Privilegiata bambina nel lager: "Non sono passata per il camino"

Giornale di Brescia, 12 maggio 2008

Ognuno di noi ha una stella che ci guida, che ci indica un cammino. Francine Cristophe se la tiene ben stretta, come se fosse un oggetto prezioso, l’ha riposta in una custodia di cuoio per non sgualcirla e la porta sempre con sé nella borsetta. La sua è una stella di stoffa gialla con la scritta gotica «Juif» che l’accompagna dal giugno 1940, quando le leggi razziali imposero agli ebrei francesi di registrarsi al Commissariato di polizia su richiesta delle autorità tedesche di occupazione. Sua madre Marcelle e la nonna decisero che se quella stella era un segno evidente della loro identità, quel pezzo di stoffa andava preservato; cucirono pazientemente i lembi con una fodera rinforzandone la consistenza affinché non si sfilacciassero. Per non perdere la propria identità, le ricordava sua madre, la stella deve essere impeccabile. Molti, tornati dai campi di concentramento o di sterminio bruciarono quella stella, Francine Cristophe, sopravvissuta al campo di Bergen-Belsen, la esibisce con orgoglio come la memoria della sua infanzia rubata.
Su iniziativa della Ccdc, la Congregazione dei Padri Filippini della Pace, centro significativo della Resistenza bresciana e di opposizione al nazifascismo, ha accolto Francine Cristophe che ha dato testimonianza ad un pubblico commosso e partecipe, del dramma della Shoà vissuta da una bambina di otto anni. I ricordi di quei tre anni di prigionia, dal ’42 al ’45, li ha voluti donare ai suoi figli e ai suoi nipoti sotto forma di un libro: “Une Petite Fille Privilégiée. Une enfant dans le monde des camps (in italiano «Non sono passata per il camino»).
Francine è stata, parrebbe un paradosso, privilegiata perché in base alla Convenzione di Ginevra, ai familiari dei prigionieri di guerra francesi fu concesso di restare inizialmente nei campi di concentramento in Francia e di essere deportati con le madri. Ben diversa era la destinazione verso i campi di sterminio dove, poche ore dopo l’arrivo, si passava nei forni, come ad Auschwitz. Nonostante la realtà angosciante dei campi, Francine Cristophe ci restituisce un messaggio di straordinaria umanità perché ci ricorda: «essere ebrea significa possedere una comunità di sofferenza e praticare il rifiuto dell’odio». E questo avviene grazie alla magia di una narrazione che ha mantenuto la naïveté dei bambini che riescono a vivere le cose più terribili, con inconsapevole irrazionalità. Tra gli orrori, sbalza la personalità della madre Marcelle, donna straordinaria sempre pronta ad aiutare gli altri e che le ricorda di tenere la schiena sempre dritta, anche quando gli sguardi si fanno sprezzanti e le ingiurie ti apostrofano come «lurida ebrea».
«Cominciò tutto in maniera subdola», ha affermato Francine Cristophe, «con leggi restrittive e incomprensibili per chi come noi era animato da un autentico spirito patriottico; noi ebrei ci sentivamo francesi, mai avremmo pensato che ci sarebbe potuto accadere qualcosa di così atroce». Nessuno poteva immaginare, anche quando vennero imposte norme restrittive; ad un ebreo non era concesso possedere una radio, una bicicletta, un animale domestico, né fare la spesa. A poco a poco, tutto fu negato. Così i prodromi della Shoà trasformarono una routine quotidiana in una lotta per la sopravvivenza. La madre Marcelle inizia a chiamare la vacanze esodo, persone insospettabili diventano spie. Si aprono le porte del campo di Poitiers; è l’inizio di un peregrinare che porterà Francine a Bergen-Belsen per un interminabile anno tra bambini che non hanno più anima, con gli occhi spenti, esseri ai quali viene tolta ogni dignità, ridotti ad una condizione di «Untermenschen», uomini inferiori, secondo la logica nazista. Francine descrive il degrado a cui i prigionieri venivano sottoposti, le prove assurde e crudeli. Ma com’era la vita di un bambino nel campo, le viene chiesto. «Ridotti allo stato animale pensavamo solo al cibo, mi rotolavo per terra dai crampi della fame. Si giocava sì, ma alla conta dei morti ammucchiati, cercando di riconoscere un viso conosciuto con il quale avevamo condiviso la baracca». La testimonianza di Francine Cristophe pone il quesito di come si possa condurre una vita degna dopo un’esperienza nei campi di concentramento. È vero, momenti difficili ci sono stati come il ritorno a scuola, non riuscirà a studiare e ogni giorno le sembrerà sempre più doloroso, forse perché ogni deportato non è mai totalmente tornato dal suo campo. Ma è necessario salvare, nonostante tutto, l’umanità quella stessa che ha consentito il miracolo di essere sopravvissuta e di aver incontrato dopo molti anni a Marsiglia, un medico psichiatra che nacque proprio tra gli orrori di Bergen-Belsen. Fu aiutata dalla madre Marcelle e anche da Francine che rinunciò alla sua barretta di cioccolato per far sì che quella creatura potesse sopravvivere. Talvolta anche il filo spinato può germogliare a guisa di un ramoscello d’ulivo.