IL CONCETTO DI NATURA IN ROUSSEAU[1]
“Il a mis son ame dans ses écrits”
Di Rousseau non ci si libera facilmente. Malgrado i limiti delle sue concezioni e il cammino straordinariamente fortunato di alcune di esse, nei più diverso campi – e in primo luogo in pedagogia, in politica e in religione – questo pensatore “plein du langage de la philosophie, sans etre véritablement philosophe”[2], “plus ardent qu’éclairé“[3], non solo è entrato nel continuum della cultura europea, ma non ha cessato ancor oggi di esercitare con la sua presenza un’azione stimolante quanto mai efficace. Il suo “messaggio” non è inquadrabile in una concezione ben articolata da giudizi che si sorreggono a vicenda e siano definiti, né ad esso si ritorna solo per un interesse storico o per una dotta curiosità. Rousseau reca con sé un’inquietudine che per certi aspetti ha della magnanimità, agita problemi vivi, attuali e d’importanza universale, ha il dono di attirare a sé anche quando non convince. Il suo pensiero e le esperienze personali fondamentali della sua vita sono intimamente avvinte[4] con una immediatezza che sorprende il lettore, s’impone alla sua attenzione, trovando quasi sempre adeguata espressione in uno stile che esce dalla linea severa del ragionamento, ma che riesce a dare vivo risalto a ciò di cui si parla[5].
È stato detto assai bene che il Ginevrino, più di qualsiasi scrittore del suo tempo, “a mis son ame dans ses écrits et cette ame, sans etre grande, ne laisse point d’etre, par quelque coté, belle et touchante, malgré les nombreux défauts qui sont presque des vices“[6].
Ciò che si chiama “dottrina” del Rousseau è un pensiero vasto e tormentato, in cui l’allusione al dato esistenziale è appena velata, ed è questa la ragione per cui noi che viviamo in una temperie spirituale tanto diversa da quella di Rousseau possiamo riconoscere che la “prima impressione, che un lettore – che non sia tale per vanità e passatempo – riceve dagli scritti di J.J. Rousseau è quella di trovarsi dinanzi ad una rara penetrazione di spirito, a un nobile slancio di genio, a un’anima piena di sensibilità”, anche se si deve subito aggiungere che “l’impressione che le tiene immediatamente dietro è quella dello sbalordimento cagionato dalle opinioni singolari e paradossali dell’autore”. Questo giudizio, che pure ci pare vero oggi, è di Kant, di cui è interessante ricordare un’altra opportuna considerazione che il biografo Borowski ci fa conoscere: “Devo leggere e rileggere Rousseau sino a che la bellezza dell’espressione non mi turbi più, poiché allora soltanto lo posso intendere con la ragione”[7].
Rousseau è autore vivo, pur nelle sue contraddizioni, perché egli osò esprimere ciò che era nel suo cuore e con le sue parole manifestò il centro vitale delle aspirazioni profonde dell’epoca sua, e dette voce alla protesta e alle attese dell’esercito innumerevole dei diseredati, degli sfruttati messi in catene dal privilegio e dalla tirannia, dagli uomini a cui era stato negato il primo e fondamentale diritto, quello di essere uomini.
Figlio dell’illuminismo, a cui pagò un oneroso tributo di suggestioni corrosive nella soluzione di molti problemi (anti-metafisica, utilitarismo sebbene non disgiunto da un alto senso della dignità dell’uomo, fondamento teistico della sua teodicea, ecc.), dell’illuminismo confutò l’illusione intellettualistica[8] e disprezzò l’angustia borghese[9]. M.me d’Epinay ci riporta come rivolta all’indirizzo degli illuministi un’affermazione del Rousseau che spiega l’energia profetica con cui egli, da una parte nelle prime opere rese problematico il valore di una scienza senza coscienza e, dall’altra, tentò nell’Emilio e nel Contratto sociale di darci il vangelo dell’uomo e del cittadino finalmente libero: “Detesto” disse una volta “questa rabbia di distruggere senza riedificare”. Dalla polemica radicale dei due discorsi sorse l’indicazione di un compito positivo e rivoluzionario, per cui occorreva tramutare la propensione romantica della fuga nel primitivo, nell’impegno attivo di preparare il futuro, prefigurandolo nel suo dover essere. Le prospettive si chiarirono, la pars destruens divenne premessa alla pars costruens, ma Rousseau nella sua ricerca – malgrado oscillazioni significative e innegabili sviluppi – innalzò la sua anima ad un impulso ideale che riassunse nel motto “ritorno alla natura” e fu pertanto, come ha ben detto lo Spranger, “un filosofo dell’anelo”[10], dell’anelo ad un libero sviluppo; ad una liberazione dell’uomo essenziale dalle troppe catene e dalle insopportabili sfigurazioni. Per un compito così innovatore e così alto Rousseau assunse un unico principio a presupposto e archetipo, una idea-immagine nebulosa e incircoscritta: il concetto di natura.
Il problema J.J. Rousseau
Può sembrare, ed è, un paradosso, eppure J.J. Rousseau, “le saint de la nature“[11] e il pedagogista dell’educazione naturale, non è riuscito mai a dare unità logica alla sua concezione della natura, la cui irriducibile imprecisione ha fatto nascere “il problema J.J. Rousseau”, una ridda di ipotesi interpretative che, a loro volta, introducono alle più diverse valutazioni del pensiero roussoiano. L’idea-immagine di “homme de la natura“, negazione del “l’homme de l’homme“, di quello costruito fittiziamente dalle “addizioni sociali” comanda la teorie etiche, politiche, religiose e pedagogiche del Ginevrino; ma è proprio dal suo seno che si dipartono tutte le antinomie e le incertezze del pensiero roussoiano. Non sono mancati i tentativi di spiegare l’opera roussoiana da un punto di vista unitario, ma essi obbediscono tutti ad una superiore esigenza teoretica di coordinazione e di semplificazione, insensibilmente prestata dai critici a Rousseau, la cui opera manca di coerenza interna e di unità logica.
Rousseau è proteiforme e la sua genialità non conosce il controllo di una severa disciplina di pensiero. Il pensiero si svolge in coppie di antinomie ed è facile credere che la sua posizione fondamentale sia proprio la riconosciuta incompatibilità dei valori fra loro, per cui s’impone una scelta: natura o cultura, natura o società, moralità o senso estetico, educazione individuale o educazione sociale, religione naturale o cristianesimo, Jean Jacques uomo naturale e semplice e Rousseau filosofo e scrittore. Questa tesi, sostenuta dal Groethuysen[12], è troppo aderente alle più appariscenti formulazioni dei paradossi per essere conclusione più vera di un pensiero così intimamente travagliato. Senza dubbio il Nostro lumeggia di ogni questione tesi e antitesi con un irrigidimento dei termini che spesso è artificioso, ma per limitare l’una con l’altra, additandoci con felici intuizioni una sintesi continuamente sfiorata e mai raggiunta. La sua maniera di ottenere la nota mediana è sovrapporre violentemente due toni schietti. Rousseau non sta fermo all’antitesi, “che appaga il retore, ma non soddisfa la sua coscienza”[13].
In Rousseau ci sono alcune costanti che caratterizzano in modo inconfondibile il suo pensiero, ma la sinuosità degli sviluppi, la frequenza delle contraddizioni e dei conati per superarle ci portano a scorgere l’umanità psicologica della sua problematica, ma non l’unità logica e teoretica.
La natura come cosmo e lo stato di natura
La parola “natura” nasconde una molteplicità di significati. Rousseau esaltò la natura come scenario significativo, organico e amabile del mondo, ed insieme rapporto per cui l’insieme delle cose e il loro principio rinviano l’uno all’altro, donde l’elogio della vita in campagna come vita a contatto con la natura in contrapposizione a quell’estraneamento dalla natura che assume aspetti paurosamente disumani nei grandi agglomerati urbani. Il suo modo di sentire la natura e il paesaggio naturale come forza pacificatrice dello spirito e inesauribile fonte di ispirazione indurrà Kant, nonostante il suo formalismo, a riconoscere nella terza Critica all’organicità vitale della natura una netta prevalenza sulla considerazione della legalità matematica e a rivalutarla dal punto di vista estetico e finalistico. Rousseau qui, come altrove, prelude al senso romantico della natura, sebbene egli non abbia mai confuso l’insieme delle cose e il loro principio creativo. La natura delle cose ci è presente dappertutto, non così la “natura degli uomini”. La natura celebrata nel Discours sur l’origine de l’inégalité vorrebbe significare essenza dell’umanità nello stato originario, ricostruita con dei “raisonnements hypothétiques et conditionnels“. Bisogna spogliare la natura di Glauco dei detriti dei secoli per poterla finalmente vedere nella sua forma primigenia. “Semblable à la statue de Glaucus, que le temps, la mer et les orages avoient tellement défigurée qu’elle ressembloit moins à un dieu qu’à un bete féroce, l’ame humaine, altérée au sein de la société par mille causes sans cesse renaissantes, par l’acquisition d’une moltitude de conaissances et d’erreurs, par le choc continuel des passions, a pour ainsi dire changé d’apparence au point d’etre presque méconnaissable“. È l’unico modo di cogliere “ce qu’il y a d’originaire et d’artificiel dans la nature actuelle de l’homme“, di discernere “ce qu’a fait la volonté divine d’avec ce que l’art humaine a pretendu faire“; è l’unico modo di determinare la legge che anche attualmente “convient le mieux à sa constitution“.
Il mito della immediatezza istintiva e della primitività edenica, mito assai diffuso ed elaborato nella cultura del tempo, esalta la fantasia di Rousseau, che però nella prefazione dello stesso Discours sur l’inégalité ha precisato i rigorosi limiti della ipotesi, a cui ha dato corpo con la sua abilità di scrittore: “Chi parla di stato di natura, parla di una condizione che non esiste più, che forse non è mai esistita e probabilmente non esisterà mai e della quale tuttavia bisogna farsi un concetto adeguato, per poter giudicare rettamente del nostro stato attuale”.
Non basterebbe fare il giro del mondo, se fosse possibile, né interrogare tutte le testimonianze della preistoria; l’etnografia e l’etnologia non ci danno la vera conoscenza dell’uomo. Offrono spunti interessanti ma del tutto insufficienti. Esiste una sola via per distinguere l’homme naturel dall’homme artificiel ed è la scoperta di sé, la conoscenza di sé, portando ognuno in sé, nelle proprie profondità l’immagine originaria dell’umana natura. Montaigne aveva scritto: ” ciascun uomo porta intera la forma della condizione umana”. Rousseau di fronte al suo secolo rivendica come la ragione della propria grandezza sia la scoperta dell’uomo nella sua essenza costitutiva, quindi nel suo valore, in una ricerca che congiunge il senso della propria assoluta singolarità e la universalità autentica della originaria condizione umana. “Donde mai l’autore di questa dottrina – è scritto in uno dei dialoghi di Rousseau juge de Jean Jacques – donde il pittore e l’apologeta della natura umana avrebbe potuto prendere il suo modello, se non l’avesse trovato nel suo cuore?”. Il problema diventa attanagliante e le soluzioni prospettate hanno un interesse teorico e pratico assai maggiore quando dal quadro ideale sognato si passa a indagare “la différence entre l’homme naturel vivant dans l’état de la nature et l’homme naturel vivant dans l’état de société“. Emilio è e dovrà rimanere un primitivo nel senso che la sua natura va preservata e sviluppata con un’educazione che sia azione della natura sopra la natura, ma è un primitivo fatto per abitare nelle città, nel turbine sociale (dans le tourbillon social). Con l’Emilio un terzo aspetto, psicologico ed etico, del concetto di natura si innesta sulle accezioni precedenti assumendole in sé, conferisce ad esse una nuova dimensione. È il significato più profondo e più tipico del concetto di natura, quello che più direttamente coinvolge il fondamento teologico e la prospettiva etica e pedagogica della visione roussoiana del mondo e della vita.
La natura come sentimento fondamentale
La natura nell’Emilio è intesa in primo luogo come una realtà psicologica: “le système du coeur humaine“, sistema in cui il sentimento è oggetto di studio, metodo di ricerca e criterio di giudizio.
La natura è l’insieme delle disposizioni primitive anteriori alle abitudini e alle alterazioni dell’opinione, è la costituzione intima e il temperamento indefinibile che unificano e distinguono gli uomini tra loro.
Per servirci di due termini assai espressivi, si potrebbe definire la natura roussoiana come “Ursprung” o “jaillissement“, ossia come uno sgorgare originale e spontaneo di sentimenti primigeni e fondamentali, il cui significato si arricchisce e si precisa secondo le fasi evolutive della vita umana.
La sensibilità, le sensazioni, la coscienza, le disposizioni, la sensualità, i sentimenti piacevoli o spiacevoli di convenienza o di sconvenienza, e gli stessi giudizi che diamo sull’idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione sono espressioni e variazioni del sentimento.
Se Cartesio nei Principi aveva chiamato pensiero “tutto ciò che avviene entro i confini della coscienza: non solo l’intendere, il volere, l’immaginare, ma anche il sentire”, Rousseau chiama sentimento tutto ciò che vive nell’uomo allo stato di natura, artificiosa ipotesi storica proiettata nel fondo stesso della coscienza, come sua fonte di ispirazione e norma di vita.
Se al “cogito” sostituiamo il “je sens” abbiamo il roussonismo come inversione del cartesianesimo, e l’immediatezza del sentimento elevato a criterio di verità: “exister pour nous, c’est sentir” dirà il Vicario Savoiardo.
A questo punto è lecito chiedersi: la ragione e le idee della ragione che significato assumono allora nella concezione roussoiana?
Il problema, assai dibattuto tra gli interpreti, ci sembra complicato dal fatto che Rousseau usa con particolari e diversi significati la parola “raison“, ma non è insolubile. Per Rousseau la ragione “n’est pur ainsi dire qu’un composé de toutes le autres facultés“, è il risultato del loro sviluppo naturale; la ragione “nous apprend à connaitre le bien et le mal” e fa tacere l’opinione. La ragione è l’aspetto intellettuale della “marche de la nature“, ossia di quel complesso di sentimenti costitutivi dell’essere umano. Le misteriosi scaturigini del sentimento non sono giudicate ma giudicano una siffatta ragione. La ragione per Rousseau è vitale finché prova la verità dei sentimenti, in caso contrario è snaturata, sofisticata, generatrice di opinioni fallaci.
I guai cominciano quando il ragionamento si sottrae alla commossa incertezza del sentimento: “l’uomo pericoloso è soltanto colui che riflette”! “La vérité des sentiments tient beaucoup à la justesse des idées“, ma è essa sola che la rende possibile.
Quando, invece, l’impressione ricevuta eccita prima la nostra attenzione e solo per riflessione pensiamo all’oggetto che la causa, allora si ha il sentimento vero e proprio che è anteriore e superiore all’idea. Così, mentre tutte le idee ci provengono dal di fuori, i sentimenti fondamentali “qui les apprécient sont au-dedans de nous” e costituiscono una specie di intuizione superiore alla ragione, “l’attitude profonde et originale où s’engage l’etre tout entier“. Qui, evidentemente, non si reagisce solo alla raison raisonnante degli illuministi, come sostengono numerosi interpreti; Rousseau consegue un risultato che va ben oltre il bersaglio illuministico: Rousseau annega la ragione umana nel gran mare del sentimento[14]. Il sentimento di Rousseau è “malato di un’ambivalenza, che ora appare ad esso intrinseca e connaturale, ora si scioglie in un’alterna prevalenza delle sue diverse componenti: ora espressione d’impulsi irrazionali, ora pregnante di una razionalità non riflessa, ma tuttavia sicuramente immanente. Questo duplice volto del sentimento o del coeur spiega anche le diverse interpretazioni razionalistiche e irrazionalistiche del pensiero di Rousseau”[15].
Le conseguenze non si fanno attendere molto. Il sentimento – sostanza, radice, tonalità e norma di ogni contenuto psichico – si esprime, per esempio, e con spontaneità parimenti sacrale, sia attraverso la coscienza (“sentimento innato di giustizia e di virtù” che sta all’anima come l’istinto al corpo, per cui “tutto ciò che io sento esser bene è bene, tutto ciò che io sento esser male è male”) sia attraverso la sensualità. L’uomo sensuale è l’uomo della natura, perché nella semplicità dell’istinto cerca ciò che gli piace e fugge ciò che gli ripugna: e la natura sceglie i suoi strumenti e li regola sul bisogno sentito secondo la propria particolare situazione.
Quando vi è sintonia tra la verità dei sentimenti, ossia, tra i bisogni sentiti e la spontaneità della loro soddisfazione, l’homme sensuel è sinonimo di homme sensible, di honnete homme, di homme sage. Era forse in applicazione di tali principi che Sofia, nei Solitaires, poteva contemporaneamente essere adultera e sentirsi pura, “vertueuse et bonne” e che Giulia, nella Nouvelle Héloise, congiungeva un sogno di voluttà e l’istruzione morale.
Il peccato sociale e l’ideale egotistico
La concezione della natura come jaillissement trova il suo presupposto nel mito della natura buona e il suo sbocco finale nell’ideale egoistico de “l’amour de soi“.
Nel terzo dialogo dell’opera Rousseau juge de Jean Jacques vien definito l’Emilio “un trattato della bontà originale dell’uomo, destinato a mostrare come il vizio e l’errore, estranei alla sua costituzione, vi si introducano dal di fuori e l’alterano insensibilmente”.
L’uomo, quando esce dalle mani di Dio, è buono; diventa cattivo a contatto con gli altri uomini. “L’amour de soi“, sentimento base, sempre buono in ogni suo movimento, nell’incontro del soggetto con gli altri uomini si deforma in “amour propre“, il primo di tutti i peccati. Ma quando, allora, l’amore di sé è retto e buono? E si dà forse una situazione in cui la creatura umana possa vivere ed educarsi senza l’incontro con altri uomini? Il sociale non è forse primordiale nell’individuo quanto l’individuo stesso?
L’ottimismo roussiano, che si estende dal piano creativo dell’uomo al momento, per così dire, nativo di ogni uomo, precipita nel pessimismo storico e sociale con una violenza di contrasto tanto meno spiegabile quanto più sono negate le complicità ontologiche che le derivazioni sociali trovano nell’uomo.
Anche la dottrina cristiana del peccato originale implica una responsabilità collettiva in ragione dell’unità del genere umano nel suo capo, ma alla sorgente dello stato di colpabilità, come poi, in varia misura, in ogni colpa, c’è un atto di responsabilità personale.
Le partecipazioni sociali possono essere e di fatto sono preoccupanti occasioni di alienazione, ma non sono di per sé il male dell’uomo. Si potrà pensare che il difetto sia nell’insieme di quei rapporti e di quelle istituzioni che sospingono gli uomini all’oppressione reciproca; ma chi ci dice che quei rapporti e quelle istituzioni siano soltanto cause e non anche effetti di quella specie di opacità anti-spirituale, di quella cattiva volontà che resiste intimamente allo sforzo necessario per la comunicazione e per l’amore?
Con la dottrina del peccato sociale Rousseau mette il dito, per primo, sulle responsabilità del disordine costituito e legalizzato, sulla sua triste fecondità, ma in quanto esclusiva quella dottrina rischia di conciliare l’evasione della responsabilità personale e l’atteggiamento rivendicazionistico dell’individuo verso tutti “gli altri”: si comprende bene, perciò, la sua fortuna nell’influenzare aspetti particolari delle più diverse teorie sociologiche e molteplici luoghi comuni.
Ai dogmi della natura esclusivamente buona e del peccato esclusivamente sociale, Rousseau talvolta sembra però sottrarsi e con accenti altamente drammatici, che sconfinano in una specie di dualismo metafisico oltre che etico, evidentissimo nella Professione di fede. “Meditando sulla natura dell’uomo ho creduto scoprirvi due principi distinti, di cui uno elevava allo studio delle verità eterne, all’amore della giustizia e del bello morale, alle regioni del mondo intelligibile, la cui contemplazione forma le delizie del saggio, e di cui l’altro lo rimenava bassamente in se stesso, lo asserviva all’impero dei sensi, delle passioni che sono loro ministre, e contrariava con esse tutto ciò che gl’ispirava il sentimento del primo. Sentendomi trascinato, combattuto da questi due movimenti contrari, mi dicevo: no, l’uomo non è uno; io voglio e non voglio, mi sento insieme schiavo e libero; voglio il bene, lo amo e faccio il male; sono attivo quando ascolto la ragione, passivo quando le mie passioni mi trascinano; e il mio peggior tormento, quando soccombo, è di sentire che potevo resistere”. Occorre vigilare: noi crediamo di seguire l’impulso della natura ed invece gli resistiamo; ascoltando ciò che dice ai nostri sensi, noi disprezziamo ciò che dice ai nostri cuori.
Sempre nella Professione di fede si giunge a distinguere tra la felicità dell’uomo naturale e quella dell’uomo morale: la prima consiste nel non soffrire, la seconda è un’altra cosa. Ma quale? Il Rousseau taglia corto, con disinvoltura: “non è certo quella la questione (ce n’est pas de celui-là qu’il est la question)”. Nella Lettre à M. De Beaumont Rousseau, incalzato dalla polemica, fa marcia indietro su un punto di capitale importanza e riconosce che “l’unica passione che nasce con l’uomo, cioé l’amore di sé, è una passione indifferente in se stessa al bene e al male, che essa non diventa buona o cattiva che accidentalmente e secondo le circostanze in cui si sviluppa”.
Queste ed altre affermazioni sono però ben presto ricacciate ai margini della reverie permanente di una bontà naturale senza scelta e senza sforzo: mettendo in conto alla società la scissione interiore dell’uomo in ogni sua forma e in ogni suo momento. Rousseau si affretta a stabilirsi in un falso stato di grazia creato dalla bontà di tutto ciò che si sviluppa in noi secondo la forma nativa: connotazione questa quanto mai vaga ed astratta, humus fecondo per tutti i sofismi della passionalità raziocinante o della dialettica. Il sentimentalismo romantico deteriore dei St. Preux, delle Julies, delle Sophies trova in Rousseau, se non il primo, certo il più efficace apologeta e una delle più illustre vittime.
Non è giusto far pesare sull’etica di Rousseau le debolezze del suo carattere e della sua condotta, ma non si può non tener conto che due anni prima della morte, in un passo dei Dialoghi, Rousseau confessava che il suo carattere non era che l’assunzione indiscriminata del suo comportamento, non avendo egli seguito in ogni cosa altre regole che gli impulsi della sua naturalità. L’uomo naturale è buono senza essere virtuoso; seguendo le sue inclinazioni, fa ciò che farebbe se lottasse per dare ad esse una orientazione giusta.
Ma dove tutto è buono, nulla va rifiutato: l’io allora si guarda vivere, la sua vita diventa una specie di teatro di Narciso, un idoleggiamento di se stesso che è piuttosto una rassegnazione ai propri impulsi e l’amor del vero si tramuta nella più ingannevole “sincerità”: “tutto ciò che io sento esser bene è bene”. A questo punto, come distinguere il sentimento di una spontaneità che sgorga come puri fatto dall’arbitrio della vitalità?
Rousseau, che si vantava di essere un vecchio fanciullo, conservò fino alla morte quella tipica mentalità infantile per cui non si vuole escludere nulla e si crede di potere edificare senza sacrificare: Jean Jacques non capì mai veramente come i rifiuti che accompagnano ogni morale scelta sono sforzi che la persona nella sua totalità compie per vincere la dispersione, per utilizzare le esperienze passate e quelle degli altri, per costruirsi un soffio creatore che fa di ogni uomo il padre della propria vita.
Notevoli accenni ad un’etica della legge si trovano nelle opere politiche dal Discorso sull’economia politica al Contratto Sociale, ma anche in questo campo molte delle verità intuite dal Rousseau vanno integrate un una superiore visione morale dello Stato, che sia coerente con una concezione democratica e liberale (tema, quest’ultimo, che merita un ampio sviluppo). D’altra parte non si può negare che anche quando protesta che la nobiltà della persona umana non consente che sia degradata a strumento altrui[16], Rousseau è ben lungi dal ripudiare l’utilitarismo e “ha in mente i diritti più che i doveri dell’uomo”: tutto ciò va ricordato per evitare interpretazioni che siano vere e proprie correzioni e integrazioni delle posizioni fondamentali del Rousseau[17]. A coloro che hanno esaltato la morale roussoiana non solo come “la forma più decisa della pura etica della legge che sia stata elaborata prima di Kant”, secondo il noto giudizio del Cassirer[18], ma addirittura come avente rispetto all’etica kantiana “una maggiore pienezza umana speculativamente vissuta”[19].
Alla stessa conclusione, quasi a riprova, si perviene se ascoltiamo, nelle Confessions (ad esempio nel libro 1,5) o nelle Reveries (la VI, in modo particolare) quello che Rousseau stesso dice del suo modo di intendere, o piuttosto di rifiutare, il dovere: “a togliere ogni dolcezza ad una buona opera, basta che diventi un dovere”; “sia che un comando mi sia imposto da un uomo o dal dovere ed anche dalla necessità, se il mio cuore tace, la mia volontà rimane sorda e non posso obbedire… quello che non posso fare con piacere mi è assolutamente impossibile compierlo”.
La morale roussoiana è un moralismo deficiente, anche se decisamente superiore all’immoralismo di quegli “ardenti missionari dell’ateismo e dogmatici imperiosi” quali erano, a giudizio del Ginevrino, gli enciclopedisti. In Rousseau c’è pure una spontaneità religiosa, una religiosità naturale che si difende con accenti di appassionata eloquenza dalle negazioni materialistiche, ma il Dio del Vicario Savoiardo non è che uno spettatore assente dalla vita del mondo e dalla storia. Sublime a Rousseau sembra il Vangelo mutilato e ridotto a testo di religione naturale, ma il Vangelo autentico è giudicato assurdo e dannoso: è un appello troppo alto per il suo uomo naturale.
Così al Ginevrino e al suo “homme naturel” restarono sconosciuti il mistero della rinascita spirituale mediante la scelta e l’impegno personale e l’economia evangelica della donazione totale senza calcolo di compensazione.
La «marche naturelle» e l’educazione
La «natura» roussoiana ha una sua validità se intesa, nella sua prospettiva educativa, come «marche de la nature», delineazione cioè dei motivi caratterizzanti la natura dell’uomo in ciascuno dei suoi fondamentali momenti dello sviluppo: infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza. Su questo terreno ai presupposti difettosi della concezione della natura si uniscono nell’opera del Ginevrino formule felici ed osservazioni di grande momento nelle quali sta la sua vera grandezza; le sue più geniali intuizioni postulano però una sintesi al di fuori del naturalismo, entro il quale sono contraddittorie o pericolose o prive della loro fecondità. Del resto, non ha più volte affermato lo stesso Rousseau di tenere assai più alle sue osservazioni che ai suoi principi? La sua più viva speranza era che, quando fosse stata dimostrata la falsità dei suoi principi filosofici e la chimericità delle sue esemplificazioni didattiche e dei metodi proposti, si potesse profittare sempre delle sue osservazioni. Rousseau ci ha dunque fornito il miglior criterio per interpretare criticamente la sua opera, criterio che non fu utilizzato abbastanza per cui l’Emilio divenne la fonte d’ispirazione per la quasi totalità dei movimenti dell’educazione nuova, non solo nei suoi aspetti più degni, ma anche nei suoi presupposti erronei. Non si potrà mai domandare che cosa è stato acquisito per sempre alla pedagogia grazie all’apporto diretto di Rousseau, senza rilevare contemporaneamente quali siano state le valenze pedagogiche negative derivanti dalla concezione roussoiana della natura. Ma i meriti di Rousseau sono di gran lunga superiori, nel rinnovamento dell’educazione, alle illusioni derivanti dalle sue dottrine.
Rousseau ebbe la gloria di rivendicare per primo la necessità della psicologia evolutiva. Per educare il fanciullo o l’adolescente o il giovane bisogna conoscere la psicologia del fanciullo, dell’adolescente, del giovane. «La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. Se noi vogliamo pervertire quest’ordine produrremo dei frutti che non avranno “ni maturité, ni saveur” e che non tarderanno a corrompersi… L’infanzia ha delle maniere di vedere, di pensare, di sentire che le sono proprie». «Le cose che dice un ragazzo non sono per noi quelle che sono per lui». Contro l’adultismo Rousseau ha sottolineato il carattere di autonomia e di differenziazione di ciascuna età, mirando a promuovere l’accordo tra l’evoluzione naturale e l’azione educativa. Il programma deve essere suggerito dagli interessi immanenti e dominanti di quel dato periodo dello sviluppo psicofisico.
Si potrebbe anche convenire col Rousseau nel delineare lo sviluppo dell’educando in tra fasi, opportunamente denominate da qualche critico coscienza sensibile, coscienza utilitaria, coscienza razionale e morale; ma nel descrivere lo sviluppo dei tre momenti, il Ginevrino sembra per qualche aspetto compromettente la continuità e la virtuale compresenza nella natura umana, a causa del pregiudizio sensistico – che infetta tutta la pedagogia roussoiana – di bimbi, di fanciulli, di ragazzi arazionali per i quali la ragione spunterebbe come terminus ad quem soltanto nell’adolescenza ([20]). L’intelligenza è, invece, costitutiva dell’essere umano in qualsiasi ciclo della sua esistenza: La prima età provvidenzialmente accentua l’attività del principio sensitivo perché il fanciullo, aprendosi alla vita, guarda il mondo in cui è per conoscere sempre meglio la posizione sua in esso. Il principio sensitivo dell’uomo scaturisce dal principio intellettivo e il suo predominio non è una ineguaglianza viziosa, come diceva il Gerdil nell’Anti-Emilio, perché la razionalità in boccio si forma prima le condizioni necessarie per potersi gradualmente spiegare poi fino alla compiutezza, ma è già presente e operante nel bimbo. L’ordine di sviluppo delle potenze è inverso rispetto all’ordine del loro valore e il predominio dell’attività sensibile nella prima età postula l’esigenza di un intervento attivo, armonizzatore, tempestivo dell’educatore: l’uomo va educato sin dalla nascita.
La spiritualità del fanciullo ci è poi mostrata dagli insistenti «perché» con i quali il fanciullo vuol conoscere le cose nelle loro cause: il suo interesse è schiettamente conoscitivo prima che utilitario, ma deve essere sostenuto dalla volontà se si vuole evitare il pericolo – denunciato da S. Tommaso – di disperdersi nella negligenza e nella curiosità, vizi morali della conoscenza solo apparentemente opposti, giacché la curiosità nasce dall’accidia così come la negligenza ([21]). Considerazioni queste che vanno insistentemente ricordate a quelle scuole che si dicono attive e che, preoccupandosi di fondare l’insegnamento esclusivamente sull’interesse come rispondenza spontanea tra il soggetto e l’oggetto, dimenticano l’interesse superiore che nasce dalla rispondenza tra il soggetto e i fini più alti e specifici della sua natura e non vedono come l’interesse convulso, che si concede a tutto per non seguire costantemente nulla, è la maschera dell’abulia.
La psicologia è premessa indispensabile all’educazione dell’uomo, ma Rousseau e con lui molti maestri della scuola attiva non videro chiaramente che l’educazione attinge un piano superiore a quello della pura e semplice psicologia. L’insegnante deve conoscere a fondo la psicologia per non deformare o ferire sentimenti e attitudini dell’educando con quegli sbagli pedagogici ai quali, come dice con fine arguzia il Maritain, gli adulti sembrano naturalmente portati. La psicologia insegna in qual modo il fanciullo guarda e percepisce, pensa, ama, desidera, lavora, gioca, ma essa non dice quale pensiero deve illuminare l’intelligenza, che cosa è degno del suo desiderio e del suo amore.
L’educatore parte dall’animo dell’educando, ma non per adagiarvisi in una specie di adorazione psicologica del soggetto; parte dalla psiche dell’educando ma per destare lo spirito dell’educando[22], la sua intelligenza motivatrice della volontà e dell’amore, per destarvi i più veri interessi umani. L’etica non va sacrificata alla psicologia come la psicologia non va ignorata dall’etica: questa segna la meta, quella indica le vie, i ritmi, gli ostacoli nella loro concreta molteplicità.
Rousseau ha rinnovato gran parte della didattica, mirando a suscitare l’iniziativa intellettuale col metodo dell’intuizione fattiva contro ogni forma di verbalismo. Far nascere un interesse mediante l’osservazione, tenerlo desto individuandone sempre meglio i vari aspetti e momenti, soddisfarlo mediante l’azione in cui si rende gradualmente conto del quomodo res fiat è un procedimento che ha ormai valore paradigmatico nella didattica moderna ed è conquista che ha avviato l’insegnamento per nuove vie.
Il maestro si rifà idealmente scolaro «per condurre lo scolaro a conoscere ciò che gli è ignoto precisamente come poterebbe se stesso – aveva già suggerito S. Tommaso nel De Magistro – per via d’invenzione a conoscere ciò che ignora». Il discepolo non apprende mai così bene come quando impara insieme al suo maestro. Le esemplificazioni e le amplificazioni roussoiane debbono talvolta lasciarci dubbiosi o essere francamente respinte, ma è nostro dovere cogliere ed approfondire lo spirito nuovo che Rousseau voleva infondere in esse.
Monito sempre attuale per gli educatori è poi quello di tener presente sempre il criterio della opportunità. Il pericolo di annoiare, contribuendo così a spegnere un interesse talvolta fondamentale, spiega l’insistenza contro l’insegnamento prematuro e contro il parolaismo, contro la mancanza d’anima, l’improvvisazione e la sciatteria a cui si abbandona la massa dei pigri e dei genialoidi.
«Non è così che si governa il cuore umano! – esclama sdegnato Jean Jacques. Ciò che si dice non val niente se non si è preparato il momento di dirlo». «L’impressione della parola è sempre debole e si parla al cuore con gli occhi molto meglio che per le orecchie». «Fate passare per il cuore il linguaggio dello spirito perché possa essere inteso». «La maggior parte delle abitudini che credete di far contrarre ai fanciulli e ai giovinetti non sono delle vere abitudini, perché esse sono state prese per forza e, seguendole, essi non attendono che l’occasione di liberarsene». Noi crediamo che l’educatore e il pedante dicano le stesse cose; ma l’uno le dice quando giunge il momento opportuno, l’altro le dice di continuo e, specialmente, quando l’educando non è nelle condizioni più propizie per dargli retta.
Al di là della facile constatazione della presenza del Rousseau nell’educazione moderna e contemporanea, l’attualità non peritura del Ginevrino va cercata in queste particolari verità che egli seppe raggiungere e proporre alla meditazione degli uomini con penetrante originalità. Chi concilia la ricerca appassionata della verità col rispetto per il travaglio dell’uomo e del pensatore, può essere grato a Rousseau anche per quegli errori che egli ha tipicamente esemplato nella sua opera, ma che non furono esclusivamente suoi, essendo a quando a quando ricorrenti perché non circoscrivibili in particolari epoche storiche né, tanto meno, in un sol uomo.
[1] Pegadogia e Vita, serie XXIII, n.6. Si tratta della rielaborazione di un precedente testo «La natura “roussoiana” e l’educazione nuova» pubblicato nel volume Dal metodo globale al metodo naturale, I Quaderni di Pietralba, La Scuola editrice, Brescia, 1956, p. 99-117.
[2] Così l’arcivescovo di Parigi, De Beaumont, definì Rousseau. Cfr. Mandement de M.gr. l’Archeveque de Paris, in “Ouvres Complètes” II, Paris, Didot 1875, p.747.
[3] Con queste parole Rousseau ritrasse se stesso nella Lettre à M. De Beaumont, ibidem, p.747.
[4] Il pensiero roussoiano si sviluppa nelle più tempestose condizioni di vita e rifletté sia le agitazioni sentimentali dell’Autore – uno strano miscuglio di cose meravigliose e vili, di miseria e di grandezza – sia gli impulsi e le resistenze dell’ambiente: in tal senso fu intima la compenetrazione di pensiero e vita nel Ginevrino. Il problema però ha bisogno di ulteriori chiarimenti: Rousseau non oltrepassò la sfera dell’anelito per entrare in quella della coerenza morale. Sotto questo aspetto, profonda è in lui la differenza tra dottrina e vita. “Egli stesso sentì questa contraddizione e ne sofferse. Ne patì tanto più in quanto non gli fu possibile sopprimere un tale destino umano nell’ordine tranquillo di una vita solitaria ed oscura: si trovava di fronte agli sguardi del mondo, al quale doveva dare conto di come interferissero in lui l’uomo e il profeta, l’azione e la dottrina” (cfr. Eduard Spranger, Jean Jacques Rousseau, Ed. Avio, Roma 1958, p.13).
[5] Rousseau ha difeso il suo stile con grande vigore dell’Avertissement premesso alle Lettres écrites de la Montagne: “Allorché una convinzione viva – scrive il Nostro – ci anima come potremmo avere un linguaggio gelato? Se Archimede, trasportato dalla nuova scoperta fatta allora, corse nudo per le strade di Siracusa, forse che quella verità era men vera perché lo colmava tale entusiasmo? No, chi ama la verità, non può trattenersi dall’adorarla, e chi può restar freddo di fronte ad essa, non l’ha mai conosciuta”.
[6] P. Janet, Histoire de la Science Politique dans ses rapports avec la Morale, II, Paris 1924, p.416.
[7] I. Kant, Werke, Ed. Hartenstein del 1867-1868, vol. VIII, p.618 e Borowski, Darstellung des Lebens und Charakters Immanuel Kant’s, 1804, p.170, cit. in Delbos, Rousseau et Kant, saggio pubblicato nel numero speciale della “Revue de Métaphysique et de Morale“, maggio 1912, dedicato alla celebrazione del centenario della nascita di Rousseau,
[8] Per Cassirer il pensiero del Rousseau è che “il sapere è senza pericolo, a patto che non s’innalzi senz’altro al di sopra della vita, staccandosi da essa, ma voglia servire l’ordine della vita stessa” (cfr. Il problema J.J. Rousseau, trad. it., La Nuova Italia, II ed, Firenze 1948, p.35). Una critica serrata dell’enciclopedismo e dell’intellettualismo da un punto di vista pedagogico, è stata messa in rilievo da Flores D’Arcais nel bel volume Il problema pedagogico nell’Emilio di G.G. Rousseau, La Scuola, II ed., Brescia 1954. “Quando – scrive il D’Arcais – il mondo della cultura si fa vario e complesso, quando l’uomo avverte il bisogno di una maggiore capacità reattiva, è chiaro che può facilmente rompersi l’equilibrio, e che l’uomo può venire travolto dalla molteplicità dei dati e delle notizie. Il fenomeno dell’enciclopedismo è in questo prevalere della molteplicità estrinseca, che non riesce ad essere dominata – unificata – dalla interiorità dello spirito. Contro questo pericolo – o questa realtà? – il Rousseau muove la sua critica e la sua polemica”. “La critica del Rousseau si appunta, quindi, in definitiva, su di un motivo assolutamente valido: è critica ad un istruire che non sia un educare, alla scuola puramente informativa (o, come si preferisce dire, passiva). Se l’uomo si limita ad acquisire delle conoscenze, si carica di un bagaglio inutile, anzi, dannoso, perché di ostacolo ed impedimento al ritrovamento di se stesso. Si possono imparare tante nozioni, si può diventare lo specialista di questa o di quella disciplina, ma se manca l’unificazione del sapere nella umanità dell’uomo, cioé nella interiorità della coscienza, manca il valore della cultura perché solo l’unità spirituale dà alla cultura una effettiva esistenza e un significato” (pp.74, 76).
[9] Nel primo dialogo dello scritto Rousseau juge de Jean Jacques, il Nostro dice testualmente: “Non ho mai accettato la filosofia dei felici di quest’epoca; essa non è fatta per me”.
[10] E. Spranger, J.J. Rousseau, ed. cit., p.7.
[11] È il tagliente giudizio che del Ginevrino dà Jacques Maritain nel volumetto Trois réformateurs, II ed., Paris 1947, di cui esiste una tradizione italiana presso l’Editrice Morcelliana di Brescia.
[12] B. Groethuysen, J.J. Rousseau, Gallimard. Paris 1949.
[13] N. Petruzzellis, Studi sul Rousseau, in “Rassegna di scienze filosofiche”, nn.1-2, 1953, p.137. Il Petruzzellis ha dedicato a Rousseau una monografia rapida ed essenziale nella ricostruzione storica, profonda nella discussione teoretica: Il pensiero politico e pedagogico di J.J. Rousseau, II ed., Adriatica Editrice, Bari 1958.
[14] “La mia regola, d’affidarmi al sentimento più che alla ragione, vien confermata dalla stessa ragione”, dice Rousseau. Varisco commenta: “Ma se il valore della ragione fosse problematico, non meno problematico sarebbe il valore di una regola, che ci è confermata dalla ragione. Tutto ciò, inoltre, contraddice ad altre dottrine che dal medesimo Rousseau vengono stabilite come indiscutibili”. (cfr. B. Varisco, Rousseau e Kant, nel volume “Il pensiero di Rousseau”, ed. La Nuova Italia, Firenze 1948, 3 ed., p.245).
[15] N. Petruzzellis, op. cit., p.18.
[16] Rousseau ha scritto con profonda verità: “L’homme est un etre trop noble pour devoir servir simplemente d’instrument à d’autres” (Nouvelle Heloise, p.V, lettre II).
[17]. Ricordiamo il noto giudizio del Cassirer, che ha esaltato la morale roussoiana non solo come “la forma più decisa della pura etica della legge che sia stata elaborata prima di Kant” (E. Cassirer, Il problema Gian Giacomo Rousseau, ed. cit., p.84), e l’opinione di Sacheli per il quale la morale di Rousseau rispetto all’etica kantiana presenta addirittura “una maggiore pienezza umana speculativamente vissuta (C. A. Sacheli, Rousseau, Ed. D’Anna, 1941, p.224-5, in parte condivisa da A. De Regibus, Il problema morale in J. J. Rousseau e la validità dell’interpretazione kantiana, Torino 1957, p.77).
[18] E. Cassirer, Il problema Gian Giacomo Rousseau, ed. cit., p.84.
[19] È l’opinione di C. A. Sacheli, Rousseau, ed. D’Anna, 1941, pp.224.225, in parte condivisa da A. De Regibus, Il problema morale in J.J. Rousseau e la validità dell’interpretazione kantiana, Torino, 1957, p.77.
[20] Questo pregiudizio rende quanto mai aporetica l’educazione morale e religiosa roussoiana, da noi altre volte criticata (cfr. La vita morale del fanciullo, in «Pedagogia e Vita», marzo 1953, pp. 196 – 199). Osserva giustamente il Varisco (op. cit., p.p. 238 – 239): «A un pensiero astratto, una regola parimenti astratta può sembrare ineccepibile. Ma il medesimo pensiero astratto, mutando il punto di vista, si crederà necessitato a riconoscere come ineccepibili anche le regole opposte. Procedendo a questo modo si può concludere quel che si vuole. Per esempio: Rousseau combatte l’opinione di Locke sull’opportunità di ragionare coi bambini. Perché, dice, se la trasformazione del bimbo in un uomo ragionevole è il capolavoro dell’educazione, come mai sarà possibile allevare un bimbo per mezzo della ragione? Vero; ma è pur vero, e affermato dal medesimo Rousseau, che i bimbi ragionano benissimo in tutto ciò che sanno, e che si riferisce al loro interesse presente sensibile… Cento volte si suol dire ai bambini: non fare così, perché il far così è male. Niente di più facile che ridurre all’assurdo questo discorso, risolvendolo, come fa Rousseau, nei suoi elementi logici. Ma è viceversa innegabile, che, senza l’approvazione e la disapprovazione da parte dell’educatore, l’attitudine a valutare secondo ragione, che nel bambino è in germe, ma soltanto in germe, non si svilupperebbe in eterno».
[21] S. Th. IIa, IIae, q. 35, art. 4; q. 166, art. 2; q. 167. Giustamente il Patruzzellis (cfr. «Problemi pedagogici» in Problema e sistema, Adriatica, Bari, 1954, pp. 426–7) insiste nel ribadire che «l’interesse come puro stato psicologico non è pedagogicamente fecondo perché può essere pura curiosità che a lungo andare può divenire oziosa ed essere sintomo d’instabilità, d’incapacità di durare in uno sforzo costante in una direzione unica»; né si può senz’altro riposare sulla tesi del Dewey secondo la quale «quando gli allievi sono genuinamente interessati nell’imparare il latino ciò è di per se stesso la prova che esso possiede valore educativo» (Democrazia ed educazione, tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 1951, p. 325). È tutt’altro che impossibile che il fanciullo intuisca il valore di una conoscenza, ma non si può sempre contare su questa felice circostanza, la quale non può dunque diventare l’indice rivelatore e tanto meno il criterio dei valori educativi. «Il paragone dell’interesse con l’appetito – continua il Petruzzellis – è soggetto a molte riserve: le esigenze dell’intelletto e dello spirito, per quanto profondamente radicate, non si presentano in una coscienza immatura con l’intensità e l’immediatezza di bisogni fisiologici. Una parte importante dell’attività educativa consiste nell’illuminare al di là del groviglio d’interessi contingenti le supreme aspirazioni della coscienza, a cui si collega anche la molla del sapere».
[22] La psicologia, intesa come antropologia vera e propria, nella luce di più larghe vedute, è feconda di grandi insegnamenti per la pedagogia, aiuta a conoscere se stessi, a comprendere gli altri e contribuisce a migliorare l’umanità. Essa non sostituisce l’osservazione diretta dell’allievo, come notava Herbart, ma è un aiuto ad osservar bene l’allievo, con la necessaria duttilità di pensiero che non sostituisce rigidi meccanismi alla concretezza dell’anima spirituale e libera.