Il «Caso Galilei» fa discutere ancora. E non a torto. Per questo fin dalle prime battute del suo pontificato Giovanni Paolo II volle rimetterlo tenacemente al centro del dibattito culturale e religioso. A mio avviso il suo intento era ed è duplice. La ricognizione di quel «caso» serve in primo luogo a far acquisire come un punto di non ritorno la coscienza della reale autonomia del sapere scientifico e della sfera propria delle fede religiosa contro i fragili concordismi e le pregiudiziali settarie. Il secondo motivo non è meno importante: la soluzione data da Galilei al problema si rivela, ed è qui l’aspetto paradossale, come la più rigorosa per gli scienziati e insieme quella che meglio risponde al pensiero della stessa Chiesa. Come ebbe già a rilevare con grande acume padre Agostino Gemelli nel lontano 1942 nel volume commemorativo pubblicato dall’Università Cattolica nel terzo centenario della morte del grande pisano, sul rapporto tra scienza e fede Galilei aveva visto giusto e si era mostrato «miglior teologo dei suoi giudici». Sì, perché il modo di argomentare di Galilei sulle finalità, sui generi letterari e sui modi di lettura della Bibbia è teologicamente di gran lunga più avveduto e coerente che non quello di chi, in nome della Sacra Scrittura, si adoperava a condannare le sue concezioni astronomiche. Ci si chiede: come spiegare allora il fatto che il fondatore della fisica moderna fosse in grado di dare una «lezione teologica» di altissimo valore su un argomento di così rilevante importanza? Certamente un genio può, anche su problemi che sono al confine con i campi da lui meglio esplorati, intuire ciò che ad altri sfugge; la grandezza teologica di Galilei nasce però dal fatto che egli, con straordinaria perspicacia, ha assimilato l’insegnamento e il metodo ermeneutico di Sant’Agostino nel rapportarsi alla Sacra Scrittura.
Agostino nel suo itinerario spirituale si era posto esplicitamente il problema del rapporto tra ricerca sui fenomeni naturali e rivelazione religiosa. Nella sua opera più celebre, le “Confessioni”, il vescovo di Ippona polemizza molto vivacemente con i manichei, che si credevano detentori di una spiegazione totalizzante delle realtà divine e dei fenomeni fisici, e denuncia con vigore «l’audacia sfrontatissima» di quei credenti che osano incorporare al dato rivelato una teoria o un’ipotesi scientifica, piegando la Scrittura ad un compito che le è del tutto estraneo. Nel capitolo quinto del libro V del suo capolavoro il santo dottore dichiara che nuoce, e molto, ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l’insegnamento religioso e affermare con ostinazione quanto si ignora. Non esiste, infatti, una rivelazione religiosa dei fenomeni naturali ed è pertanto assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e religiosa. «Quando sento parlare questo o quel fratello cristiano, che è inesperto nelle scienze e in esse ha idee sbagliate, io – incalza Agostino – considero le sue opinioni con pazienza; né vedo come gli nuoccia ignorare accidentalmente la posizione e i movimenti di enti corporei, creati da te, allorché su di te, Signore creatore di tutto, non abbia opinioni sconvenienti. Gli nuoce, invece, il pensare che la scienza faccia parte proprio dell’insegnamento religioso e affermare con sfrontata ostinazione quanto ignora». È questa una lucida, radicata convinzione su cui Agostino ritorna in testi diversi. «Attribuire alla Scrittura dati scientifici è delirare, è far ridere» giunge a scrivere nell’opera “Sulla Genesi alla lettera” (I, 19). E nel “Contro Felice”: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: Vi mando il Paraclito perché v’insegni come camminino il sole e la luna- Egli voleva fare dei cristiani, non degli astronomi» (I, 10). Agostino scriveva queste cose undici secoli prima di Galilei e il grande scienziato trasse proprio da Agostino citazioni quanto mai calzanti a sostegno della sua tesi sull’autonomia delle conoscenze scientifiche e sull’intendimento specificamente religioso della Bibbia. Nella “Lettera a madama Cristina di Lorena”, e nella “Lettera a monsignor Piero Dini”, ambedue del 1615, Galilei riprende il principio agostiniano della rigorosa distinzione di ambito, di finalità e di metodo tra scienza e fede, facendo sue le parole di chiara derivazione agostiniana, che dice di aver inteso dal cardinal Baronio: «L’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vadia al Cielo e non come vadia il cielo». Chiamando in causa ripetutamente il santo dottore, Galilei ribadisce che la Bibbia «non ha lo scopo di determinare le costituzioni e i movimenti de’ cieli e delle stelle» e che bisogna procedere con molta cautela «intorno a quelle conclusioni naturali che non sono de fide, alle quali possono arrivare l’esperienza e le dimostrazioni necessarie». La Scrittura, insomma, non deve venire impegnata da fallibili interpreti su questioni risolvibili dalla sola ragione umana. Se i giudici di Galileo avessero avuto la consapevolezza profonda che Agostino aveva della Scrittura, messaggio di salvezza che non può presegnare i risultati della ricerca scientifica, il «caso Galilei» non sarebbe mai sorto e non graverebbe ancor oggi su tante coscienze.
Giornale di Brescia, 3 luglio 1987.