Giovedì 3 dicembre 2009 alle ore 20,45 nella Sala Bevilacqua, via Pace n.10 a Brescia su iniziativa di CCDC, Padri della Pace e Centro Studi per l’Educazione alla Legalità dell’Università Cattolica.
Ha coordinato l’incontro Nunzia Vallini, direttore di Teletutto
Raffaele Cantone ha tenuto una conversazione sullo stesso tema anche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, via Trieste, 17 – Sala Polifunzionale, alle ore 16,30.
Attualmente magistrato della Corte di Cassazione, Raffaele Cantone dal 1999 al 2007 ha ricoperto l’incarico di pubblico ministero presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli conducendo fondamentali indagini contro la camorra napoletana e casertana. In Solo per giustizia, in libreria per la Mondadori dall’ottobre scorso, ripercorre la propria esperienza sempre in prima fila contro la malavita organizzata.
“C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero lo si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi ‘bravi ragazzi’ spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama.
E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e, paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata” (pag.127).
Un uomo che si forma in una realtà del genere – ha scritto Roberto Saviano, legato a Cantone da un rapporto di amicizia nato intorno al suo libro Gomorra (in cui sono narrate vicende del casertano ben note al magistrato) e alla condivisione di una medesima, sconvolgente “vita sotto scorta” – capisce che il diritto è “uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita”.
E’ questa convinzione che guida Raffaele Cantone nel suo lavoro di magistrato e lo porta a trattare con la stessa volontà di fare bene il proprio lavoro, con uguale dedizione e sensibilità le vicende di un singolo cittadino gettato nel dolore da un caso di malasanità e le più complicate indagini sui clan camorristici.
Studente di giurisprudenza con l’obiettivo di diventare avvocato penalista, dopo una laurea a neppure ventitré anni con il massimo dei voti, attraverso un percorso di riflessione sui problemi posti alla sua coscienza dalla professione dell’avvocatura ma, in parte, anche casuale, è invece diventato il numero uno nella lotta alla più potente camorra imprenditrice (clan casertani e infiltrazioni all’estero). E’ autore di numerose pubblicazioni in materia giuridica, tra cui tre monografie: I reati fallimentari, La riforma del giusto processo, La prova documentale. Collabora con riviste giuridiche, quali Cassazione Penale, Rivista Penale, Archivio nuova procedura penale e Gazzetta Forense e con il quotidiano Il Mattino.
Anche grazie all’ incoraggiamento di Roberto Saviano, ora Cantone ha raccontato in Solo per giustizia la sua preziosa esperienza. Si tratta di una lettura assolutamente necessaria e consigliabile se si vuole approfondire il sistema di potere delle mafie ma anche conoscere come è fatta la quotidianità di chi le combatte: solo (soltanto e in solitudine) per giustizia, con un profondo senso del dovere ma nel tormento per le pesantissime ripercussioni che la propria professione ha sulla vita dei familiari.