Il “Fedone” è preceduto da un colloquio introduttivo. Echécrate, attorniato da un gruppo di amici, incontra Fedone, un discepolo di Socrate, e lo prega di narrargli le ultime ore del maestro. La città in cui si verifica l’incontro è Fliunte, nel Peloponneso nord-orientale; il luogo è probabilmente quello in cui si riunivano i pitagorici. Fedone, di ritorno da Atene e diretto alla nativa Elide, è ben lieto di rendere gli amici filosofi partecipi di quell’esperienza incancellabile. “Cercherò di raccontarvi quelle cose – dichiara Fedone – perché il ricordarmi di Socrate, sia parlandone io, sia sentendone parlare da altri, è sempre per me la cosa più dolce di tutte” (58 d.). Il “Fedone”, dunque, si presenta come un racconto riferito a memoria, in un’epoca non precisata, e la narrazione ci riporta alla prigione di Atene come teatro degli avvenimenti e a quel giorno della primavera del 399 a.C. in cui si compì il destino di Socrate. Diciamo subito che il “Fedone” è insieme al “Simposio” quanto di più perfetto Platone abbia creato dal punto di vista poetico. Tuttavia questo dialogo, così peculiare e inimitabile, tocca il culmine proprio quando – tra un’ obiezione formulata nella maniera più drastica, e direi aggressiva, e la difficile risposta ad essa – Socrate sembra concedersi un po’ di tregua, quasi una pausa di riflessione. In realtà è proprio allora che egli richiama drammaticamente l’attenzione sull’importanza della posta in gioco e sulla portata esistenziale delle conclusioni a cui si arriverà; e lo fa attraverso i cosiddetti “intermezzi”. Gli intermezzi in effetti servono a prender fiato, prima di affrontare più ardui e impervi percorsi dialettici, ma essi costituiscono anche i momenti in cui il condannato, ormai prossimo a morire, apre il suo cuore agli amici, sì che la loro immediatezza e intima grazia diventano il tramite elettivo per comunicarci l’emozione di quei valori supremi a cui poi il logos tenterà di elevarsi. Il lettore, quindi, farà bene a sostare su quegli intermezzi per cogliere il clima spirituale e le certezze ultime che illuminarono il grande Ateniese. Certamente la struttura dialettica delle argomentazioni svolte a livelli diversi, di crescente profondità, e la teoria delle idee appartengono a Platone, che era sui quarant’ anni quando scrisse il Fedone, e non a Socrate; tuttavia il messaggio della vita e della morte di Socrate, così come questo dialogo lo affida a noi, è, per quanto riguarda l’orientamento di fondo, un documento di genuino valore storico, a meno che non si voglia supporre Platone stesso capace di una conscia e deliberata falsificazione, riconoscibile come tale dalle persone che egli cita come fonti del suo racconto.
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Per definire in modo preciso l’argomento del dialogo non basta dire che si tratta di un discorso sull’immortalità dell’anima. Il vero soggetto del dialogo è indicato piuttosto da Platone stesso nell’Ep.13.363 e, dove è detto che esso è “il discorso di Socrate intorno all’anima”. L’ oggetto immediato di tutto il dialogo è la giustificazione di una vita spesa nella “cura dell’anima”, insistendo sulla “imitazione di Dio” come la sola norma retta e ragionevole di una condotta veramente umana. L’indipendenza dell’anima, provata dalla sua signoria sul corpo, e la sua realtà spirituale introducono il tema dell’immortalità; ma questa è solo una conseguenza, per quanto importante, di un’esperienza reale. L’argomento, dunque, è in senso proprio di natura morale. Il valore e la dignità dell’anima sono tali da costituire motivi sufficienti per sperare che la morte sia, per l’uomo giusto, l’inizio di una vita migliore, un’avventura che egli può affrontare di buon animo. A questo radicale convincimento Platone si atterrà anche nelle opere successive, dalla “Repubblica alle Leggi”. Occorre, quindi, dare uno sguardo alla concezione morale che ci viene incontro dal “Fedone”. Essa segna il capovolgimento radicale di quella forma mentis secondo cui all’uomo spetta procurarsi il più possibile piacere, ricchezza, potere.
La cosa più ridicola agli occhi di Socrate, è sentire che filosofi e poeti fanno a gara a celebrare la giustizia, ma solo per gli onori e le ricompense che ne sarebbero l’effetto. Ma il«caso Socrate» non sta forse a dimostrare esattamente il contrario? Il giusto può essere sereno anche di fronte alla morte, perché la coscienza non ha nulla da rimproverargli; ma in questo mondo egli è condannato a pagar caro, persino con vita, il suo amore per la giustizia, il servizio reso ai concittadini per destarli a una vita onesta e senza menzogna. La celebrazione retorica e utilitaristica della vita buona, a cui su questa terra non può mancare la felicità, è falsa e sembra fatta apposta non per suscitare la passione morale, ma per produrre astuti e meschini calcolatori. Come chiamare uomini saggi e buoni coloro che conoscono solo i canoni di una regolatezza ipocrita e la conformità ai costumi prevalenti in una determinata società? In una visione del genere, che identifica la felicità con ciò che si può desiderare nella dimensione sensibile dell’avere, non hanno senso alcuno la vita e la morte di Socrate, agli occhi del quale, invece, vivere da uomini veri significa andare incontro al Bene con tutta l’anima, amarlo e cercarlo per se stesso in quanto valore supremo. Al contrario, chi si muove esclusivamente sul piano del calcolo non attingerà mai il piano morale e la sua virtù sarà una maschera, un’ apparenza, “una virtù servile” (69 b-c). Anch’egli sarà costretto a rinunciare a certi piaceri, ma lo farà sempre in vista di piaceri che spera di più grande durata e di miglior qualità. Anch’egli, dunque, sarà “temperante, ma per amore di intemperanza” (68 e); in realtà la schiavitù del piacere è alla base di ciò che egli chiama temperanza e per lui tutte le cose hanno unicamente un prezzo di scambio. “Ma non è giusto baratto – protesta Socrate – scambiare piaceri con piaceri, dolori con dolori e paure con paure, i più grandi con i più piccoli, come se fossero monete. L’unica moneta autentica, quella con la quale si devono scambiare tutte queste cose, è piuttosto la saggezza e solo per mezzo di essa si compra e si vende qualcosa che sia veramente coraggio, temperanza e giustizia, insomma la virtù, ci sia o no l ‘aggiunta di piaceri, timori e altre passioni come queste” (69 b). Pochi hanno rilevato che a questo passo del “Fedone” si ispirò direttamente, tanti secoli dopo, Kant quando, nella sua prima opera di filosofia morale, la Fondazione della metafisica dei costumi, contrappose nettamente ciò che ha prezzo di scambio e ciò che ha dignità, ciò che ha un valore relativo e ciò che ha un valore intrinseco.
Sarebbe fraintendere il dialogo considerare gli argomenti in favore dell’immortalità come se fossero prove indipendenti l’una dall’altra e aventi tutte lo stesso valore. Socrate, ad esempio, è molto cauto nel dare per scontata la sua adesione a quei miti orfico-pitagorici di cui pure provvisoriamente si serve, così come utilizza Eraclito senza per questo essere eracliteo. In realtà, il vero fulcro del ragionamento del grande Ateniese sta nell’ autobiografia intellettuale che egli traccia per illustrare il suo passaggio dal naturalismo meccanicistico della filosofia dei fisici, professata in gioventù, al nuovo e più alto principio dell’Intelligenza divina introdotto da Anassagora, anche se il filosofo del Nous non trasse dalla sua mirabile scoperta le conseguenze che essa comportava. Ebbene, anche nel mondo umano ciò che conta è in primo luogo, il fine, l’idea, il valore a cui una persona tende: è infatti il fine giusto e disinteressato, l’ idea del Bene, il valore che qualifica e giudica la nostra vita come degna o indegna, immettendo in essa qualcosa di infinito. L’anima partecipa alla realtà spirituale, che la trascende e insieme l’abita interiormente, ed è questo fatto d’ esperienza che fa la sua grandezza e l’ obbliga a interrogarsi sulla prospettiva di una vita oltre la morte. Come nell’universo, così nella nostra vita, l’intelligenza svolge il ruolo di causa. Si provi, ad esempio, a spiegare la causa, il perché, la ragione per cui Socrate si trova in carcere, invece di svignarsela come vorrebbero amici e nemici. Sarebbe assurdo affermare che Socrate fa tutto ciò che fa perché se ne sta seduto su una panca, perché il suo corpo è fatto di ossa e di nervi, perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le une dalle altre e i nervi sono capaci di distendersi e di allentarsi, e via dicendo. “Chiamare causa cose come queste – dice mirabilmente Socrate – sarebbe troppo fuori luogo. Ora, se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che voglio, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che facendole io agisco, sì con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta di ciò che é meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza. Questo vuol dire non essere capace di distinguere che una cosa è la vera causa e l’altra è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa.” In questi passi del “Fedone” l’umanità ha potuto leggere – e leggerà finché non rinuncerà a pensare – verità essenziali e non confutabili sulla natura e, dunque, sul destino dell’anima. E’, infatti, solo partire da un’esperienza così decisiva – la quale attesta l’ interiore presenza all’ anima della realtà intelligibile del Bene – che i discorsi sull’ immortalità diventano persuasivi. “La questione è molto difficile, ma è da uomo veramente vile – dice il vecchio filosofo – arrestarsi prima di aver sottoposto a prova, in tutte le maniere, le cose che si dicono al riguardo” (85 c). La strada da percorrere ce la indica ancora lui, Socrate: “Accettare, tra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, affidandosi cioè ad una rivelazione divina.” (85 c-d).
Giornale di Brescia, 25.11.1996. Articolo scritto in occasione della rappresentazione teatrale del "Fedone" di Platone.