Quando eravamo studenti, alle soglie della storia della filosofia, ci siamo imbattuti in un ostacolo molto difficile da superare: i famosi argomenti, detti anche sofismi di Zenone di Elea. Elea era la cittadina che, come si sa, sorgeva in Campania, una delle zone allora più fiorenti della Magna Grecia. Quegli argomenti forse ci sembrarono un rompicapo, un gioco, eppure ad essi sono interessati la stoffa del reale e il segreto delle sue trasformazioni. È quello che intuì un giovane professore di filosofia, il cui nome di lì a poco sarebbe divenuto celebre in tutto il mondo, che decise di fare i conti, e fino in fondo, con l’Eleate.
Quel Professore era Henri Bergson.
Bergson racconta all’amico Charles Du Bos che nel 1884, dovendo tenere ai suoi allievi di Clermont-Ferrand una lezione sugli argomenti di Zenone, vide con chiarezza l’insostenibilità della tesi centrale dell’eleatismo, che nega il divenire reale e quindi il tempo. Ebbene, quella negazione attraversa, in modo ora esplicito ora sotterraneo, non solo la filosofia greca, ma tanta parte del pensiero moderno e contemporaneo. Per liberare l’Occidente da Parmenide occorre, dunque, misurarsi con i paradossi di Zenone.
II ragionamento di Zenone è semplice: ove si supponga che lo spazio e il tempo siano divisibili all’infinito, non si dà movimento. Per raggiungere il termine bisogna, infatti, che l’oggetto mobile arrivi a metà della corsa; ma vi sarà sempre, in uno spazio pensato come divisibile all’infinito, una metà della metà, e poi ancora una metà della metà, e così via. È il cosiddetto argomento della “dicotomia”, o divisione in due, su cui in realtà poggiano gli altri, che di quello sono nulla più che esemplificazioni. Achille raggiunge d’un balzo il punto in cui era la tartaruga, ma gli occorre fare ancora un passo per raggiungere il punto in cui essa si è portata mentre egli faceva il primo, e così di seguito, all’infinito. Ne consegue che “il piè veloce” per antonomasia non raggiungerà mai la lentissima tartaruga. Parimenti, se una freccia scoccata dall’arco è in ogni istante in un punto dato, ciò vuol dire che rispetto a quel punto è ferma; immobile in ciascun punto della traiettoria, essa è pertanto immobile durante tutto il tempo del suo… movimento.
Bergson affronta per la prima volta i sofismi di Zenone esplicitamente nel secondo capitolo del “Saggio sui dati immediati della coscienza”, la sua prima grande opera pubblicata nel 1889. Sfugge a Zenone e anche ai suoi critici – osserva Bergson – che ci sono due elementi da distinguere nel movimento: da un lato c’è lo spazio percorso, dall’altro c’è l’atto con il quale lo si percorre e c’è pure la sintesi, operata dalla nostra coscienza, delle posizioni successive per le quali il mobile è passato: “Una sintesi per così dire qualitativa, un’organizzazione graduale delle nostre sensazioni successive con le altre”. Ebbene, “il primo di questi elementi è una quantità omogenea, il secondo non ha realtà che nella nostra coscienza ed è, pertanto, una qualità, o se si vuole un’intensità”. Nel nostro modo di pensare, invece, e ancor più nel linguaggio, si verifica una mescolanza tra la rappresentazione estensiva dello spazio percorso e la percezione intensiva del movimento. In tal modo “noi attribuiamo al movimento la divisibilità dello spazio che percorre, dimenticando che si può dividere una cosa, non un atto”. L’“illusione degli Eleati” dipende dall’aver essi identificato un atto indivisibile come il movimento con lo spazio omogeneo che egli è sotteso, e quindi la succes-sione con la simultaneità, la durata con l’estensione, la qualità con la quantità. E l’illusione, si badi, non è solo un errore: è una maniera abitualmente sbagliata di vedere le cose.
La scienza, che opera di continuo con le nozioni di tempo e di spazio, si è resa conto della “illusione degli Eleati”? Niente affatto – risponde Bergson. “La scienza non opera sul tempo e sul movimento se non a condizione di eliminare prima di tutto l’elemento essenziale e qualitativo: dal tempo la durata, e dal movimento la mobilità”. In “Materia e memoria”, nel quarto capitolo, rivolgendosi idealmente ai maestri e ai seguaci dell’eleatismo, Bergson scrive: “Voi sostituite la traiettoria al tragitto, e poiché il tragitto ha sottesa la traiettoria, credete che coincida con essa. Ma come potrebbe coincidere un progresso con una cosa, un movimento con un’immobilità”? Si consideri, ad esempio, il tragitto della mia mano da A in B. Esso è dato alla mia coscienza come un tutto indiviso. Ma dal momento che descrive nello spazio una traiettoria, che posso rappresentarmi come una linea geometrica, per una sorta di simmetria io sono portato a dividere in parti separate, che chiamo istanti, anche il movimento e il tempo che lo misura, in corrispondenza della traiettoria e dei suoi punti. Si può, dunque, affermare che “il movimento immediatamente percepito è un fatto molto chiaro e le contraddizioni segnalate dalle scuole di Elea riguardano molto meno il movimento stesso che una riorganizzazione artificiale di esso da parte dello spirito”.
La riflessione sui paradossi di Zenone ritorna nel quarto capitolo dell’”Evoluzione creatrice”. L’argomento vittorioso è riformulato con la massima chiarezza possibile. “Il movimento, una volta effettuato, ha disposto lungo il tragitto una traiettoria pensata come immobile, sul conto della quale, si possono contare tante stazioni quante se ne vorrà. Di là se ne conclude che il movimento, anche quando è in via di effettuazione, depone in ogni istante al di sotto di sé una posizione con la quale viene a coincidere. Zenone non vede che se si può dividere a volontà la traiettoria, una volta che sia stata prodotta, non si saprebbe dividere il suo prodursi, che è un atto di progresso e non una cosa”.
L’Eleate, in fondo, fa leva su una pretesa assurda, ma profondamente radicata nella nostra intelligenza: “Fabbricare una transazione con degli stati”, “con ciò che è fatto ricostruire ciò che si fa” (avec ce qui est fait reconstituer ce qui se fait). Noi ci esprimiamo necessariamente con parole e a causa delle immagini spaziali, di cui è intessuto il nostro linguaggio, pensiamo per lo più nello spaziò, ossia spazializzando tutto. In questa situazione venne a trovarsi anche la filosofia, fin da quando aprì gli occhi (dès que ouvrit les jeux), e si può dire che in ciò consiste il suo peccato d’origine.
Insomma, l’eleatismo come filosofia professata è morto, anche se non mancano isolati pensatori “neo-parmenidei”, ma esso “domina in una specie di subconscio metafisico”, come dice acutamente Henri Gouhier, nell’”Introduzione alle Oeuvres” bergsoniane, perché in un certo senso la nostra intelligenza lo secerne naturalmente. Questo spiega perché la critica degli argomenti di Zenone ritorna per oltre vent’anni, dal “Saggio”, che è del 1889, alla conferenza “La percezione del cambiamento”, tenuta nel 1911.
Bergson ha conferito a quel pensatore del V secolo a.C. il ruolo di contrapposizione semantica estrema nei confronti della prospettiva che egli andava elaborando.
Giornale di Brescia, 31.8.1996.