Tacito suggerisce la più densa e breve definizione di “personalità”. Due sole parole: imago vitae. Mi sono domandato più volte come andò configurandosi, agli occhi dello stesso Bergson, la sua imago vitae, cioè attraverso quali esperienze e scelte egli ne prese coscienza e ne fece l’intima sostanza della sua esistenza? Figlio di genitori poveri e senza fissa dimora – pianista ebreo polacco il padre, ebrea inglese la madre – Bergson vive lontano dalla famiglia in collegio, come borsista, l’intero periodo della sua formazione, a partire dal decimo anno, da quel 1870-71 che vide Parigi occupata dai prussiani, la Comune e gli orrori della guerra civile. Ebbene, fu Bergson ragazzo e preadolescente a scegliere per conto suo la Francia come patria. E si identificò a tal punto con la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, la sua anima, da diventare egli stesso la più alta espressione del genio francese nel secolo XX, la sintesi vivente di esprit de géometrie ed esprit de finesse.
Molto illuminante è poi il rapporto con la madre, per la quale Bergson nutrì un’autentica venerazione, come del resto era capitano ad Agostino e a Kant. Di lei ammirava l’intelligenza superiore e la profondità di vita religiosa. Costretti a vivere separati, eccetto che per brevi periodi di vacanza, madre e figlio si scrivevano ogni settimana e si intendevano perfettamente. Tuttavia è poco più che un ragazzo, Henri, quando decide di abbandonare la Sinagoga e la religione che pure aveva insegnato a sua madre le vie della sanità. Come al solito, nessun ribellismo, nessun volgare disprezzo per ciò che lasciava, ma una decisa ancorché rispettosa “messa tra parentesi” del problema religioso, in attesa di acquisire gli strumenti idonei per un’esplorazione in profondità di quel fenomeno.
Nel 1907, con la pubblicazione di un libro ardito e affascinante, “L’evoluzione creatrice”, Bergson diventa il filosofo più conosciuto, amato e discusso di tutto il mondo. Ma i problemi lasciati aperti da “L’evoluzione creatrice” sono lì ad indicare prospettive e direzioni dell’ulteriore ricerca. L’evoluzione non è più creatrice di specie e lo slancio vitale si é esaurito con l’uomo, oppure con l’uomo qualcosa finisce perché un’altra cominci? L’altra domanda che si pone è: se lo slancio vitale rinvia a una Sorgente e, in caso affermativo, se si identifica con essa o se ne distingue. A Bergson, insomma, da ogni parte si chiedeva di pronun¬ciarsi su Dio, ma il filosofo aveva l’umiltà di dichiarare: “Io non rispondo a certe questioni se non le ho ancora studiate. È un atto di elementare probità da parte del filosofo” (A. Adés, “Adés chez Bergson”. Parigi, 1949, p. 147). Non si esimeva, però, dal chiarire il principio metodologico a cui intendeva rimanere fedele nella sua ricerca: “La verità consiste in questo: che un’esistenza non si dà a noi se non attraverso un’esperienza” (“La pensée et le mouvant”, in “Oeuvres”, Puf, p. 1292). Orbene questo deve valere anche per il problema morale e religioso: dunque, solo lo studio dell’esperienza morale e religiosa dell’umanità – colta inseparabilmente en bas, cioè nei suoi meccanismi impersonali e istintivi, e en haut, nelle sue manife-stazioni più splendide – ci metterà in grado di dire qualcosa di sensato su una questione di così straordinaria importanza e complessità.
A quali conclusioni pervenne Bergson sul problema religioso, nelle “Due fonti”? Per il filosofo francese due sono le vie in cui lo slancio vitale continua il suo cammino all’interno dell’umanità: la creazione artistica e la creazione morale. L’eroismo morale, a sua volta, appare legato in profondità a un sentimento religioso della vita. Il punto di partenza è un dato innegabile: l’uomo ha una condotta duplice, che attesta la sua reale miseria e la usa reale grandezza. Da tale duplicità scaturisce una tensione costitutiva, che la filosofia non può ignorare. Vi è, infatti, una società chiusa, dominata dall’egoismo di gruppo, che impone i suoi imperativi; in essa vige una morale da clan, dettata quasi eslcusivamente dalla pressione sociale. Il contenuto di questa morale può riassumersi in tre parole: “autorità, gerarchia, fissità”. Ma l’uomo è intelligente e l’intelligenza è dubbio, curiosità, inventiva. Vi è in essa qualcosa che scompiglia l’istinto. Per essa l’uomo diviene consapevole che la morte è inevitabile e che la sua esistenza è insidiata dall’imprevedibile. E l’una e l’altra cosa bastano a mandare in frantumi l’ordine della società chiusa. Sorge allora il problema: come riattaccare l’uomo alla vita e l’individuo alla società? Come ridar forza all’obbligazione sociale, messa in crisi dall’intelli-genza? La risposta della natura sarà l’attività fabulatrice che genera i miti e le credenze della religione statica come reazione difensiva contro il potere disgregatore dell’intelligenza, la paura della morte e l’angoscia che mette in noi l’imprevedibile.
È press’a poco a questo livello che si sono accostati nelle loro analisi Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud. Ma ci si deve chiedere – incalza Bergson – se non vi sia un’altra religione, che riprenda lo slancio creatore all’interno della specie umana. La risposta non può venire che dall’esperienza dell’umanità. Ebbene, la storia attesta in modo irrefutabile questo fatto: sotto ogni cielo e, pur senza conoscersi tra loro, nei contesti culturali più diversi, vi sono stati e vi sono uomini e donne che, invertendo la direzione naturale dell’istinto e dell’intelligenza, sono impegnati in uno sforzo generoso per oltrepassare la condizione umana. Questa storia, di cui ogni uomo è chiamato a far parte, ha le sue avanguardie e i suoi modelli negli eroi della vita morale, nei grandi santi, nei mistici autentici. Costoro lottano per affrancare se stessi e i loro simili dalla schiavitù dei conformismi sociali e vivono secondo uno spirito di creatività che Bergson chiama “morale dell’aspirazione”. L’appello dell’eroe si fa effettivo e totale slancio d’amore nella religione dinamica, la quale ci riporta direttamente alla Sorgente divina e nello stesso tempo fa di noi, sul piano storico, i costruttori di una società aperta ai valori universali e alla fratellanza di tutti gli uomini.
Che cosa sta a significare tutto ciò sul piano filosofico, quali apporti metafisici ci vengono dall’indagine sull’effettiva realtà e la straordinaria efficacia storica di quest’altra dimensione religiosa? In che direzione hanno agito nella storia le virtualità del Vangelo? Come si mescolano le due religioni nella vita dei popoli? Qual è oggi e quale potrebbe essere il rapporto tra l’ambivalente civiltà della tecnica e la mistica? Sono queste alcune delle grandi domande a cui Bergson non si è certo sottratto.
Io sono convinto che, senza proporselo, le “Due fonti” costituiscano, grazie al metodo comparativo praticato, l’ultima e la più bella apologia del Cristianesimo, al cui vertice sta per Bergson il testo per antonomasia della religione dinamica, il “Discorso della Montagna”. Questo è il risultato della lunga ricerca, ma esso è stato conseguito solo con metodo filosofico e, comunque, al di qua dell’adesione o della non adesione della persona del filosofo alla fede. Di una tale adesione sappiamo solo dalla lettura post mortem del “Testamento”, che fu scritto nel 1937, cinque anni dopo la pubblicazione delle “Due fonti”. Sono poche righe, ma la loro lettura non ha mai cessato di commuovermi: “Le mie riflessioni – è detto testualmente – mi hanno portato sempre più vicino al cattolicesimo in cui vedo il coronamento completo del giudaismo. Mi sarei convertito se non avessi visto che da anni si preparava la formidabile ondata di antisemitismo che sta per scatenarsi nel mondo. Ho voluto restare tra quelli che domani saranno perseguitati”.
Giornale di Brescia, 23.2.1997.