Giornale di Brescia, 19 aprile 1997
Il “Simposio”, che Platone compose sui quarant’ anni, nel pieno vigore del suo genio, è un capolavoro non solo della filosofia greca, ma della letteratura universale. Nel volume “Eros démone mediatore”, pubblicato dalla Rizzoli, Giovanni Reale suggerisce una lettura approfondita del testo e una sua interpretazione. Qui noi tenteremo solo di presentare il “Simposio” nei suoi passaggi essenziali, trattandosi di un’ opera di grande complessità, ma premettendovi un’avvertenza: che per capire la dottrina socratico-platonica dell’ amore occorre toglierci dalla testa quella morbosa invenzione che vien detta «amore platonico», per la semplice ragione che di essa non v’è traccia alcuna né in questo né in altri dialoghi di Platone. Simposio in Grecia era il termine con cui si indicava propriamente la riunione di amici in occasione di eventi importanti della polis come la celebrazione di una vittoria poetica, sportiva o militare, di una festa cittadina o di una ricorrenza religiosa. Il “Simposio” platonico narra appunto della riunione degli amici di Agatone, in casa sua, per festeggiare la vittoria conseguita con la rappresentazione della sua prima tragedia, applaudita il giorno prima da trentamila elleni. Socrate, avviandosi alla casa di Agatone in un «insolito abbigliamento festivo», incontra Aristodemo, suo fervido ammiratore, e lo trascina con sé al banchetto. Ma, ad un certo punto lo manda innanzi, mentre lui si arresta nel vestibolo della casa dei vicini e si immerge in un silenzio abitato da una più alta presenza. Quando, però, a pranzo quasi finito, compare tra i convitati, il suo umore è di un’allegria sfavillante. Il medico Erissimaco invita a moderare le libagioni, per poter conversare rimanendo sobri, e propone di accogliere un antico desiderio di Fedro, secondo il quale occorreva colmare una lacuna, pronunciando per la prima volta in Grecia un discorso celebrativo in onore di Eros. Anzi ognuno dei sei convitati avrebbe pronunciato il suo elogio di Eros. Socrate ci sta: «Nessuno, o Erissimaco, respingerà la tua proposta. Non certo io che affermo di non conoscere altro che la scienza dell’amore» (177 d).
Il primo a tessere l’elogio di Eros è Fedro, che darà il nome ad un altro dialogo di Platone. Fedro è un esteta che idolatra la retorica, cioè l’arte di scrivere e di pronunciare discorsi. Fedro esalta nell’Eros la forza cosmica, a cui si deve la continuazione delle generazioni e il perpetuarsi della vita; ma, per una inavvertita contraddizione, secondo il nostro retore l’amore più alto non è quello tra un maschio e una femmina, il solo che possa presiedere alla generazione, bensì il rapporto tra due persone dello stesso sesso. Le classi alte di Atene erano filospartane e tra loro era di moda coltivare l’omosessualità, che era di casa proprio a Sparta, società per antonomasia maschilista e guerriera. L’Eros, com’è inteso da Fedro, infonde nell’amante la disposizione a compiere qualsiasi atto di valore, pur di meritare l’ammirazione dell’amato. Di qui la conclusione paradossale e involontariamente ironica: l’efficacia sociale della pederastia è tale che un esercito di pederasti, se potesse essercene uno, sarebbe invincibile.
Sulla stessa linea, ma con qualche elemento di significativa novità, si muove il secondo oratore, Pausania. Pausania ricorda che persino nella mitologia si contrappongono una “Afrodite celeste” e una “Afrodite volgare”. E poiché Afrodite è la madre di Amore, noi dobbiamo distinguere fra un “Amore celeste” e un “Amore volgare”. L’Amore volgare ha per unico oggetto il corpo; meglio se è il corpo di “una testa vuota”, perché allora può essere meglio asservito ai propri scopi egoistici. L’altro Amore può condurre ad un’unione di spiriti ed essere posto al servizio della virtù. Ma la concezione che Pausania ha della virtù e dell’amore nobile rimane a un livello ancora troppo vago, ed è, a dir poco, ingiurioso verso le donne. L’amore di un uomo per una donna, infatti agli occhi di Pausania appartiene pur sempre all’ordine più basso.
Il medico Erissimaco fa sua la contrapposizione fra i due Eros, celeste e volgare, e anzi ritiene che essa debba essere estesa a ogni ambito della realtà, dall’ organismo umano all’universo. La natura è tutta intessuta di opposti; la scienza e la saggezza consistono nel temperare i contrari, l’uno con l’altro, in giusta proporzione. E ciò, a suo parere, vale anche per l’Eros.
Il discorso di Aristofane ha una sorta di prologo buffo, perché arriva dopo un attacco di singhiozzo, ma il suo contenuto ha un fondo di verità, che sarà messo a profitto da Socrate nella parte finale del “Simposio”. In quel tempo Aristofane è già molto noto. La caricatura che di Socrate farà nelle “Nubi” allora non era neppure immaginabile e così pure la scurrilità delle opere senili. Secondo la favola raccontata da Aristofane, in origine vi erano tre sessi: il doppio maschio, la doppia femmina e il maschio-femmina o androgino. Questi esseri – ciascuno dei quali aveva quattro gambe, quattro braccia e una testa – erano così forti e superbi da minacciare il Cielo. Zeus allora spaccò ognuno di essi dall’alto in basso. Da quel momento ogni creatura umana va appassionatamente alla ricerca dell’altra sua metà. Si cercano gli ex-androgini, ora divenuti maschi e femmine, dalla cui unione nascono altri maschi e femmine; ma si cercano pure i due uomini separati del doppio maschio e le due donne separate del doppio femmina. L’Eros, dunque, è coscienza dolorosa di ciò che manca a ognuno ed è aspirazione dei due a farsi uno solo. L’amore è, pertanto, essenzialmente nostalgia dell’uno. Tuttavia non è il congiungimento sessuale lo scopo vero dell’unione sessuale e il suo orizzonte ultimo. “Non sembra – dice testualmente Aristofane – che il piacere d’amore sia la causa che fa stare insieme gli amanti con così grande attaccamento. È, invece, evidente che l’ anima di ciascuno di noi desidera qualche altra cosa che non sa dire, oppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi” (192 c4). Purtroppo, come Pausania, anche Aristofane relega all’ultimo posto l’amore dell’uomo per la donna, giudicando la donna «l’essere più debole». Socrate e Platone, però, non la pensavano così, perché per essi “la virtù dell’uomo e della donna è la medesima”. Ci vorrà, tuttavia, il Vangelo perché cominciasse ad entrare nella storia – pur tra infinite resistenze, ancora oggi dure a morire – il principio dell’uguaglianza di dignità tra le persone dei due sessi.
Penultimo nel tessere l’elogio di Eros è il padrone di casa, Agatone. Il suo discorso è di raffinata fattura, piacevole ad udirsi, impreziosito da immagini delicate. È un brano di prosa poetica degno di Gorgia. E poiché il personaggio lo declama, alla fine scrosciano gli applausi. Sotto tante belle parole, però, c’è il vuoto del pensiero. Ma dopo Agatone la parola passa a Socrate.