Dalla protesta è nata la nuova filosofia

Non c’è grande pensiero che non sembri creare un mondo nuovo e che non conferisca una potenza evocatrice a termini che designano un’esperienza, su cui prima non s’era riflettuto abbastanza, dilatandone infinitamente il significato. La filosofia nasce sempre da un atto di meraviglia, come ben videro Platone e Aristotele, ma anche – e l’aggiunta è di Bergson – da un’appassionata protesta. La protesta di Bergson si levò contro impostazioni e pregiudiziali metodologiche che ai suoi occhi mutilavano la realtà, negando conoscibilità e valore a quei fatti d’esperienza verso i quali scattava una sorta di implacabile divieto d’indagine.
Che cosa ha suscitato in Bergson quella meraviglia da cui germina ogni autenti¬ca interrogazione filosofica e contro che cosa egli ha protestato, dalla prima al¬l’ultima opera, durante la sua vita? Quando Bergson si era formato e negli anni del suo insegnamento secondario, il positivismo trionfava e, più ancora, lo scientismo materialista. Era ormai opinione diffusa che l’unico sapere “positivo” possibile fosse quello scientifico.
Comte nella prima metà dell’Ottocento aveva impresso nella cultura e nell’opinione pubblica un vigoroso impulso in quella direzione; ma nella seconda metà del secolo quell’orientamento si era trasformato in una sorta di idolatria della scienza fisico-matematica e del meccanicismo, a cui si attribuiva carattere di assolutezza ed estensione universale, al punto che una scienza sarebbe divenuta “positiva” solo se la serie dei fenomeni che essa indaga – fosse anche la vita, la psiche, la condotta umana, la politica e la storia – fosse riconducibile a formule matematiche, poiché sapere significa, in ultimissima istanza, conoscere l’eterna necessità del tutto.
Una siffatta mentalità divenne pervasiva di tutto e i francesi per designarla coniarono un termine, scientisme (scientismo), quasi a significare – ma a provarlo sarebbe stato proprio Bergson – che la scienza sta allo scientismo, che ne è l’enfatizzazione fanatica, come l’arte autentica sta a quella malattia dello spirito che è l’estetismo. Il pensatore che meglio rappresentò quella forma mentis fu il Taine, per il quale tutti i fatti, e quindi anche i fatti di coscienza, non sono qualitativamente diversi fra loro, perché tutti determinati da un’unica legge, la legge della causalità meccanica.
A Bergson toccherà misurarsi con i presupposti del positivismo e dello scientismo ma ciò che prepara e accompagna la ricostruzione filosofica intrapresa dal pensatore francese rimane l’esperienza, sempre presente nella sua coscienza e incessantemente approfondita, di ciò che era negato, o semplicemente ignorato dalle correnti filosofiche e culturali che occupavano quasi per intero la scena. È l’esperienza del perpetuo sbocciare della vita, dell’imprevedibile novità che si manifesta incessantemente nell’universo; della parziale, e qualche volta totale, non-coincidenza fra gli inizi e gli esiti, fra le cause e gli effetti, fra le mie rappresentazioni e l’avvenimento, che si produce in me o davanti ai miei occhi, fra quello che attendo e quello che mi sarà dato. È la presenza, data a ognuno di noi in un arcobaleno di sfumature, della “qualità”, e dunque della diversità, che la scienza disdegna a vantaggio del numero, non ritenendo dei fenomeni che gli aspetti quantitativi, anche se è la qualità che impreziosisce la vita e ne rivela la realtà sostanziale. Il reale, infatti, è sempre colorato, odorante e sonoro, resiste o cede alla pressione della mano. Ogni esistente ha qualcosa di incomparabile che fa la sua individualità. La qualità del reale è, dunque, il suo valore ed è offerta alla sensibilità di ognuno, dell’ignorante come del dotto, del bambino, che ne accoglie spontaneamente l’incantesimo, e dell’artista, che tenta di captare ed esprimere nel suo linguaggio la commozione che essa gli apporta.
La nuova filosofia rivendica, come mai prima era accaduto, la realtà sostanziale del divenire e del tempo, in cui gli esseri sono e trovano la loro consistenza. La polemica, che attraversa l’intera opera di Bergson, è diretta pertanto nei confronti di tutto ciò che nega o svilisce, il divenire e il tem-po, rendendo così del tutto inspiegabili lo zampillio di novità, il rilievo della qualità, la creazione continua, l’azione libera, l’esercizio della responsabilità, le invenzioni dell’eroismo morale e della santità, come pure l’umile, e tuttavia mirabile, durata del tempo necessario alla fruttificazione, o a far sciogliere una zolla di zucchero in un bicchier d’acqua, giacché a nessuno è dato comprimere il tempo di fusione. Gli uomini speri¬mentano fuori di ogni dubbio che tutto è nel mutamento e tuttavia, anche se in forme diverse, per ragioni pratiche o per bisogno di sicurezza, nel linguaggio corrente e perfino in quello della speculazione filosofica, si sforzano continuamente di abolirlo. È impressionante come riesca facile al pensiero snaturare il tempo riducendolo a spazio, distruggere la diversità percepita a vantaggio di un’identità astrattamente pensata, estinguere le differenze, cancellare la qualità per ridurla a quantità omogenea e a misura. Lo scandalo che Bergson non cesserà mai di denunciare è che il tempo sia apparso appunto uno scandalo per il pensiero, quasi fosse il luogo dove le cose non possono essere mai afferrate perché non sono mai compiute, un qualcosa che è lì solo per attestare una sorta di deficit.
La presa di posizione di Bergson diventa sempre più esplicita: il mutamento e il tempo non sono parvenze ingannevoli, qualcosa che concerne l’imperfetto (Aristotele diceva “il mondo sublunare”), il non-essere piuttosto che l’essere. La filosofia di Bergson sarà una sorta di rigorosa psicanalisi di queste credenze collettive divenute presupposti pseudo-metafisici. La nuova filosofia si presenta, dunque, come un rovesciamento della concezione tradizionale, non per una sorta di antitesi dialettica, ma solo perché, invece di dissolvere il mutamento e il tempo, essa mira a insediarci nell’uno e nell’altro per meglio afferrare come gli esseri diventano quello che sono. Filosofare significa, allora, scongelare gli esseri dalla loro falsa immobilità e mettersi in grado di ascoltare, per così dire, il fluire della realtà.

La riflessione, semplicissima e originale, che suscitò “grande stupore” in Bergson e dette il primo avvio al “mutamento”, fu la seguente: “Se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte più rapidamente, non ci sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, né nei numeri che noi vi facciamo entrare” (“Saggo sui dati immediati della coscienza”, in “Ouvres”, C.U.F., Pars 19703, 77-78). Al limite, se una rapidità infinita racchiudesse il successivo nell’istantaneo, nessuna formula scientifica, sarebbe modificata. Che cosa sta a significare un’ipotesi del genere?
A ventidue anni Bergson lascia la Scuola Normale e va ad Angers, a insegnare filosofia nel Liceo di quella cittadina. Ad Angers si ferma due anni. Molto tempo dopo, rispondendo ad una lettera del pensatore statunitense William James, che gli aveva scritto per chiedergli qualche informazione biografica, dovendo preparare una conferenza sulla sua opera, il filosofo francese spiega in poche righe come egli vedesse allora la storia del suo spirito: “Per quanto riguarda avvenimenti notevoli, non ve ne sono stati nella mia vita. Ma, soggettivamente, non posso impedirmi di attribuire una grande importanza al mutamento sopravvenuto nel mio modo di pensare durante i due anni che seguirono alla mia uscita dalla Scuola Normale, dal 1881 al 1883”. La lettera prosegue chiarendo in che cosa consiste tale “mutamento totale” e quale ne fu l’occasione. “Fino ad allora ero rimasto del tutto imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero giunto assai presto grazie alla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo senza riserve. Mia intenzione era di consacrarmi a ciò che allora si chiamava la filosofia delle scienze; a tal fine avevo intrapreso, dalla mia uscita alla Normale, l’esame di qualche nozione scientifica fondamentale”. Ebbene, fu “l’analisi della nozione di tempo, così come interviene in meccanica o in fisica, che scompigliò tutte le mie idee. Mi accorsi con mio grande stupore che il tempo scientifico non dura, che non vi sarebbe stato nulla da mutare per la nostra conoscenza scientifica delle cose se la totalità del reale fosse spiegata d’un tratto, in un istante, e che la scienza positiva consiste essenzialmente nella eliminazione della durata. Questo fu il punto di partenza di una serie di meditazioni che mi portarono progressivamente a respingere quasi tutto ciò che avevo accettato fino ad allora e a mutare totalmente il mio punto di vista” (“Écrits et paroles II”, P.U.F., Parigi, 295 – “Lettera del 9 maggio 1908”).
Se una delle nozioni scientifiche fondamentali è quella di tempo, e se l’analisi del tempo della scienza fisico-matematica mostra che essa è indifferente ed estranea al mutamento reale che invece viene attestato in modo irrefutabile dalla vita della coscienza, ebbene allora si deve concludere che il fatto di cui noi siamo meglio garantiti è incontestabilmente la realtà del nostro io cosciente, la nostra coscienza, per la quale il tempo è una realtà sperimentata e la parola esistere significa appunto continuità e novità di durata nel mutamento. Il tempo vissuto è la nostra “durata reale” (durée réelle), la quale si può cogliere solo là dove è vissuta, cioè nella coscienza.
Alla mente del giovane filosofo apparve sempre più evento di straordinario significato che nel secolo XIX, che volgeva ormai alla fine, fossero sorte e tendessero a darsi un rigoroso statuto epistemologico la biologia, la psicologia e la sociologia, cioè scienze che osservano e sperimentano, servendosi della matematica, ma senza il segreto pensiero che l’intelligibilità di ogni livello di realtà sia esclusivamente di tipo matematico, o possa essere comunque racchiusa in una formula matematica.
Bergson comprese che sotto i suoi occhi si stava svolgendo la seconda rivoluzione scientifica – dopo la prima di Galilei, Cartesio e Newton – con lo sviluppo impetuoso della biologia, della psicologia e della sociologia. Sviluppo che metteva, però, in evidenza le idee di probabilità e di discontinuità, l’irriducibilità di ogni tipo di fenomeni vitali a ciò che sembra prepararli; quelle scienze nuove, inoltre, come aveva ben visto Boutroux, provavano nei loro rispettivi campi la contingenza delle leggi. Infatti più un fenomeno è complesso e si presenta sotto un aspetto preciso e determinato, meno è soggetto a necessità. A mano a mano che saliamo nella scala delle scienze, dalla logica e dalla matematica fino alla psicologia, noi troviamo più libertà: la ripetizione dell’identico, l’omogeneo e il necessario che regnano incontrastati solo nell’astratto, si manifestano, certamente, anche nei viventi, ma solo alla superficie. Le nuove scienze, dunque, facevano scricchiolare il presupposto meccanicistico, cioè uno schema arbitrariamente esteso da una parte della fisica, la meccanica, dove assolve una sua funzione, a tutto il reale, e a ogni conoscenza scientifica di esso, compreso l’uomo nelle molteplici forme della sua attività. Per Bergson, invece, e questa è una di quelle idee che illumina il significato storico della sua opera, l’avvento delle scienze della vita impone una nuova instaurazione filosofica, una filosofia che sia “positiva”, tale cioè da “modellarsi sul contorno dei fatti che studia”.
All’evidenza di tipo matematico si aggiunge adesso un’altra chiarezza, quella dei fatti esattamente stabiliti. Occorre fare finalmente, osserva Bergson, non quello che Cartesio fece nel suo tempo, ma ciò che avrebbe fatto nel nostro “dinanzi a una scienza più flessibile, nutrita di un’esperienza più vasta e disposta ad ammettere nei fenomeni della natura una complessità di organizzazione che non si può ridurre senza disagio al meccanicismo matematico”. Di qui l’ardita scelta di Bergson. “Occorre rompere i quadri matematici, tener conto delle scienze biologiche, psicologiche e sociologiche, e su questa più vasta base edificare una metafisica capace di salire sempre più in alto mediante lo sforzo continuo, progressivo, organizzato di tutti i filosofi associati nello stesso rispetto dell’esperienza”. La storia impone oggi una rottura dell’alleanza, conclusa da Platone e rinnovata da Cartesio, tra metafisica e matematica e, al suo posto, l’avvento dell’alleanza tra metafisica e scienze della vita.

Le riflessioni svolte da Bergson nel “Saggio” sono direttamente legate al “grande stupore”, che è all’origine della svolta filosofica. Quello stupore, però, per tradursi in acquisto di verità aveva bisogno di un difficile lavoro di smascheramento degli schemi e delle immagini del “tempo spazializzato”, cioè ridotto a spazio e pensato come se non fosse altro che spazio. Questa prima figurazione del tempo è rappresentata perfettamente dal tempo convenzionale del calendario e degli orologi, quello che regola il trambusto quotidiano e lo svolgersi della vita sociale, ma anche quello che viene usato da quelle scienze finalizzate al dominio e all’uso delle cose. Consideriamo, per esempio, il tempo scandito da un orologio.
La lancetta che segna i secondi copre in un minuto primo uno spazio suddiviso in sessanta parti. Ognuna delle parti dello spazio raggiunta dalla lancetta è omogenea all’altra e tutte coesistono in uno spazio omogeneo. Essendo uguali e collocate le une accanto alle altre, le parti dello spazio non si potrebbero distinguere se non fossero l’una fuori dell’altra, l’una esterna all’altra. La lancetta sul quadrante simbolizza la successione dei secondi con le porzioni di spazio che occupa. Il suo tempo è, quindi, perfettamente “spazializzato”, ha cioè i caratteri che troviamo nello spazio. Spogliate di ogni differenza qualitativa, le porzioni di spazio identificate con il tempo occorrente per coprirle possono essere contate, mediante l’aggiunta di unità a unità, e sono misurabili, in rapporto alla quantità di spazio che occupano. Noi siamo naturalmente convinti che l’orologio ci indichi delle variazioni temporali, ma i suoi prima e i suoi dopo non sono altro che dei qua e dei là. Un tempo così concepito non può essere che un “concetto bastardo” (concept bâtard) perché irrimediabilmente compromesso dall’idea di spazio.
La confusione del tempo e dello spazio è così abituale che l’uno e l’altro vengono trattati come cose del medesimo genere e collocate sul medesimo piano. Si indagano prima la natura e le funzioni dello spazio e poi se ne trasferiscono le conclusioni sul tempo; e poiché lo spazio è definito come l’omogeneo da cui è assente ogni qualità, il tempo spazializzato non può essere che l’altra faccia dell’omogeneo. Accade allora che noi pensiamo allo spazio quando parliamo del tempo, e quando chiamiamo all’appello il tempo, risponde lo spazio. Per una specie di osmosi si attribuisce al movimento e al tempo la divisibilità dello spazio; in tal modo si cade nella trappola di Zenone.
Sul finire del XIX secolo si è fatta avanti, cercando di darsi un suo statuto epistomologico, una nuo¬va scienza, la psicologia. Ed ecco che già si cerca si sottometterla ai pretesi postulati e ai metodi delle scienze fisico-matematiche: la cancellazione della qualità dei fatti psichici a vantaggio della loro quantificazione, il determinismo meccanicistico, in ultima analisi l’ossessiva riduzione della temporalità vivente alla spazialità omogenea. In tal modo la psicologia diventa nient’altro che psico-fisica, come in Fechner e Wundt. In tal modo, in un’epoca dominata dal positivismo e ancor più dallo scientismo, si mette sul conto di una scienza, così necessaria e promettente come la psicologia, un’aporia insolubile: quella di “innalzare a grandezza un’intensità pura come se si trattasse di un’estensione”, applicando la dimensione spaziale là dove non c’è spazio, l’esteriorità alla interiorità, l’estensione a una realtà inestesa. In una parola, ciò che noi pensiamo della spazialità estesa e numerabile diviene arbitrariamente il modo di inquadrare e di spiegare il tempo vissuto della coscienza. “Ci si potrebbe chiedere – scrive Bergson nella "Premessa" al Saggio – se le difficoltà insormontabili che certi problemi filosofici sollevano non dipendano dal fatto che ci ostiniamo a sovrapporre nello spazio i fenomeni che non occupano spazio… Quando una traduzione illegittima dell’inesteso in esteso, delle qualità in quantità, ha installato la contraddizione nel cuore stesso della domanda, deve meravigliare se la contraddizione si ritrova nelle soluzioni che se ne danno?”.
E ancora: “Che cosa, dal punto di vista della grandezza, può esserci mai di comune fra l’estensivo e l’intensivo, fra l’esteso e l’inesteso?”. Insomma, “più si scende nelle profondità della coscienza, meno si ha il diritto di trattare i fatti psichici come delle cose che si giustappongono”.
La riduzione a spazialità di ciò che non è spaziale – anche se vive in un corpo e opera attraverso un corpo che si ritaglia un suo spazio – è per Bergson uno dei casi più evidenti di “problema mal posto”; nel quale si fa intervenire questo tipo di meccanismo: nell’analizzare un dato di natura mista, come tutto ciò che attiene all’esperienza umana, si raggruppano in modo univoco arbitrariamente cose che differiscono per natura. Un problema è “falso” se i termini in cui è formulato non rispondono a delle “articolazioni naturali” (“L’evoluzione creatrice”, in “Ouvres”, 827) e pertanto sono tali da deformare la natura stessa delle cose, obbligando a vedere in ogni fenomeno solo differenze di posizione, intensità e proporzione; in ultima analisi differenze di grado fra il “meno” e il “più” su una stessa linea. L’operazione che si compie è sempre la stessa: “Noi sciogliamo le differenze qualitative nell’omogeneità dello spazio che le sottende” (ibid., 679). Non c’è da stupirsi poi se, all’interno di questa rappresentazione, non sappiamo distinguere la durata e l’estensione, il tempo vissuto e il tempo spazializzato. Se si conosce un solo genere di fenomeni e un solo tipo di scienza, ci si condanna a diventare uomini a una sola dimensione, anzi “automi coscienti” dotati solo di “ragione calcolatrice”.
In sintesi, la psico-fisica non ha fatto che formulare con precisione e spingere alle sue estreme conseguenze una concezione familiare al nostro linguaggio e al nostro modo di rappresentarci il mondo e la vita. Ma l’ossessione spazializzatrice espone l’umanità a un grave rischio. “A mano a mano che le nostre conoscenze si accrescono, noi percepiamo sempre più l’estensivo dietro l’intensivo e la quantità dietro la qualità, e tendiamo sempre più a mettere il primo termine nel secondo” (ibid., 49). Se la confusione della qualità con la quantità si limitasse a ognuno dei fatti di coscienza presi isolatamente – conclude Bergson alla fine del primo capitolo del “Saggio” – piuttosto che problemi, creerebbe oscurità. Ma invadendo la serie dei nostri stati psicologici, essa corrompe, alla loro stessa sorgente, le nostre rappresentazioni del cambiamento esterno e del cambiamento interno, del movimento e della libertà, dell’io e del suo destino.

Giornale di Brescia, 1.12.1995, 5.12.1995 e 11.12.1995.