Nella sfera etica più che l’aperta ripulsa dei valori e la loro sistematica negazione nei disvalori, atteggiamenti e tesi ancora circolanti a livello di immaturi, l’inautentico si manifesta come incessante produzione di pseudo-valori. Il pansessualismo trasfigurato in utopia liberatrice, il fideismo volontaristico, la equiparazione e insieme la contrapposizione tra l’etica della «vitalità» e l’etica della «purezza» ci sembrano aspetti particolarmente rivelatori della crisi della coscienza morale. Il pansessualismo, che Freud in qualche modo cercò di attenuare nelle ultime espressioni del suo pensiero e che fu oggetto di non infondate critiche da parte di avversari e di più o meno infedeli discepoli, ora torna in onore con W. Reich e H. Marcuse, convogliando anche l’apologia di inversioni e perversioni, invade la narrativa e il cinema, dilaga nel malcostume, assume la veste dell’esaltazione dell’istinto in quanto tale, che si esibisce senza scrupoli e senza remore di là dai confini legittimi della sua funzione biologica e dal suo ruolo nell’economia di una vita pienamente umana.
Alla «libido», all’Eros sono attribuite capacità di metamorfosi, che farebbero arrossire Ovidio, compiti di organizzazione e di ricostruzione sociale, di cui risultano chiaramente incapaci ad ogni elementare indagine critica. L’aspirazione erotica a fare del corpo intero un soggetto-oggetto di piacere, dice testualmente Marcuse, richiede un raffinamento continuo dell’organismo e genera l’abolizione del lavoro faticoso, il miglioramento dell’ambiente, la vittoria sulle malattie e sul deperimento, la creazione del lusso. La liberazione degli istinti non potrà non essere «un rovesciamento del processo di civilizzazione, un sovvertimento della cultura, ma dopo che la cultura ha terminato la sua opera e ha creato un’umanità e un mondo atti ad essere liberi».
La realizzazione di questo groviglio di sogni miracolistici è affidata ai fantastici poteri di autosublimazione dell’Eros. Ma quand’anche fosse realizzabile, sarebbe davvero auspicabile un futuro marcusiano? Si può allineare alla spontaneità dell’istinto l’ideale di perfezione a cui devono tendere l’uomo e la società? È lecito confondere la giusta aspirazione a liberare il lavoro intellettuale e manuale da condizioni oppressive con la mitica scomparsa di ogni sforzo e di ogni fatica? Non c’è atleta, per quanto dotato e appassionato, che non esca ansante e spossato da una gara che abbia messo a dura prova le sue capacità di resistenza e di iniziativa. L’utopia nebulosa del capo della contestazione degli anni sessanta è poi una meta degna dell’uomo? A noi sembra piuttosto un’aggiornata e complicata versione di un antico mito, il mito dell’età dell’oro. L’anelito a migliorare sia moralmente che socialmente è serio e indistruttibile nell’uomo; ma questo anelito per diventare una forza feconda di liberazione, di giustizia, di fraternità dev’essere educato e diretto verso mete ben diverse da quelle del pansessualismo utopistico.
Spiriti nobilmente pensosi della dignità umana, ben lontani dagli ideali chimerici dei marcusiani, rivendicano con energia «l’esistenza di un insieme di valori la cui estimazione assiologica oltrepassa i limiti della conoscenza scientifica», ma poi negano di poter «conferire alla coordinazione dei valori uno statuto ontologico», per servirci delle stesse parole di Piaget, uno dei rappresentanti di questo rinnovato fideismo morale. Il volontarismo etico che si accompagna alle più eterogenee posizioni speculative (studi recenti lo hanno messo in luce anche in Wittgenstein), se onora la personalità di chi lo professa, non dice il perché della volontà buona e tanto meno le ragioni della sua necessità morale e della sua superiorità assiologica.
Appellarsi a Kant per legittimare il cosiddetto «non cognitivismo valutativo», cioè la non giustificazione del valore morale e insieme la fede in esso, obbliga a entrare nel vivo del messaggio morale di quel pensatore geniale, che rivendicò con insuperata potenza la realtà, la specificità, l’autonomia dei valori morali, esaltati nella seconda e nella terza Critica, nonché in opere minori meno conosciute, e non a caso tentò con grande finezza speculativa di forzare le pregiudiziali agnostiche della prima Critica con la dottrina dei postulati metafisici della ragion pratica, di cui non sempre si coglie la reale portata. Già solo per queste ragioni il riferimento a Kant e alla sua drammatica esperienza sembra probante, ma non lo è, in quanto dà per risolti i problemi che in realtà travagliano il pensiero kantiano.
In realtà valori vissuti ma non conoscibili costituirebbero un mistero, un enigma inesplicabile. Se sono vissuti costituiscono delle verità, almeno potenziali, per il pensiero che ancora non riesce a rendersene conto. Se i valori non sono illusioni, hanno un loro statuto ontologico, per quanto ne sia ardua la comprensione. Né si può supporre che il pensiero umano si rassegni a considerare inconoscibili e inaccessibili valori che interferiscono continuamente con la vita e col pensiero che la riflette e la valuta.
Fortemente aporetica è, infine, la teorizzazione di una specie di doppia partita della condotta umana. Non si tratta, si badi, del fatto innegabile e doloroso dell’incoerenza, che documenta la nostra debolezza, ma non infirma, nemmeno nella nostra coscienza, il valore che non abbiamo saputo riconoscere praticamente e incarnare nell’effettuale concretezza dell’agire. Qui v’è ben altro; si oppone l’etica della «pienezza», vitalisticamente intesa, all’etica della «purezza», incarnata ad esempio da Alioscia Karamazov nel celeberrimo romanzo di Dostoewskj. L’una e l’altra, pur escludendosi a vicenda, sarebbero del pari legittime, per il carattere di radicale autonomia dei valori a cui rispettivamente si ispirano. La cosiddetta «antinomica» dei valori, teorizzata da Nicolai Hartmann, può servire indubbiamente a rappresentare sul piano filosofico il dramma della scelta morale e gli antagonismi della coscienza umana, o se si vuole il conflitto di alcune «etiche» che non sono l’etica; tuttavia quando pone sullo stesso piano valori assoluti e valori relativi, se non addirittura valori e disvalori, la confusione diventa inevitabile e non sappiamo come si possa evitare lo scetticismo o l’amoralismo.
Quale certezza obiettiva, quale interiore criterio di scelta può venirci da una morale scissa in imperativi opposti? La pienezza, come espansione della vitalità pura e semplice non può fondare nessuna etica, perché essa, indiscriminatamente considerata, si risolve in egoismo o in egocentrismo, che è un disvalore etico, psicologico e spirituale. L’etica non sopprime la vitalità, anzi la preserva e la potenzia nell’atto di umanizzarla.
Ma il discorso non può fermarsi qui. Al di sopra del pur legittimo «bonum delectabile», congiunto all’espansione della nostra vitalità, almeno fino al punto che non soverchi o spenga quella altrui, deve grandeggiare il «bonum honestum». Il primato spetta al bene morale per il quale, ove sia richiesto, si deve essere pronti al sacrificio, ad accettare anche ciò che deprime la nostra vitalità (si pensi a un servizio divenuto ingrato e stressante, che però deve essere reso ai nostri simili) e persino il carcere, la tortura, la morte. «Il bene morale non è affatto un comparativo, ma uno schietto positivo», come è stato ben detto proprio da Hartmann. È uno schietto positivo perché riassume in sé tutto ciò che attua le più profonde esigenze dell’uomo e costituisce la più alta perfezione della persona, anche quando una scelta secondo il valore più elevato rende drammatica una vita.
Giornale di Brescia, 10 aprile 1975.