Nel IV convegno nazionale tra studiosi di filosofia morale ha assunto un rilievo preminente e, forse, non previsto il dibattito sul senso della rinuncia oggi . In un tempo come il nostro, che avverte sempre più la tensione fra il permissivismo e il bisogno di un suo motivato superamento, è stato un atto di chiarezza da parte del presidente del convegno, Romeo Crippa, porre in discussione il concetto stesso di «rinuncia», bersaglio polemico numero uno negli ultimi decenni, termine su cui più si sono addensati gli equivoci, ma anche nodo di ogni seria indagine sulla vita morale. Le sfaccettature del problema sono tante e investono aspetti assai importanti; per questo abbiamo creduto doveroso raccogliere le voci dei cultori delle diverse discipline, nella ragionata convinzione che tra verità di ordine diverso vi sono sempre, anche se bisogna renderle sempre più esplicite, solidarietà e non contraddizione, convergenza essenziale e non reciproca esclusione. La verità non cambia a seconda di chi la scopre e la rende manifesta agli altri secondo un determinato punto di osservazione. Le singole verità possono appartenere a ordini diversi e sono, pertanto, da distinguere a seconda della molteplicità delle forme del reale e delle direzioni del sapere; ma è proprio la capacità di ascoltare la voce dei fatti e quella di uomini di competenze differenziate, senza esclusioni e apriorismi di sorta, che rende possibile una visione progressivamente orientata verso l’unità.
Il problema delle scelte-rinunce in economia
Che senso ha, oggi, la rinuncia in campo economico? La risposta di Orlando D’Alauro, accademico dei Lincei e ordinario di politica economica all’Università di Genova, va subito al nocciolo della questione. In quanto consumatori e produttori, gli uomini sono guidati dal principio della maggior utilità possibile. La disequazione fra la limitazione delle risorse disponibili e l’indefinito estendersi dei bisogni impone ad ogni passo una scelta, ma ogni scelta implica, ovviamente, una rinuncia. Il problema delle scelte-rinunce oggi è divenuto più complesso per varie ragioni. È aumentato il ventaglio dei beni tra cui scegliere. È cresciuta la delega ai pubblici poteri per quel che riguarda la soddisfazione dei bisogni individuali. È diminuita la rinuncia individuale volontaria e contemporaneamente è aumentata la rinuncia coattiva. Gli esiti inevitabili sono sotto gli occhi di chiunque voglia vedere: la spesa pubblica impazzisce, il disservizio si accresce, i risparmi si contraggono, i consumi individuali non necessari si dilatano, il processo inflazionistico diventa sempre più incontrollabile. Ma i guasti maggiori sono la riduzione dell’autonomia operativa e del sano gusto di rischiare, la perdita della responsabilità personale. Una nuova alienazione umilia l’uomo, o piuttosto una variante dell’alienazione analizzata da Marx; il pensatore tedesco non si era infatti posto il problema della degradazione di una società in cui si attuassero i suoi postulati e lo Stato fosse sempre di più datore di lavoro, padre e padrone. È assurdo pretendere di combinare insieme, in uno stesso sistema politico-economico, i danni prodotti dalla demagogia e quelli prodotti dallo statalismo. I politici e gli intellettuali devono persuadersi che se non si operano, oggi, razionali e serene rinunce, finiremo col rinunciare al solo bene che rende possibile ogni reale progresso, perderemo la libertà.
I miti dell’adolescente immaturo: dall’assolutizzazione al declino
Il punto di vista dello psicologo è stato espresso da Angelo Majorana, dell’Università di Catania. Da molti decenni la psicologia si è impegnata a dare una spiegazione meccanicistica e mondana dell’agire umano, secondo il presupposto ‘principio del piacere’ illustrato da Freud. Oggi il tentativo di spiegare tutto con un solo tipo di causalità e operando, illuministicamente, una scissione fra razionalità e vita dei sentimenti, è in fase di netto declino. Lo studio della personalità si è fatto più comprensivo, così che termini già scomparsi riprendono forma e il gioco delle forze nascoste (istinti, condizionamenti, gêni) viene finalmente rapportato alle strutture che più direttamente specificano come umano l’agire: intenzione, self-control, rinuncia e responsabilità. Nonostante la negazione dei valori etici, tipica della psicanalisi, non può non osservarsi un’accertata convergenza di interpretazioni, specialmente nel riconoscimento del dominio di sé, quale premessa necessaria per qualsiasi scelta anche psicologica: e scegliere qualcosa non si può senza rinunciare a qualche cosa d’altro. Già nel ’46, all’indomani del secondo conflitto mondiale, A. Huxley, in “Fini e mezzi”, non esitava a porre la mèta ideale dell’umanità nel «non attaccamento a se stessi e alle cose di questo mondo». Più recentemente gli fa eco E. H. Erikson vedendo nella saggezza «la più alta e conclusiva mèta della generazione umana, quale interesse distaccato per la vita in sé, al cospetto stesso della morte». La rinuncia spezza il legame con la immediatezza, ma permette al soggetto di crescere moralmente. In che modo? Erikson precisa: «grazie al sacrificio di una realtà confortevole e alla resistenza alla tentazione di giocare, di sognare, di aggrapparsi a dei feticci». Nella vita vissuta, in ultima analisi, conta veramente non ciò che è piacevole, ma ciò che è vero, anche se sgradevole. Senza l’opzione e la rinuncia che le è immanente, l’Io umano non sorgerebbe neppure, non vi sarebbe l’Io cognitivo e volitivo. Il divenire della coscienza, al di là delle pulsioni e delle pressioni dell’inconscio, è l’opposto di quello stato di debolezza e di confusione che è presente particolarmente nell’adolescente immaturo. Purtroppo i miti dell’adolescente immaturo sono diventati per molti modelli interpretativi e, peggio, ideali di vita. Uno stato di passiva dipendenza dalle droghe di ideologie esclusivistiche o libertarie e dagli stupefacenti è stato il risultato più evidente e generalizzato; ma la perdita dell’Io, la frantumazione dell’unità interiore si accompagna anche al diffuso atteggiamento narcisistico di sopravvalutazione morbosa e grandiosa di sé. Il sessantottesco «tutto subito» è la formula riassuntiva delle illusioni, tragiche per le conseguenze che comportano, di una visione della vita da cui era programmaticamente espunta la rinuncia.
La perdita di interiorizzazione e il dilatarsi della rinuncia come imposizione sociale
Il filosofo Romeo Crippa ravvisa nel tema della rinuncia un appello di matrice platonica e cristiana a realizzare la propria umanità al più alto livello, al controllo correlativo del corpo e dei moti sregolati dell’anima, ed altresì la coscienza del rischio di poter anche non conseguire il fine a cui pure si deve tendere. La rinuncia, elemento portante della vita morale, attesta un atteggiamento di fiducia in un ordine oggettivo che renda legittimo il sacrificio. Nella mentalità del nostro tempo, tuttavia, la rinuncia non si palesa più quale condizione di conquista spirituale o avvertimento di un ordine etico, ma quasi esclusivamente come privazione di quanto si ha o si vorrebbe avere.
La rinuncia volontaria tende a ridursi a zero in un simile contesto; ma anche le rinunce imposte – come la sofferenza fisica e spirituale e, termine estremo, la morte – sembrano essere divenute prive di pregnanza morale e religiosa. Quando però si fa dipendere, a ragione o a torto, da una rinuncia la realizzazione di un fine storico proposto come necessario alla sopravvivenza o all’elevazione dell’umanità, allora le teorie giustificazioniste si sprecano ad ogni prezzo, per quanto assurdamente esorbitante, va pagato. Ma la fiducia ne «le magnifiche sorti e progressive» e la mancata interiorizzazione della rinuncia non hanno significato affatto il venir meno della sofferenza, e forse questa è tanto più acuta perché non più assunta come prova morale, via di riscatto e di più alta donazione di sé. Oggi ci sono le malattie, ma il messaggio della malattia è percepito solo da pochi. La sofferenza fisica è essenzialmente rapportata all’efficienza perduta da riguadagnare non già come scoperta di una condizione. L’impegno operativo per rimuovere la sofferenza è bello, ma la malattia, e per essa la rinuncia a tutto ciò che la salute comporta, non diventa per i più rivelativa delle profondità dell’anima e del senso stesso del vivere. E qui, forse, sta la hybris del nostro tempo, vale a dire l’operare con tanta competenza, ma senza uguale sapienza.
Attualità del pensiero neotestamentario sulla rinuncia
Il richiamo, diretto o indiretto, alla visione cristiana della vita ha reso quanto mai opportuno un chiarimento di fondo sulla concezione cristiana della rinuncia. È stato questo il contributo di un eminente studioso e testimone del Vangelo, Valdo Vinay. Il decano della Facoltà Teologica Valdese di Roma non può più leggere, ma il suo intervento, a braccio, è stato tanto appassionato e persuasivo quanto preciso e ricco di riferimenti a tutto il Nuovo Testamento. Il testo fondamentale da cui prendere le mosse è “Matteo” 16, 24 – 27: «Gesù disse ai suoi discepoli: – Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà, ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio la troverà. E che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde l’anima sua? E che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?». La chiave interpretativa di questo testo come di tutto il Nuovo Testamento è l’agàpe di Dio. I greci usavano poco i termini agàpe e agapào che significavano accogliere amabilmente, preferire, stimare. Furono i traduttori in greco dell’Antico Testamento e poi gli autori del Nuovo Testamento a dare a quei termini un significato immensamente più ricco, l’amore per Dio e per il prossimo, esteso anche ai nemici e ai persecutori (Mt. 5, 43 ss.) «Dio è agàpe» (1 Gv. 4, 3) ed è lui che ci ha amati per primo (1 Gv. 4, 10). L’apostolo Paolo non si stanca di far risaltare ai nostri occhi le meraviglie di questo amore e di esse ci ha dato la sintesi lirica nel suo «Cantico dei Cantici dell’agàpe» (A. M. Hunter). L’agàpe non è una virtù umana, ma è «la possibilità divina», «il miracolo sempre di nuovo incomprensibile», «la via sopra tutte le vie», per dirla con Karl Barth, «il dono di Dio affidato agli uomini» secondo la felice espressione di Giovanni Paolo II. L’etica dell’agàpe è oltre ogni etica, oltre ogni imperativo, perché l’amore di Dio che opera in chi lo accoglie sorpassa la sfera del dovere. Implica un’ascesi, ma solo in senso derivato e secondario, in funzione di quella libertà dei figli di Dio di cui Agostino ci ha dato l’espressione più ardita e semplice: ama et quod vis fac. La rinuncia diventa croce solo quando l’amore è respinto. Ma la croce è la penultima parola di Dio; l’ultima è la resurrezione, il trionfo della vita in una comunione d’amore.
Humanitas, n. 6, 1982.
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