«La crisi odierna della ragione consiste fondamentalmente nel fatto che a un certo punto il pensiero è diventato incapace di oggettività e ha cominciato a negarla affermando che si tratta di un’illusione. Il processo si è allargato gradualmente fino ad investire il contenuto oggettivo di tutti i concetti razionali; alla fine nessuna realtà particolare può essere considerata ragionevole in sé; tutti contenuti fondamentali, svuotati del loro valore, hanno finito per essere solo involucri formali. Soggettivizzandosi, la ragione si è anche formalizzata. Essa è ormai completamente aggiogata al processo sociale: unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo». Ulisse era il simbolo della ragione, ora lo è Juliette, la «donna tuttofare» della tecnica e della prassi politica, di cui la «ragione strumentale» non sa orientare l’uso mediante l’indicazione di un fine oggettivo di verità e di bene. Queste osservazioni di Max Horkheimer, che si leggono già in “Eclissi della ragione” e preludono alla svolta attuale, coraggiosamente autocritica, del suo pensiero, ci inducono a formulare un interrogativo che di solito oggi, proprio per le ragioni addotte dal fondatore della scuola di Francoforte, non osiamo neppure rendere esplicito. Qual è il carattere costante delle pseudo-filosofie, delle «mitologie dell’anti-ragione»? La risposta non può che emergere dall’interno della ricerca filosofica: il carattere costante delle pseudo-filosofie, oggi come ieri, è la dissoluzione del concetto stesso di filosofia, del suo significato, della specificità e autonomia della sua problematica e della sua metodologia. Gli indirizzi di pensiero che costituiscono le pseudo-filosofie sottopongono deliberatamente o anche inconsapevolmente il concetto stesso di filosofia ad un logorio, a un’erosione che distrugge la sua possibilità. L’autodistruzione è dunque il carattere intrinseco che le costituisce, così come è il loro segno di riconoscimento più sicuro.
Senza dubbio vi sono molteplici forme di svuotamento e di eliminazione della filosofia: oggi sono prevalenti il culto dell’incertezza sistematica, lo scientismo, il sociologismo, l’elevazione del freudismo a Weltanschauung esclusiva, il carattere inevitabilmente parziale e alienante di ogni cultura che vuol tutto ossessivamente ricondurre alla pressione dei fattori economici, la carenza del senso dell’essere, l’antitesi artificiosa fra storia e metafisica, il relativismo di chi non sa cogliere il rapporto tra la pluralità delle esperienze storiche e l’universalità dei valori. Certamente anche un’osservazione incompleta, un punto di vista unilaterale, può svolgere, in determinate condizioni e situazioni, una notevole funzione storica, richiamando l’attenzione su fenomeni trascurati, su esigenze neglette o comunque insoddisfatte. L’idealismo ha messo in maggior rilievo la potenza dello spirito, il positivismo l’esigenza di aderire al reale, il materialismo storico l’importanza dei fattori economici nel moto della storia, il problematicismo la necessità di una ricerca che non si acquieti in facili soluzioni, l’esistenzialismo la drammaticità della vita umana. Ma questa funzione storica non basta ad accreditare positivamente quegli indirizzi nelle loro linee sistematiche e nei loro presupposti. Una corrente di pensiero si può, infatti, valutare da un triplice punto di vista: dal punto di vista storico, dal punto di vista della potenza speculativa (donde nascono l’architettonica di un sistema e la genialità di alcune vedute) e dal punto di vista del contenuto di verità: confondere insieme questi punti di vista significa mancare di quella chiarezza logica, ch’è fondamento dello spirito critico.
Cause molteplici emergenti dal fenomeno storico che viviamo hanno concorso a far sì che il possibilismo e il problematicismo, per un verso, il sociologismo, per un altro, venissero a costituire, anche là dove non si esprimono con questi termini, il sottofondo di atteggiamenti e concezioni di diversa provenienza e di vario contenuto. Qualcuno potrebbe nobilitare il culto dell’incertezza, ricollegandolo all’antica suggestione della ricerca socratica, al motivo lessinghiano dell’incapacità di fronte all’infinita, assoluta verità, all’inquietudine metafisica del migliore esistenzialismo di Kierkegaard, di Jaspers e di Marcel. Ma l’umiltà di Socrate era autentica ed operante e non tarpava lo slancio del pensiero e la fecondità della ricerca, così come la consapevolezza dell’infinito non inaridiva in Lessing la forza drammatica e le sorgenti della poesia. Certo a nessuno è lecito dimenticare l’inesauribilità del vero, onde il monito posto in bocca ad Amleto da Shakespeare (There are more things in heaven and earth Horatio / Than are dreamt of in your philosophy) è sempre attuale. La stessa esigenza suggerisce a Pascal riflessioni indimenticabili sui limiti e insieme sulla forza insostituibile del pensiero. Ma il problematicismo è, per così dire, al di qua o se si vuole al di là di queste considerazioni. La sua originalità sta proprio non nel superare lo scetticismo e, nello stesso tempo, nel vanificare anche la parte che ad uno scetticismo franco ed aperto può spettare nella ricerca filosofica come termine di un sempre rinnovato processo di superamento del dubbio.
L’esibizione di umiltà e di modestia intellettuale, che fornisce lo spunto iniziale, si trasforma ben presto e clamorosamente in un non larvato dommatismo, dall’alto del quale si condannano secoli e millenni di speculazione e di civiltà, nonché il perenne travaglio del pensiero nell’approfondimento di irrinunciabili valori, senza dei quali la ricerca è ricerca di nulla e la possibilità stessa è sterile e distruttiva. Del che è facile rendersi conto che si riflette che il pensiero umano è sotto un certo aspetto dubbio e ricerca, ma anche conquista e certezza. Se si nega questo secondo momento, il primo momento invade e soppianta talmente l’altro da renderlo inconsistente e insignificante. In filosofia, poi, non ha senso la pretesa di sostituire alla verità la «sincerità», che senza il valore di verità sarebbe impossibile e diverrebbe posa dilettantesca e vaniloquio. Né vale dire che i problemi della filosofia, per il fatto di essere sempre di nuovo alimentati dalla vita, debbano ritenersi per questo insoluti e insolubili. I problemi della filosofia sono perenni non perché insoluti e insolubili, ma perché tali che ogni generazione e ogni persona deve porseli come che sia. Chi non si lascia frastornare, chi ascolta un po’ da vicino le voci dei sommi – artisti, uomini di religione, maestri del pensiero – sa che essi, pur partendo da punti di vista differenti, significativamente convergono nell’affermazione e nella difesa dei valori fondamentali, dei valori universalmente umani. In tal modo essi attestano, nel modo più alto, l’unità della famiglia umana e l’universalità dei valori nell’atto di alimentarne la coscienza.
Giornale di Brescia, 24 giugno 1975.