Figlio di un ebreo polacco e di un’ebrea inglese, Henri Bergson seppe essere nella sua vita uno degli uomini più legati alla patria di adozione, la Francia, alla sua cultura e alla sua lingua; ma egli fu anche nello stesso tempo uno spirito universale, un vero cittadino del mondo. Ebbene, forse proprio per questo, egli ha colto in profondità uno dei nodi della storia contemporanea quando nella sua ultima grande opera, “Le due fonti della morale e della religione” (1932), oppone fermamente fra loro patriottismo e nazionalismo, essendo questo la perversione dei valori propri di quello e non certo la loro affermazione a livello più alto.
La coscienza nazionale è senso di appartenenza a una comunità di origine, di lingua, di cultura e di popolo, ma è saldamente inserita in un’idea universale di umanità; per il nazionalismo imperialistico è esattamente l’opposto. Per questo la coscienza nazionale è un ideale etico-politico ed un legame insostituibile, un aspetto fondamentale del bene comune, mentre il nazionalismo è un disvalore. La prima deve coniugarsi sia con una visone etica dell’ordine internazionale, da costruire senza lasciarsi fermare da difficoltà oggettive e da egoismi, sia con una filosofia dei diritti umani. Il secondo, invece, è una forma di darwinismo politico che proclama il diritto del più forte, rifiuta ogni prospettiva universalistica ed è violentemente ostile al liberalismo e alla democrazia.
Malgrado l’esaltazione fanatica della «tradizione» religiosa nazionale sia una costante del suo repertorio, il nazionalismo è nella sua essenza una forma di neopaganesimo anti-cristiano, avendo del fatto religioso ed ecclesiastico una visione strumentale. Fu una tragedia che, fatte le debite nobilissime eccezioni, si fosse oscurata nella politica e nella cultura dei Paesi europei la lucida consapevolezza della differenza fra patriottismo e nazionalismo. Differenza per lungo tempo ignorata anche alla cultura di sinistra, considerata nel suo insieme, come ha dimostrato lo storico di orientamento marxista Eric J. Hobsbawm in “Nazioni e nazionalismo dal 1780” (trad. it. Einaudi, Torino, 1991).
Molteplici sono le forme di nazionalismo. Ai poli estremi stanno, da un lato, l’ultra-nazionalismo feroce delle etnie, mescolate tra loro a pelle di leopardo e del tutto incapaci di convivere con chi abbia diversa lingua, religione e razza, come nella ex-Jugoslavia e in molte regioni dell’ex-Unione Sovietica, e, dall’altro, il nazional-imperialismo che ha segnato di sé tanta parte della storia del XX secolo.
Dal punto di vista ideologico, il nazionalismo fa della nazione l’assoluto terreno e il motore della storia, perseguendo all’interno di essa una politica di compattezza, finalizzata alla sua affermazione imperialistica nell’agone internazionale. Per alcuni marxisti, come Georges Sorel (1847 – 1922) e Benito Mussolini (1883 – 1945), non fu difficile vedere nel nazionalismo e nella lotta delle nazioni «proletarie» contro quelle «plutocratiche» la nuova via che doveva imboccare la lotta di classe; di qui il loro passaggio dal socialismo rivoluzionario al nazionalismo. Il nazionalismo fu così, per un verso, l’ideologia più funzionale agl’interessi dei ceti produttori, che reclamavano con la «nazione armata» una politica di potenza ed una economia protetta, cioè monopolistica; per un altro verso, la corrente di sinistra del nazionalismo mirava a costruire all’interno dello Stato nazionale il socialismo ( lo scritto Stato commerciale chiuso di Fichte del 1800 è la prima teorizzazione del nazionalismo socialista).
In Europa nel secolo XX il nazionalismo come ideologia politica, che sostituisce la lotta fra le classi con la lotta fra le nazioni, è stato elaborato soprattutto in Francia, Italia e Germania. In Francia l’esponente più noto è Charles Maurras, che fondò e diresse il quotidiano “Action française” (1908 – 1944), da cui prese nome anche il movimento politico. Maurras nel ’45 fu condannato all’ergastolo per collaborazionismo con l’invasore nazista. In Italia il maggior teorico del nazionalismo fu Enrico Corradini (1865 – 1931), il quale nel 1903 fondò la rivista “Il Regno” e nel 1910 costituì l’Associazione nazionalista italiana. I nazionalisti italiani – che assursero alla leadership dell’opinione pubblica del Paese durante la guerra di Libia (1911 – 1912) – confluirono nel fascismo. In Germania nei primi decenni del secolo il corifeo del nazionalismo è Alfred Hugenberg (1865 – 1951), l’industriale che, entrato in politica nel ’19, divenne il leader del Partito nazionale popolare tedesco. Grazie anche al controllo sulla maggioranza dei giornali tedeschi e sulla casa cinematografica Ufa, egli favorì l’ascesa di Hitler, entrando a far parte nel ’31, come suo alleato, del «fronte nazionale». Ministro dell’Economia e dell’Agricoltura nel gennaio ’33, si dimise sei mesi più tardi, in seguito alla soppressione da parte di Hitler del suo partito. L’aperta rottura fra nazione e umanità si era, però, consumata in Germania durante la seconda metà dell’Ottocento, sì che il razzismo e l’antisemitismo erano divenuti già da allora aspetti costitutivi dell’ideologia nazionalistica, così come il disprezzo dei principi liberal-democratici. Tuttavia i veri maestri del nazionalismo razzista nel mondo germanico non furono tedeschi, ma un francese, Joseph-Arthur Gobineau (1816 – 1882), e un inglese, tedesco di adozione, Houston Stewart Chamberlain (1855 – 1927), genero del musicista Richard Wagner.
Numerosi pubblicisti dell’epoca svilupparono in altri Paesi d’Europa idee analoghe e con lo stesso settarismo pseudo-scientifico, ma senza conseguenze politiche di rilievo. La Francia, ad esempio, superò la crisi dell’affare Dreyfus e da allora in poi le ideologie democratiche ebbero la meglio sul nazionalismo antisemita. In Germania, invece, gli scrittori antisemiti, soprattutto quelli di Chamberlain, trovarono ottima accoglienza in vasti ambienti della borghesia: non ultimo, l’imperatore Guglielmo II entrò a far parte della schiera dei loro entusiasti lettori e propagandisti. Chamberlain, prima di chiudere la sua vita nella Bayreuth di Wagner nel 1927, si vide esaltato come «profeta del nazionalsocialismo».
Chi portò al parossismo la connessione tra nazionalismo imperialistico, antisemitismo e razzismo biologico fu Adolf Hitler (1889 – 1945), fondatore e guida, Führer, del nazionalsocialismo. I capisaldi del nazionalsocialismo sono: l’esaltazione della presunta superiorità della razza ariana e in essa del popolo tedesco, l’Urvolk per eccellenza, cioè la collettività che meglio realizza e rinsalda l’originario legame di terra, sangue e tradizione; la dittatura del partito nazista sullo Stato e la conseguente divinizzazione di esso; il postulato per cui si deve vedere negli ebrei il nemico numero uno e nella loro distruzione – in Germania prima, in Europa poi – l’obiettivo di fondo; la necessità di assicurare alla Germania una potenza militare tale da rendere vittoriosa la sua politica di persecuzione razziale su vasta scala e di espansione. La Germania nazista considerava indispensabile all’attuazione del suo disegno l’assoggettamento dell’Est europeo. La forza-lavoro degli slavi schiavizzati e le immense risorse dei territori in cui essi sono stanziati dovevano servire a garantire lo «spazio vitale» agli Herrenmenschen (dominatori). Hitler prese il potere nel 1933 e realizzò brutalmente, una dopo l’altra, in una sequenza infernale, le sue ossessioni ideologiche. Del resto nel libro “Mein Kampf” («La mia battaglia»), scritto in carcere nel 1924, egli aveva espresso senza mezzi termini le mete a cui tendeva e i mezzi che avrebbe usato.
Fu un tragico errore per la Germania e per l’occidente lasciarsi sviare dalla propaganda nazista che, dopo ogni colpo di mano del dittatore, rassicurava l’opinione pubblica accreditando Hitler, all’interno, come «uomo d’ordine», e in politica estera come un «sincero patriota», un «revisionista» desideroso solo di liberare il popolo tedesco dalle dure imposizioni del Trattato di Versailles.
In realtà, i progetti di Hitler erano radicalmente diversi e di assai più vasto raggio. Per sconfiggerlo si è combattuta una guerra mondiale, che ha visto l’orrore dell’Olocausto e il declino dell’Europa.
Giornale di Brescia, 12.10.1994.