Siamo nella primavera del 399 a. C. La scena è una cella del carcere di Atene, al primo crepuscolo del mattino, il terzo giorno precedente la morte di Socrate. Due sono i personaggi: Socrate e Critone, il vecchio amico d’infanzia. Interlocutore invisibile, ma di appassionata eloquenza sono le Leggi. Il procedere è intimo e tranquillo, ma ciò di cui si discute è terribilmente importante. Il dialogo sviluppa nella prima parte gli argomenti di Critone per indurre Socrate a fuggire; nella seconda parte Socrate illustra le ragioni del suo rifiuto; la terza parte è dedicata alla personificazione delle Leggi che costituisce, per così dire, il grande mito del Critone. Socrate si sveglia, che è ancora buio, e s’accorge che il fedele Critone, grazie alla complicità del custode, gli siede accanto silenzioso. La sentenza capitale, emessa un mese prima, non aveva avuto esecuzione in attesa del ritorno della nave, che come ogni anno, era stata inviata in sacra ambasceria a Delo dagli ateniesi. Ebbene, Critone sa che la nave sta per giungere al Pireo in giornata e che l’indomani il suo grande amico berrà la cicuta. Ma per lui l’epilogo tragico doveva essere evitato perché non è lecito dal punto di vista morale subire passivamente un’ingiusta condanna. Non è stato forse lo stesso Socrate che in tribunale ha orgogliosamente opposto la propria assoluta innocenza alla faziosità e alla miopia dei giudici che l’hanno condannato? E allora perché non dar seguito con la fuga alla convinzione della propria innocenza? Tutto è pronto perché l’evasione avvenga tranquillamente e il filosofo non avrà certo difficoltà a trovare lontano da Atene un rifugio dove sia ben accolto e onorato. Ci sono poi motivi di ordine affettivo: Socrate è amico insostituibile di cui non vanno privati quanti lo conoscono e gli vogliono bene. Costoro soffriranno nella loro reputazione, se egli persiste nel volersi sacrificare, e si penserà che non hanno fatto quello che era possibile per portare in salvo l’amico. Rimane comunque vero che sarebbe ingiusto per Socrate gettare la sua vita, così preziosa agli occhi degli ateniesi migliori; ciò vorrebbe dire fare un piacere proprio a quelli che lo hanno accusato.
Socrate inizia la sua risposta dicendosi grato per la commovente sollecitudine di Critone, ma vorrebbe che fosse accompagnata da rettitudine, “se no, quanto più è grande, tanto più essa è penosa” (46b). Quanto poi a ciò che gli altri possono pensare, Socrate è drasticamente chiaro: “Io, non ora per la prima volta, ma sempre intendo dare ascolto a null’altro di ciò che è in me, se non alla ragione, a quella che, ragionando, a me risulti la migliore” (ibid.). L’unico criterio per determinare l’ azione è la sua bontà o la sua malvagità e, “se apparirà chiaro che, agendo in un certo modo, si commettono azioni ingiuste, allora si dovrà tagliar corto” (48d). E se per agire di conseguenza si devono affrontare dure prove, e persino la morte, non ci si deve tirare indietro, giacché “non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene, cioè secondo giustizia” (48b). La seconda parte del dialogo si conclude collegando alle affermazioni ora riportate un corollario che oseremmo chiamare evangelico: quello della non-violenza. “Non si deve commettere ingiustizia, né, ricevendo del male, vendicarsi, rendendo male per male”, dice testualmente Socrate (46d). E aggiunge: “So che pochi soltanto sono e saranno di questo avviso” (ibid.).
La terza parte del dialogo è occupata dalla celebre “prosopopea” o personificazione delle Leggi, che permette a Socrate di esporre con solennità quei principi a cui ha ispirato la sua esistenza e a cui vuol rimanere fedele, rifiutando di sottrarsi alla condanna. A veder bene, il destino di Socrate è terribilmente paradossale: in un’ epoca di trionfante individualismo, egli ingaggia una dura battaglia con quei sofisti come Crizia e Callicle, che teorizzavano il superuomo, l’immoralismo disgregatore, la volontà di dominio; ma, ecco, lo stesso Socrate è l’uomo pericoloso su cui si concentra l’odio dei reazionari e dei tradizionalisti, che lo portano in tribunale e ne ottengono la condanna a morte. La condanna era, di fatto, iniqua, ma per Socrate essa era e rimaneva legale, perché emessa in conformità delle Leggi stabilite e nel loro ambito. Ánito, dunque, e non la Legge ha fatto torto a Socrate e il dovere di ogni buon cittadino è sottomettersi alla sentenza, anche quando essa sia materialmente falsa. Fuggire dal carcere, invece, è prendere un’iniziativa che può nascere un misconoscimento del valore della Legge. Ma perché le Leggi hanno un’autorità che esige obbedienza, malgrado le imperfezioni, gli stravolgimenti, gli abusi che se ne fanno? Socrate adduce questa motivazione: la convivenza sociale non può esistere senza un patto reciproco, ora tacito ora esplicito, tra gli individui e le Leggi della città, perché solo le Leggi assicurano agli individui i benefici della vita consociata, l’ educazione, i diritti civili. Il cittadino obbedisce alle Leggi perché esse sono la forma, cioè il principio strutturante, e la conditio sine qua non dell’equilibrio sociale. Il cittadino può, se ne abbia voglia, rescindere il contratto, allontanandosi dalla città; ma se vi resta, egli deve obbedienza alle Leggi. Per queste considerazioni Socrate vede nella fuga dal carcere un attentato alla maestà delle Leggi. Disobbedire alle Leggi perché ci fa comodo significa, infatti, distruggerle, perché esse vivono nella misura in cui sono rispettate ed una Legge, nell’atto di essere violata, è resa nulla, è distrutta. Chi calpesta la Legge, distrugge, però, anche la città, la quale non sussiste senza di essa. “Ma a chi mai – si chiede Socrate – può piacere una città senza Leggi?” (53a).
Il “Critone” nella sua apparente semplicità è, come si vede, uno dei drammi più realistici. Ma lo è anche perché Socrate pone già il duplice problema, la cui soluzione è decisiva per la nascita dello Stato di diritto, che realizzi cioè la condizione ideale per una politica degna dell’uomo. Le Leggi debbono “persuadere” i cittadini all’obbedienza; ma per poterlo fare, esse non devono essere imposte con la coercizione. Ma il cittadino Socrate, che va incontro alla morte per rispettare le Leggi, afferma pure il diritto e il dovere che il cittadino ha di “persuadere le Leggi” (51bc) a diventare sempre più espressive del valore da cui traggono giustificazione: la giustizia, appunto. La lotta per un diritto più alto esige, però, due condizioni: la prima è “non disertare, né ritirarsi, non abbandonare mai il proprio posto” (5lb); la seconda è suscitare un vasto e profondo risveglio delle coscienze alla certezza che rese luminose la vita e la morte di Socrate: “Non si deve tenere né i figli, né il vivere, né altra cosa in più alta considerazione della giustizia” (54b).Mi chiedo: c’è per il nostro Paese, per questa nostra Italia sprofondata nell’illegalità più disonorevole, un messaggio più attuale?
Giornale di Brescia, 18.11.1996. Articolo scritto in occasione della rappresentazione teatrale del “Critone” di Platone.