La filosofia politica ha il suo motivo dominante nel modo di impostare il rapporto di distinzione, di connessione e, a diversi 1ivelli, di interdipendenza tra morale e politica. Il punto di partenza è semplice: per divergenti che siano i fini contingenti delle diverse e opposte forze politiche in campo e degli uomini in esse impegnati, per tutti l’attività politica significa attività che si svolge a vantaggio della polis nella sua totalità e in rapporto alle altre comunità politiche. Dunque la politica non può avere, rispetto allo Stato e alla società a cui è logicamente e vitalmente connessa, un’efficacia negativa o distruttiva; e poiché la società e lo Stato rappresentano e sintetizzano scopi e interessi collettivi, una politica che persegua fini particolari in modo prevalente o esclusivo manca all’esigenza elementare e fondamentale che la costituisce come politica. La spontanea esigenza etica è interna al sorgere e all’esercizio dell’attività politica. L’«eticità» immanente all’attività politica in quanto tale, l’intima struttura teleologica e la tensione originaria al valore a cui quell’attività è orientata può essere elusa, calpestata o assecondata e attuata, ma essa è «condizionante» dell’attività politica. L’«eticità» può essere falsata nella politica contingente, ma ciò non importa uno snaturamento profondo e definitivo dell’attività politica, così come i fenomeni patologici non sopprimono le leggi che regolano le funzioni normali dell’organismo e la patologia non sostituisce la fisiologia. Il pensiero politico, senza ricorrere a presupposti di altra natura, dall’analisi stessa dell’attività che è suo oggetto di ricerca e del suo criterio caratterizzante, può dunque pervenire ad una prima conclusione: la politica non ha bisogno d’inchinarsi alla morale, quasi ad una estranea quanto dispotica sovrana, perché essa porta in sé strutturata una esigenza etica, distruggendo o ignorando la quale, si frusta l’efficacia stessa dell’azione politica.
Con una semplificazione drastica, ma non arbitraria, si potrebbero ridurre a tre gli orientamenti fondamentali sul problema del rapporto tra morale e politica. Il primo consiste nella giustificazione di una «doppia morale», una per la vita privata e un’altra, del tutto diversa, per la vita pubblica; il secondo tende a sopprimere o a relativizzare uno dei due termini del rapporto e mette capo ai due poli della sofistica in filosofia politica, il moralismo astratto e il politicismo assoluto; il terzo teorizza, con lo storicismo, il «superamento» del problema e sua morte dialettica. La «doppia morale» è un’espressione impropria che risale al Troeltch e al Wensch, ma la res, il ciò che quell’espressione indica è abbastanza noto ed è anzi moneta corrente tra coloro che mirano a rendere parallele ed eterogenee tra loro morale e politica. Certo, può anche accadere che lo spietato assertore di un’ideologia, e persino l’esecutore materiale di orrendi crimini compiuti in nome di un’ideologia, possano poi apparire esemplari nella professione e negli affetti familiari, ma solo a prezzo di un’insanabile frattura, o per attaccamento a un residuo di consuetudini cui non si vuole e non si sa rinunciare. Ma ha una pseudo-coscienza morale chi voglia limitare la morale alla sfera privata. La morale «sociale» non è, infatti, un’aggiunta o un’applicazione della morale «generale» originariamente concepita come individuale. La morale, in quanto tale, è inscindibilmente personale e sociale, e il personale e il sociale in essa sono allo stesso titolo primari e inseparabili. Accade anche, e forse più spesso, che un buon politico non sia incensurabile nella vita privata. Fatte le debite eccezioni, resta, però vero – dal punto di vista logico, e anche in rapporto all’esperienza comune e alla conoscenza biografica degli uomini politici – che, di solito, vi è circolarità tra il disordine che dalla vita privata esorbita in quella politica e viceversa, così come vi è un fecondo riflusso tra la vita morale delle persone e il livello della morale politica.
Se la «doppia morale» genera le sue confusioni, ben più insidiosi sono il moralismo astratto e il politicismo assoluto, che assorbono, sopprimono o svalutano fortemente, sino alla banalizzazione, uno dei due termini della relazione. Se la politica porta in sé l’esigenza etica ciò non significa che possa essere giudicata con gli astratti e generici schemi di un moralismo angusto e miope. La morale non è il moralismo, atteggiamento di spiriti ignari o farisiaci, espressione d’infantilismo spirituale o esibizione di coscienze poco sicure e poco serene. Il moralismo è il rovescio di un idealismo esasperato, utopistico, che ignora, altera, misconosce la natura e la storia degli uomini. Si deve riconoscere che lo Stato ha il suo più saldo fondamento nella coscienza dei suoi cittadini e nella elevatezza morale del popolo, che la vita politica esercita un’efficacia indubbia sul costume, che il diritto positivo s’intende e si giustifica in modo preminente in rapporto a un sistema di valori etici. Ma ciò non autorizza affatto le conclusioni sproporzionate e pericolose secondo cui lo Stato e l’azione politica sono esclusive creazioni della volontà morale e la morale deve far valere i suoi imperativi in termini di diritto positivo. Lo Stato non può ridurre entro i confini della vita giuridica tutte le manifestazioni della vita morale, non fosse altro che per la ragione illustrata da San Tommaso: non si può comandare a tutti e da tutti pretendere lo stesso grado di perfezione morale. Anche quando lo Stato avesse raggiunto tutta la perfezione di cui è capace in quanto istituzione giuridica, ci sarebbe sempre un ampio margine per la vita morale, tale in ogni caso da attestare che le due sfere, per quanto si possano sotto un certo aspetto immaginare come concentriche, non coincidono tuttavia. Anche lo Stato è orientato a facilitare, se non a promuovere, l’ascesa morale della umanità, ma la sfera dell’interiorità trascende necessariamente i limiti dello Stato.
La critica acutissima che San Tommaso fa del moralismo astratto colpisce al cuore, nello stesso tempo, il politicismo assoluto. Giovanni Gentile nell’opera postuma “Genesi e struttura della società” si adoperò a celebrare, con spericolate acrobazie dialettiche, la “politicità”, come categoria capace non solo di investire tutte le altre attività dello spirito umano, ma di dominarle e risolverle in sé. In questa celebrazione confluiscono, o sono fortemente spinti a confluire dalla logica delle idee professate, gli immanentisti e gli storicisti di tutte le estrazioni e, a fortori, i pedagogisti del servaggio, i teorici del totalitarismo nazionalistico, classista, razziale. In realtà i rapporti che intercorrono tra la politica e le altre attività dello spirito costituiscono problema alla soluzione del quale non può pervenire chi non sia capace di cogliere i tratti differenziali specifici di quelle attività con cui, appunto, entra in relazione la politica. Il politicismo assoluto, invece, postulando arbitrario monismo e comprimendo attività, esigenze e fattori diversi nella categoria della politicità, si rivela una diminutio hominis, un impoverimento dell’umano e, proprio per questo, un sintomo di degenerazione della politica. Allo stesso modo in cui l’estetismo lo è dell’estetica, lo scientismo della scienza, il moralismo della schietta e autentica moralità.
Giornale di Brescia, 11.1.1991.