I risultati a cui si era pervenuti in “Materia e memoria” – la seconda grande opera di Bergson pubblicata nel 1986 – furono rivisitati e sviluppati da Bergson nell’arco di oltre un ventennio, attraverso saggi e conferenze. Quei testi furono raccolti dal loro autore nel 1919, all’indomani del grande conflitto, nel volume “L’energia spirituale”. L’opera, che è di agevole lettura, è apparsa finalmente anche in lingua italiana, nella bella traduzione di Marinella Acerra, con il titolo “Il cervello e il pensiero” (Editori Riuniti, Roma, 1990).
Bergson non ne vuol sapere affatto di elaborare, a sua volta, una qualche nuova prova dell’immortalità dell’anima. Anzi, egli oppone un netto, implacabile rifiuto al modo in cui la tradizione filosofica, a partire da Platone, aveva impostato la questione. Anche nell’ultimo suo ca-polavoro, “Le due fonti della morale e della religione”, permane la condanna e il congiunto divieto a battere quella via. “Con Platone si può stabilire a priori – scrive Bergson – una definizione dell’anima che la consideri non decomponibile perché semplice, incorruttibile in quanto non divisibile, immortale in virtù della sua essenza. Da questa deduzione si passerà all’idea di una caduta delle anime nel Tempo e poi a quella di un loro ritorno nell’Eternità. Che cosa si può obiettare a chi contesta l’esistenza dell’anima se l’anima è definita in questi termini? La concezione platonica si presentava come definitiva, come la nozione di un triangolo e per le stesse ragioni. Come non vedere che ogni problema dell’anima, se ha un’effettiva giustificazione, dovrà sempre essere posto in termini di esperienza e che potrà essere risolto, sebbene in progresso di tempo e sempre parzialmente?”. (“Oeuvres”, P.U.F., Paris 1970, pp. 1198-99; trad. it. La Scuola, Brescia, pp. 255-56).
II giudizio di Bergson attesta l’intransigenza severa del filosofo nel rifiuto metodologico di ogni procedimento aprioristico in filosofia. L’autore delle “Due fonti” colpisce nel segno certamente, ma solo per quegli aspetti del platonismo in cui c’è un effettivo ricorso a quel tipo di argomentazione, e dunque una caduta nel dogmatismo e nel gioco verbale. Sono queste le parti caduche del platonismo; ma esse non devono impedirci di vedere quanto vasta, profonda, geniale sia stata l’opera di esplorazione dell’anima umana condotta da Platone. La critica radicale del pla-tonismo svolta da Bergson, a nostro avviso, pecca per eccesso e, si potrebbe dire, di omissione; essa, però, è servita a reimpostare su basi del tutto nuove il problema della vita oltre la morte. Bergson non è solo nemico dichiarato di deduttivismi che non riescono a dimostrare alcunché; egli, come Kant, detesta insieme al dommatismo, le cui argomentazioni sono meramente verbali, anche lo scetticismo e quell’atteggiamento secondo cui la filosofia dovrebbe limitarsi a interrogazioni periferiche, rifugiandosi in una sorta di “nobile silenzio” – come raccomandavano Buddha e il Circolo neopositivista di Vienna – su tutte le questioni che contano. Ma sarebbe ancora filosofia una ricerca che metta tra parentesi proprio la ricerca del significato?
Nella prima conferenza, che è del 1911, su “La coscienza e la vita”, Bergson scrive che “La triplice questione della coscienza, della vita e del loro rapporto è la più importante” e aggiunge: “Ma al momento di affrontare il problema, non oso contare troppo sul sostegno dei sistemi filosofici. Non sempre ciò che è inquietante, angosciante, appassionante per la maggior parte degli uomini occupa il primo posto nelle speculazioni dei metafisici. Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? Ecco delle questioni vitali, di fronte a cui ci porremmo immediatamente, se filosofassimo senza passare per i sistemi”.
Il filosofo francese torna sull’argomento con accenti appassionati nella seconda conferenza su “L’anima e il corpo”. Le domande esistenziali non si possono eludere, perché porsele appartiene proprio alla natura umana, alla nostra condizione. Se davvero la filosofia non avesse nulla da rispondere a quelle domande, che sono di interesse vitale, o se essa fosse incapace di chiarirle progressivamente, come si chiarisce un problema di biologia o di storia, se essa non potesse volgere a loro vantaggio un’esperienza sempre più approfondita, una visione sempre più acuta della realtà, allora vorrebbe dire che il suo compito si limita a seminar zizzania fra quelli che affermano e quelli che negano l’immorta-lità per ragioni astratte e non con argomenti ritagliati sui fatti. “Allora sarebbe quasi il caso di dire, dando un altro senso alle parole di Pascal, che tutta la filosofia non vale un’ora di fatica” (“Oeuv.” p. 859; ed. it. pp. 47-48).
Quando la religione parla di immortalità si richiama alla rivelazione; d’altro canto la filosofia sa bene che l’immortalità non può essere provata sperimentalmente. E allora come la mettiamo? Per Bergson sarebbe già qualcosa, anzi sarebbe molto, poter stabilire sul terreno dell’esperienza che la sopravvivenza è possibile e persino probabile. Ridotto a queste proporzioni più modeste, il problema filosofico del destino dell’anima non appare più del tutto insolubile.
“Ecco un cervello che lavora. Ecco una coscienza che sente, pensa e vuole. Se il lavoro del cervello corrispondesse alla totalità della coscienza, se ci fosse equivalenza tra cervello e pensiero, la coscienza potrebbe seguire il destino del cervello e la morte essere la fine di tutto… E se, invece, come abbiamo tentato di mostrare, la vita mentale oltrepassa la vita cerebrale, se il cervello si limita a tradurre in movimenti una piccola parte di ciò che succede nella coscienza? In ultima analisi l’unica ragione per credere ad un’estinzione della coscienza dopo la morte è che si vede il corpo disgregarsi; ma questa ragione non ha più valore se l’indipendenza della quasi totalità della coscienza rappresenta anch’essa, nei confronti del corpo, un fatto che si constata” (“Oeuv.” p. 859; ed. it. p. 48).
In filosofia bisogna scegliere fra il puro ragionamento che mira ad un risultato definitivo, non perfezionabile perché ritenuto perfetto, ed un’osservazione paziente che dà risultati approssimativi, però suscettibili di essere indefinitamente corretti e completati. II primo metodo, volendo fornirci subito la certezza, ci condanna a restare sempre nel meramente probabile, o nel puro possibile. II secondo mira fin dall’inizio alla probabilità, ma poiché opera su un terreno in cui, grazie, alla convergenza su punti decisivi di esperienze diverse, la probabilità può crescere all’infinito, esso ci porta a poco a poco sulla strada della certezza. “Fra questi due modi di filosofare – scrive Bergson – la mia scelta è fatta. Sarei felice se avessi potuto contribuire, anche se di poco, ad orientare la vostra”.
I fatti che inducono Henri Bergson a pensare l’aldilà come una prospettiva ben fondata sono quelli che obbligano gli scienziati e i filosofi a concepire in un modo radicalmente diverso il rapporto tra cervello e pensiero. Le conclusioni a cui il pensatore francese giunge sono richiamate più volte nell’opera “L’energia spirituale”. Da essa scegliamo un passo particolarmente perspicuo nella sua brevità. “Più ci abituiamo all’idea di una coscienza che oltrepassa l’organismo, più troveremo naturale che l’anima sopravviva al corpo. Certo, se il mentale fosse rigorosamente calcato sul cerebrale, se nella coscienza di un uomo non ci fosse nulla di più di ciò che è iscritto nel suo cervello, potremmo ammettere che la coscienza segua il destino del corpo e muoia con esso. Ma se i fatti, studiati indipendentemente da ogni sistema, ci conducono invece a considerare la vita mentale come molto più vasta della vita cerebrale, la sopravvivenza diventa tanto probabile che l’onere della prova ricade su colui che la nega, piuttosto che su colui che l’afferma” (“Oeuv.” pp. 874-75; ed. it. pp. 63-64).
Vi è, però, anche un contributo di tutt’altro genere che Bergson propone alla nostra riflessione per rendere più agevole il cammino verso la certezza: un cammino che non esclude alcuna forma di esperienza e muove alla ricerca di probabilità sempre maggiori, di punti di coincidenza tra linee di fatti provenienti da campi molto diversi fra loro. Nel 1913 Bergson accettò di diventare presidente della Society for Psychical Research, fondata a Londra più di trent’anni prima con il fine di sottoporre a controllo scientifico i fenomeni che rientrano nell’ambito del paranormale, sottraendoli in tal modo alla credulità e alle fantasticherie degli uni come al facile scherno degli altri. Qualcuno ha parlato a questo proposito di “gusto di Bergson per le esperienze rischiose”, ma l’espressione andrebbe forse corretta in “gusto di Bergson per qualsiasi esperienza, ivi compresa quella del paranormale”, purché fondata su testimonianze precise, molteplici, indipendenti le une dalle altre e sottoposte a rigorosa critica. A quella società avevano aderito, del resto, personalità di primo piano come lo statista inglese William Gladstone, lo scrittore Robert Louis Stevenson, Carl Gustav Jung, William James e Madame Curie. Bergson era, dunque, in buona compagnia ed egli stesso fin da giovane aveva studiato con grande attenzione quel tipo di fenomeni.
L’inaugurazione della presidenza della Society for Psychical Research fu solennizzata dalla lettura di un testo assai meditato, poi incluso nell’”Energia spirituale” con il titolo “Fantasmi di viventi e ricerca psichica”. In esso il filosofo sollecita lo studio approfondito anche di quelle esperienze che fanno ancora della psicologia una “terra incognita” e raccomanda di praticare nei loro confronti “un metodo che stia a metà tra quello dello storico e quello del giudice istruttore”, perché anche di lì possono venire alle altre scienze dello spirito apporti e chiarimenti da non sottovalutare aprioristicamente. Si prenda, ad esempio, un fatto pienamente accertato di telepatia: nella mente di una signora si affaccia la visione di un quadro complesso, dettagliato fin nei minimi particolari, della morte del marito su di un campo di battaglia, nello stesso istante in cui l’episodio si verifica. L’episodio fu riferito in una riunione, a cui era presente anche Bergson, da uno dei maggiori scienziati francesi, che ne garantiva l’assoluta autenticità; ma lo stesso scienziato negava, nello stesso tempo, che possa esistere la telepatia. Il suo ragionamento era il seguente: è successo a molte donne di sognare che il loro marito fosse morto o moribondo, mentre questi stava bene; la coincidenza tra la visione e la realtà può verificarsi, ma è cosa rarissima, mentre la non coincidenza si può constatare nella quasi totalità dei fenomeni di questo tipo sottoposti a controllo; se ne deduce che, se ci rendiamo conto della straordinaria sproporzione fra i “casi veri” e i “casi falsi”, la coincidenza tra la visione e la realtà è puramente casuale.
Un siffatto ragionamento, osserva Bergson, un “vizio” ce l’aveva ed era precisamente quello di “chiudere gli occhi sull’aspetto concreto del fenomeno”. Lo scienziato, infatti, sostitutiva la descrizione della scena concreta e viva – l’ufficiale che cade in un momento determinato, in un luogo determinato, con questi o quegli altri soldati attorno a lui – con una formula arida e astratta: “La signora era nel vero e non nel falso”. L’astrazione, in cui egli si rifugiava, consisteva proprio nel trascurare quello che è essenziale: il quadro visto dalla signora riproduce tale e quale una scena molto complicata di combattimento e di morte; la fisionomia dei soldati presenti alla scena, benché a lei precedentemente sconosciuta, le è apparsa proprio come era nella realtà. “Potete immaginare – incalza Bergson – che un pittore, che disegna sulla tela una scena di battaglia, facendo affidamento sulla propria fantasia, possa essere tanto favorito dal caso da eseguire il ritratto di soldati reali, effettivamente impegnati quel giorno in una battaglia in cui hanno compiuto i gesti che il pittore gli attribuisce? Certamente no. Il calcolo delle probabilità, a cui si fa appello, ci mostrerà ché è impossibile”. Avremmo bisogno di un numero infinito di coincidenze perché il caso facesse della scena di fantasia la riproduzione fedelissima di una scena reale. Inoltre, nell’ipotesi delineata, non teniamo conto della coincidenza nel tempo, cioè del fatto che le due scene, il cui contenuto è identico, ha scelto per apparire lo stesso momento. Rifugiarsi nella statistica si rivela a questo punto solo un pretesto per metter da parte certi fenomeni che non rientrano nei nostri schemi mentali. Il punto di vista, cui perviene Bergson è dunque diametralmente opposto a quello dell’amico scienziato: “Quand’anche fosse provato che ci sono state migliaia di visioni false, e quand’anche non ci fosse mai stata altra allucinazione veritiera che questa, considererei come stabilita rigorosamente e definitivamente la realtà della telepatia, o, più in generale, la possibilità di percepire degli oggetti e degli avvenimenti che i nostri sensi, con tutti gli strumenti che ne estendono la portata, sono incapaci di cogliere”.
Ci viene qualche indicazione, ci è suggerita una qualche prospettiva da un fenomeno accertato come la telepatia? Se la telepatia è un fatto reale, il filosofo deve nello stesso tempo considerare come “stabilita rigorosamente e definitivamente” che quel fenomeno è dovuto all’azione esercitata da una coscienza sull’altra, o all’azione reciproca di due coscienze, in grado di comunicare tra loro “senza intermediari visibili”, mediante la loro sola presenza, per il solo sguardo dell’anima. Ci si deve chiedere allora se un’esperienza del genere, non infrequente in questa vita, benché eccezionale, non apra un qualche spiraglio anche sulla condizione dell’anima dopo la morte.
L’ultima riflessione di Bergson sul valore dell’immortalità è proprio nella pagina finale delle “Due fonti”. L’uomo potrebbe giungere finalmente a non temere la morte e a guardare con amicizia a questo universo, di cui è la ragion d’essere, se “la semplicità di vita fosse nel mondo veicolo di un’intuizione mistica diffusa”, e se egli divenisse partecipe di “quella gioia che logicamente deriva da una visione dell’aldilà fondata su un’esperienza scientifica più larga”.
Giornale di Brescia, 22.10.1996 e 26.10.1996.