Laicità cristiana

Venne chiesto un giorno al cardinale Gasquet quale fosse la posizione dei laici nella Chiesa cattolica del suo tempo. Rispose: «I laici, la loro posizione? Beh, di solito debbono restare in ginocchio. Ma possono alzarsi in piedi al Vangelo». Anche un papa, benemerito sotto molti aspetti e di indubbia santità, Pio X, in un documento ufficiale, datato 11 febbraio 1906, scrive che i sacerdoti sono nella Chiesa per insegnare e dirigere, mentre i laici formano «la moltitudine che non ha altro dovere che di lasciarsi condurre e di seguire docilmente i suoi pastori». Ed ecco che oggi, 1° ottobre 1987, la Chiesa universale è convocata da un altro papa, Giovanni Paolo II, per porre all’ordine del giorno il problema: «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio». Ne discuteranno i vescovi di ogni parte del mondo, ma l’incontro di Roma è stato già preceduto da un ampio dibattito preparatorio.
La prima cosa da constatare è il coraggio di una istituzione bi millenaria, che si sforza di comprendere se stessa e di commisurarsi al Vangelo, che pure la supera di ogni lato, non temendo di portare al livello di riflessione collegiale e pubblica una delle questioni più difficili, su cui l’approfondimento dottrinale urgente e l’adeguazione allo spirito del Concilio ancora lontana. Perché sul ruolo dei laici c’è stato al Concilio un mutamento di prospettiva ed è stato di grande rilievo. A questa più comprensiva e determinata consapevolezza di sé la Chiesa è giunta grazie a molti apporti e, in buona misura, in concomitanza con lo sviluppo della cultura democratica e con l’espansione della civiltà urbano-industriale. Il primo decisivo apporto venne però dal papato. Fu Pio XI che chiamò i laici alla collaborazione diretta con l’apostolato gerarchico della Chiesa e da questa sua visione trassero potente impulso numerosi movimenti laici e, in primo luogo, l’Azione Cattolica. Il successore, Pio XII, che preparò la svolta conciliare sul piano del magistero e della riflessione teologica, con l’enciclica “Mystici corporis”, rimise in valore, e su una base rigorosamente scritturistica, il significato della Chiesa come «comunione». Poi venne il Concilio, a partire dal quale – ne è prova la costituzione “Gaudium et spes” – la Chiesa non può essere più intesa come ineguale e dualistica: il clero e i vescovi da una parte, i laici dall’altra. Concezione questa che al più attento studioso della ecclesiologia conciliare, il Philips, appare francamente «troppo invadente e incompleta».
Non esiste una Chiesa passiva, dei credenti laici, ed una attiva e demiurgica, del clero e dei vescovi. La Chiesa è una sola e non può essere divisa in due, affidando ad una sola di esse la capacità e l’iniziativa di immettere o meno correnti di vita nell’altra parte subalterna. La figura del credente trascende, in effetti, la distinzione tra laicato e sacerdozio e accentua, invece, fortemente la comune essenza e partecipazione al mistero di Cristo, sebbene per i laici in forma non ministeriale, ma attraverso i loro specifici compiti terreni e secolari, nel mondo e attraverso il mondo, cercando di immettere il dinamismo del Vangelo nel lavoro, nella elaborazione culturale, nella politica, nell’impegno sociale, nella lotta per i diritti dell’uomo, nella ricerca della pace, nei rapporti interpersonali, con i fratelli nella fede, con i cristiani non-cattolici, con i seguaci di altre religioni e con i non credenti. La Chiesa è un popolo, un’assemblea dove è necessario che vi siano capi, così come funzioni e responsabilità diverse; ma in essa, a tutti i livelli, tra vescovi e sacerdoti e laici deve stabilirsi una comunità di vita, perché vi è una comunità di fede e di servizio.
«E i laici, che cosa sono mai?», brontolava un vescovo, parlando con John Henry Newman, il rappresentante più significativo del movimento anglicano di Oxford convertito al cattolicesimo nel 1846. L’uomo che nell’Ottocento meglio espresse il genio e la continuità cattolica del cristianesimo si limitò a rispondere: «Well, without them, the Church woud look rather foolish!». Frase che può essere tradotta press’a poco così: «Ebbene, senza di loro, la Chiesa non avrebbe l’aria molto intelligente!».

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Nella babele del linguaggio corrente si è indotti a confondere «laico» con «laicista». «Laico» è chi, pur accettando la distinzione (ma non la separazione ostile) tra la sfera politica e quella religiosa, non ha un atteggiamento di rigetto verso la dimensione religiosa della vita. Egli è uno del popolo (laòs) dei credenti; non è però membro di un ordine sacro, né di un ordine religioso. Il laico cristiano fa dell’impegno nel mondo – famiglia, politica, lavoro, arte, cultura, scienza, mass-media, ecc. – il suo pane quotidiano. Non vi è nello stato laicale nessun abbassamento rispetto a quello del prete o del religioso, nulla che restringa o innalzi la libertà spirituale comune a tutti coloro che accolgono il Vangelo.
Il problema è di vedere come questa libertà si determini e si esplichi in vista dei compiti, delle capacità e dello stato di vita che caratterizzano la condizione del laico nel mondo. Condizione che non coincide con quella del prete. È, infatti, giusto e normale che il sacerdote, pur rimanendo se stesso, rompa la rete delle abitudini convenzionali che lo isolava e prenda parte alle attività sociali e culturali del suo tempo. In linea di principio nulla si oppone a che egli si guadagni da vivere anche con il lavoro delle proprie mani; e tuttavia il suo mestiere è il servizio delle anime, lavoro per gli uomini altrettanto utile e più utile degli altri.
Il problema in discussione al Sinodo mondiale dei vescovi non è, come si sente dire, se e come rimpiazzare i preti, che diventano sempre meno numerosi, con i laici; e neppure quali funzioni del ministero sacerdotale possano essere demandate a questi. La Chiesa vuol affermare a chiare lettere una prospettiva assai più ampia. La testimonianza evangelica da dare e il compito di ispirazione cristiana da effettuare nell’ordine temporale sono – questo è il suo messaggio – affare dei laici. E questa mansione sarà assolta bene soltanto se essi, essendo dei veri cristiani e in possesso di provate competenze, ne prenderanno l’iniziativa, assumendone responsabilmente e in piena coscienza tutti i rischi.

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La fioritura di gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali dopo il Concilio risponde alla scelta di un tipo di spiritualità e di impegno a preferenza di altri e al bisogno, oggi molto sentito, di amicizia, di lavoro in comune e di schietta testimonianza in una società per tanta parte secolarizzata. È una conseguenza del diritto di libera associazione nella Chiesa, chiaramente ribadito anche nel recente Codice di diritto canonico (can. 215). Dolersi perché non pochi laici, e in massima parte i giovani, si riconoscano nell’uno o nell’altro movimento o gruppo è comprensibile: si vorrebbe, infatti, che le loro forze fossero impiegate in primo luogo all’interno delle parrocchie. Ma come negare che l’impegno prioritario per la parrocchia per alcuni non è sempre agevole e praticabile? Chi ha il diritto di imporre a un adolescente o a un giovane l’obbligo di non cercare vie a lui più congeniali? E poi, se quei movimenti sono veramente ecclesiali, i parroci e i vescovi ne riceveranno l’aiuto tutte le volte che si chiederà loro di recare un apporto specifico alla Chiesa locale; ma a condizione di rispettare il loro modo di essere nella Chiesa, la loro particolare vocazione e capacità di servizio. Detto questo, non si deve però tacere che in Italia tra alcuni movimenti ecclesiali il confronto e il pur legittimo dissenso sono degenerati assai spesso in una contrapposizione aprioristica e permanente, che è la negazione stessa della fraternità cristiana. È troppo chiedere ai laici impegnati nei movimenti ecclesiali di non smarrire il senso della Chiesa, a cui pure si onorano di appartenere, che è senso di universalità, e di cercare con animo grato quello che vi è di buono nell’apporto degli altri alla comune illustrazione e difesa dell’annuncio evangelico?

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È stato detto: «Noi come vescovi ci assumiamo le nostre responsabilità al Sinodo, lasciando che poi altri si assumano le proprie». Sì, ma anche i laici hanno da chiedere qualcosa al clero e ai vescovi. Sarà un acquisto per tutti se la visione di una chiesa dualistica cederà il posto a una ben diversa consapevolezza. Non si tratta di diminuire la dignità del clero per accrescere quella del laicato, essendo ormai provato che la formazione dei laici e quella dei sacerdoti vanno di pari passo. Chi ha un minimo di consapevolezza storica non può certo volere una religione su misura dei suoi umori («Un cattolicesimo alla carta», come è stato detto, quasi che credere a Cristo significhi scegliere quello che pare e piace da un menù); ma i laici ricordano, che la costituzione conciliare “Lumen gentium” (paragrafi 35, 37), che nell’azione evangelizzatrice ci sono ambiti che spettano loro di diritto e che «i pastori hanno bisogno dell’aiuto e dell’esperienza dei laici» per le competenze da questi acquisite nei differenti campi dell’attività umana e, in particolare, quando si affrontano le ardue questioni di frontiera (ad esempio, tra scienza e coscienza morale). Vorremmo anche che i pastori si ricordassero che non è giusto dedicare troppa attenzione ai laici dei gruppi ecclesiali, di cui pure va difeso il diritto all’esistenza, e troppo poca ai laici comuni, a quelli che sono fuori di associazioni e gruppi, a quei soldati semplici che s’incontrano un po’ dappertutto, fedeli a Cristo e rispettosi con i non credenti, consapevoli che il loro dovere è quello di testimoniare e non di predicare o parteggiare. Si vorrebbe che i laici comuni fossero più vicini al cuore dei pastori, proprio perché non avanzano pretese di meschine primogeniture.
Non suoni, infine, indiscreto l’invito che il gesuita Georges Chantraine ha fatto risuonare in questi giorni «a non gonfiare di titoli i servizi che ciascuno è tenuto a compiere», perché è assai forte il disagio dinanzi ad un certo linguaggio ancora in uso nella Chiesa. Anche il vecchio Maritain in una delle sue ultime pagine si augurava che la semplificazione del lessico, iniziata da Paolo VI dopo il Concilio, venisse portata più avanti possibile, per rendere più trasparente la bellezza del Vangelo.

Giornale di Brescia, 1 e 2 ottobre 1987.