola dimensione estetica. Si disumanizza l’arte quando la si degrada a «eccitamento dei sensi, svago, distensione dello spirito affaticato» e si dimentica che essa non ha nulla a che fare con la sollecitazione di immagini vaghe e diffluenti, grossolanamente legate a stimoli sessuali, quali che siano le elucubrazioni di una certa critica, complice e pronuba del cattivo gusto, sempre disposta a vedere simboli profondi e misteriosi anche in ciò che è palesemente insignificante e immondo. L’arte non è passionalità, ma catarsi e trasfigurazione e, come ben vide Schelling, proprio per questo è sintesi inscindibile dell’ispirazione che crea e della riflessione che accompagna, controlla, disciplina con intrinseca autonomia il processo creativo.
L’opera d’arte non nasce se nel processo creativo l’artista non supera l’immediata impulsività, se non soggioga l’emotività grezza e il sentimento amorfo che è al di qua dell’arte. L’arte ha pertanto una sua propria intrinseca «eticità» che la costituisce e la caratterizza. Ogni distorsione dell’eminente eticità dell’arte è motivo di inautenticità artistica. Anche il grande artista non è più tale nel momento in cui, malgrado l’esperienza già vissuta e il sovrano dominio delle tecniche di espressione, sacrifica le esigenze dell’ispirazione al gusto corrente e al plauso di folle per le quali l’opera d’arte è semplicemente un ornamento, una moda, un capitale, l’eco o l’alibi d’incontrollate passioni. La conferma più efficace e drastica di questa verità l’ha data Pablo Picasso in una lettera a un amico, pubblicata poi nella “Neue illustrierte Wochenschau” del 24 ottobre 1971.
In essa l’artista più famoso del nostro tempo si duole, e con profonda amarezza, di aver ben presto dato al pubblico quello che il pubblico gli chiedeva, rinnegando con intimo disgusto, o comunque mettendo tra parentesi, le esigenze più schiette dell’arte. Le sue dichiarazioni sono così significative che meritano di essere citate per intero. «Ho soddisfatto questi amatori del nuovo e dell’eccentrico con i ghiribizzi che mi passavano per la testa e quanto meno li comprendevano tanto più li ammiravano! Divertendomi con questi giochetti divenni ricco e celebre, e questo assai presto. Ma quando sono solo con me stesso, non ho il coraggio di ritenermi un artista nel significato grande e nobile della parola. Sono solo un pubblico burlone che capisce il suo tempo e che ha sfruttato la stupidità, la vanità e l’avidità dei suoi contemporanei». Ma Picasso, per sua e nostra fortuna, ha tante volte superato la tentazione del calcolo e dello snobismo e ci ha rivelato le sue indubbie qualità.
L’arte non la si crea e non la si capisce se non come la conquista e la realizzazione di un valore in forme originali e concrete; esige, dunque, una potente tensione, un impegno che ha tutto il carattere di un’eticità formale, non imposta per esteriore decreto, ma scaturente dalle condizioni immanenti sia dell’attività artistica che crea l’opera bella, sia in forme diverse, dell’attività estetica che la contempla e la giudica. Né si può avere una profonda e specifica intelligenza di un’opera d’arte se in essa si cerca in primo luogo, o addirittura esclusivamente, il documento di un’epoca, di un tipo di produzione economica e di organizzazione sociale, secondo gli schemi del sociologismo marxisteggiante oggi in voga. Ricerche del genere sono sempre utili e possono avere una loro funzione ausiliaria e preparatoria all’intelligenza di un’opera d’arte, ma il valore di un’opera, e più in generale di un cultura, è direttamente proporzionale proprio alla sua capacità di suscitare echi e consensi ben al di fuori del proprio ambito storico. Grande artista è colui che è capace di esprimere idee, sentimenti, ideali che ogni altro uomo può liberamente rivivere. Le opere dei geni artistici e filosofici dell’Ellade, per fare esempio, valicano i confini della Grecia classica perché esprimono tanta parte della coscienza e dell’esperienza umana in ogni luogo e in ogni tempo.
Giornale di Brescia, 17 aprile 1975.