Giornale di Brescia, 22 novembre 2009
La riconciliazione in Iraq «o sarà frutto di solidarietà e ragione, o non sarà». Il cammino che si prospetta è difficile nella frammentarietà del Paese ripiombato nelle contrapposizioni tribali. Mons. Jean Sleiman, vescovo di Baghdad, affida la speranza a un impegno di lungo periodo, nell’Iraq che «ha bisogno di aiuto per liberarsi di un retaggio culturale: il dramma di oggi è l’incapacità di una riconciliazione». Su questo tema mons. Sleiman è intervenuto l’altra sera ad un partecipato incontro della Cooperativa cattolico-democratica di cultura nella sala Bevilacqua dei Padri Filippini della Pace. Libanese di origine maronita, carmelitano scalzo autore di studi di spiritualità e di scienze sociali, è arcivescovo di Baghdad dei Latini dal 2001: fautore del dialogo, con il libro «Nella trappola irachena» ha lanciato un appello alla riconciliazione nazionale autodeterminata.
Presentato dalla presidente della Ccdc Paola Paganuzzi, il suo intervento è stato preceduto da uno sguardo sulla situazione odierna dell’Iraq a cura di Riccardo Redaelli, docente in Cattolica e coordinatore di un programma italiano di cooperazione scientifica con il sistema universitario iracheno. I cristiani sono presenti nel Paese da tempi lontanissimi: erano un milione e 800mila negli anni ’80, oggi sono ridotti a 400mila e l’esodo continua, in questo «Paese di profughi, verso l’esterno e al suo interno». Al tempo della dittatura e delle sanzioni internazionali in Occidente «si vedeva un solo tipo di violenza». Al Qaeda ne ha fatto «una vetrina mediatica» da sfruttare, fino al 2007, quando i capi tribali sunniti hanno tolto l’appoggio all’organizzazione terroristica e gli Usa hanno rafforzato la presenza. C’è più sicurezza, ma non sono migliorate le condizioni politiche, mentre dilaga la corruzione nell’apparato statale e, dopo il passaggio del controllo militare alle forze irachene, gli attacchi sono di nuovo aumentati: «La violenza fa comodo a tanti, in vista delle elezioni di gennaio». L’Iraq ha alle spalle una storia di violenze, osserva mons. Sleiman, «il dramma dei cristiani e delle altre minoranze era già in germe: la guerra ha rimesso a fuoco la dinamica strutturale di questa società eterogenea. Il regime l’aveva gestita, ma non l’ha rinnovata. Alla sua caduta sono riapparse le tribù, come attori politici e la tribù vuol dire che non c’è persona, non c’è libertà, responsabilità, volontà di andare oltre. Il fondamentalismo in poco tempo è diventato una maniera di pensare: è il rifiuto dell’altro e la verità non ha posto». Restano «le ferite della storia, mai affrontate nella verità». Incidono gli effetti di «una modernità entrata in maniera aggressiva nella società tradizionale, che prova frustrazioni nuove». Non manca l’intelligenza, ma viene degradata a furberia, perché «la ragione non arriva ad avere il suo ruolo», mentre la religione strumentalizzata diventa fanatismo.
I cristiani, presenza millenaria, hanno perso il legame con il loro Paese, si rifugiano nelle tende dei profughi. «La paura non era così grande sotto il regime – osserva il vescovo -, ma la verità era spesso impossibile e oggi c’è una riconciliazione da fare con la verità, con il coraggio, con la speranza. Con Saddam c’era ordine, ma uccideva gli animi. Impauriti sotto Saddam, i cristiani sono disincantati dopo Saddam: in certe aree hanno subito persecuzioni, in altre soffrono per la pressione psicologica, in qualche isola si coesiste, con la condivisione di gioie e dolori nei matrimoni e nei funerali. Al nord i rifugiati non riescono ad inserirsi nell’ambiente curdo, all’estero le famiglie sono divise». In questo Stato che è «un insieme di staterelli, non c’è un denominatore comune». Il primo passo dovrebbe essere l’accettazione dello Stato, come unico arbitro e detentore di armi. La riconciliazione ha bisogno di un progetto, il concetto di potere è un fatto culturale e un aiuto si può dare con gli scambi culturali. «Ci vuole pazienza», dice mons Sleiman.