"In Dio non c’è violenza"

Platone aveva ben visto che, se si cade nella trappola dell’antropomorfismo, nessuna affermazione blasfema è esclusa, neppure quella di un «Dio-vampiro», secondo la quale l’essere, che pure è pensato come assoluto, sussisterebbe solo nell’atto di svuotare della loro stessa sostanza tutti gli altri esseri. Byron, in fondo, esprime quella medesima fantasticheria quando rappresenta Giove come

il dominatore principio dell’Odio / the ruling principle of Hate
che per suo piacere crea / which for its pleasure doth create
le cose ch’egli possa distruggere/ the things it may annihilate
(“Prometheus”, vv. 20-22)

Di fronte a una rappresentazione così ripugnante dell’Assoluto, in cui l’onnipotenza è assimilata al capriccio e alla malvagità (sic volo, sic iubeo, stat pro ratione voluntas), è destinato inevitabilmente a grandeggiare il mito antagonista di Prometeo, il lottatore audace e infelice che si ribella a uno smisurato, cieco potere. Si tratta di una proiezione pseudo-religiosa della logica mondana della forza bruta che assoggetta, sfrutta, aliena. Quella logica e la proiezione corrispondente sono state apertamente criticate e respinte da ogni filosofia degna del nome e dall’autentica coscienza religiosa. Fiera e limpida fu la protesta di Israele; ma nella stessa Grecia, forgiatrice di miti, Senofane elaborò assai presto un’acuta confutazione dell’antropomorfismo e il suo discorso fu portato a perfezione, con insuperata efficacia, da Socrate nell’ “Eutifrone” platonico. All’attività fabulatrice del mito, sempre ambivalente, il pensiero greco ha cercato di sostituire l’indagine razionale sulla Causa incausata del reale e sul fondamento primo della coscienza morale. Platone conia nella “Repubblica” (II, 379 a) anche il termine “theologia”. In Aristotele la “theologia” diventa non solo momento essenziale e definitorio, ma vertice e punto di confluenza dell’intera ricerca metafisica; e lo è tal punto che egli può usare quel termine a indicare, da solo, la metafisica in quanto tale (“Metafisica” VI, 1, 6; XI, 7, 7). Chi fa, infatti, ricerca delle cause e dei principi primi, di necessità deve incontrare Dio.
Quali che siano le insufficienze del pensiero teologico dei greci, non poche sono le anticipazioni, imperfetti ma significativi preludi della visione cristiana. La più bella fra tutte a noi sembra la risposta di Platone alla domanda sul perché della esistenza stessa del mondo. «L’Artefice era buono e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune da invidia, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano… Né ora né mai è lecito, infatti, a chi è sommamente buono di far altro se non la cosa più bella secondo la natura e la più buona che si potesse» (“Timeo” 29e-30b). È difficile leggere una confutazione più appassionata e profonda del mito del «Dio-vampiro». La coppia Giove-Prometeo non ha alcun senso, come è evidente, sul piano dell’indagine teoretica e della vita religiosa; tuttavia essa si è tradotta per molti in stato d’animo, in metafora mai messa in discussione, in motivo per accreditare il più violento anti-teismo. Così accadde a Feuerbach e a Marx, e più tardi a Nietzsche e allo stesso Freud. È assurdo assimilare il Cristo dei Vangeli al Giove dell’Olimpo. Il Padre di cui Gesù ci ha rivelato il cuore non ha nulla a che fare con un Saturno che divora i suoi nati o con un Giove che incatena Prometeo. L’analisi dei motivi psicologici e sociali per cui nasce la pseudo-religione, parassitata spesso a supporto di una società chiusa e, insieme, la confutazione geniale e rigorosa delle teorie che ignorano lo slancio creatore profondo della ‘religione dinamica’ dei profeti, dei santi e dei mistici, è nell’ultimo capolavoro di Henri Bergson, “Le due sorgenti della morale e della religione” (l’edizione francese più maneggevole è in “Oeuvres”, Presses Universitaires de France, Paris 1970; trad. it. Comunità, Milano 1982, VI ed.).
Per cogliere nella sua profonda bellezza l’espressione dell’ “A Diogneto” «In Dio non c’è violenza / bía gar ou próseti tô theô» (VII,4), occorre inserire quelle parole nel brano di cui costituiscono la sublime conclusione.
«Colui che è l’unico Signore onnipotente, il Creatore di tutte le cose, l’Iddio invisibile, proprio lui, Dio, ci ha inviato dall’alto dei cieli la Verità, il Logos santo e incomprensibile, e l’ha fatto dimorare tra gli uomini dandogli una stabile sede nei loro cuori […] Dio ha inviato agli uomini l’Artefice e l’Autore stesso dell’universo […]. Da lui tutti gli esseri hanno ricevuto ordine, misura, giusta disposizione […]. Questi è colui che è stato inviato da Dio agli uomini. Forse che egli fece queste cose – come qualcuno potrebbe fantasticare – per tiranneggiare, spaventare, atterrire? No certo. Il Padre lo inviò in mitezza e bontà, come un re manda suo figlio re. Lo inviò come Dio, qual era, e come uomo, come conveniva che diventasse per salvare gli uomini, mediante la persuasione e non con la violenza. In Dio, infatti, non c’è violenza. Egli l’ha inviato per chiamarci a lui, non per porci in stato d’accusa. L’ha inviato spinto da amore, non da rigore» (VII, 2-5).
Lo stesso concetto è mirabilmente ripreso e sviluppato più avanti:
«Se anche tu desideri ardentemente questa fede e l’accogli, comincerai a conoscere il Padre. Dio, infatti, ha amato gli uomini. Per essi ha creato il mondo; ad essi ha sottomesso tutto ciò che è sulla terra; ha donato loro la parola e l’intelligenza; solo ad essi ha concesso di innalzare gli occhi a lui; li ha formati a sua immagine; ha inviato loro il suo Figlio unigenito; ha promesso loro il regno dei cieli e lo darà a quelli che l’avranno amato. Ti figuri di quale gioia sarai ricolmo quando l’avrai conosciuto? Quale amore proverai tu per colui che per primo tanto ti ha amato? Amandolo, diventerai imitatore della sua bontà. E non stupirti che un uomo possa farsi imitatore di Dio: l’uomo lo può, perché Dio lo vuole. La felicità non consiste nel tiranneggiare il prossimo, nel prevaricare sui più deboli, nell’aver ricchezze, nel far violenza a chi è sottoposto. Non si può imitare Dio con azioni del genere, del tutto contrarie alla sua maestà. Imita Dio, invece, chi prende su di sé i pesi degli altri, chi nel campo in cui ha una qualche superiorità vuol fare del bene ad altri meno fortunati, chi dà con liberalità a quelli che ne hanno bisogno quei beni che passano per le sue mani, ma che sono stati ricevuti da Dio. Imitando la misericordia divina, si diventa un ‘dio’ agli occhi di chi è beneficato» (X, 1-6).
Il tema della benignità di Dio e della grandezza teocentrica dell’uomo – che Gregorio Nazianzeno chiamerà «animale divinizzabile», capace di un destino sovrannaturale propostogli per grazia – l’ “A Diogneto” lo enuncia con grande forza e già Ireneo ne fa il tema dominante del suo pensiero. I figli di Adamo sono chiamati alla vita stessa di Dio, a diventare partecipi della divina natura, «consortes divinae naturae», come dice Pietro (2 Pt 1, 4). «È gloria di Dio l’uomo vivente (gloria Dei, vivens homo)» scrive Ireneo (Contro le eresie 4, 34, 77) e queste sue parole costituiranno la formula più positiva e intensa dell’umanesimo cristiano. «Dio ha creato libero l’uomo all’inizio, affinché osservasse volontariamente la volontà di Dio, senza esservi costretto. In Dio, infatti, non c’è violenza» (ibid. 4, 37, 1). L’uomo non può essere buono come si dice di una cosa che è buona. La sua eccellenza dev’essere un’eccellenza voluta, consentita, frutto della sua volontà. Per questo Dio ha affidato l’uomo alla sua propria volontà sia per quanto riguarda le opere che per quanto riguarda l’adesione alla fede (ibid. 4, 37, 5). Per la stessa ragione la pienezza divina che Dio vuol dare all’uomo, Dio non può darla come si dà o come si impone a una cosa. L’uomo non è tutto quello che può e deve essere fin dall’inizio, come se fosse una bambola fabbricata. Bisogna che l’uomo cresca e cooperi alla propria genesi e alla divinizzazione progressiva che Dio gli offre mediante Cristo. Creando l’uomo libero, Dio ha il dovere di rispettare la condizione metafisica in cui egli lo ha posto. E, similmente, Dio per salvare l’uomo si fa uomo, venendo a noi come noi lo potevamo vedere, perché la redenzione si compia «secundum suadelam», per adesione interiore, in modo che non siano mai violati l’onore e la libertà dell’uomo.
Il paradosso della rivelazione cristiana consiste proprio in questo: la libertà dell’uomo non può essere giustificata che dall’onnipotenza della libertà creatrice e redentrice. L’onnipotenza di un Dio che è “Agape”, ed essa sola, può garantire l’indipendenza di colui che è posto nell’essere. Si tocca ancora una volta qui per mano l’originalità della «metafisica cristiana», che non concepisce il rapporto tra Dio e l’uomo in termini di concorrenza antagonistica – per cui l’affermazione dell’uno esigerebbe la negazione dell’altro – ma come «sinergia» e «vincolo nuziale». L’ “A Diogneto”, in perfetta adesione allo spirito e alla lettera del Nuovo Testamento, attesta in modo semplice e profondo questa intuizione fondamentale della fede cristiana. L’unico, autentico superuomo è, come s’è visto nel passo appena riportato, chi si unisce a Dio nell’amore di tutto ciò che Dio ha creato e redento, facendosi testimone libero e fedele, collaboratore insostituibile del «disegno d’ineffabile grandezza» (VII, 9). Da Ireneo ad Agostino, da Tommaso d’Aquino a Niccolò Cusano, da Vico a Bergson l’approfondimento di questo motivo centrale della visione cristiana della vita è costante e significativo. Per tutti ci limitiamo a riportare sull’argomento una pagina di straordinaria penetrazione e forza dialettica. È di Søren Kierkegaard.
«La cosa più alta che si può fare per un essere, molto più alta di tutte ciò che un uomo possa fare di essa, è renderlo libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi nella manifestazione dell’onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosa creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente. Per questo un uomo non può rendere mai completamente libero un altro; colui che ha la potenza, n’è per ciò stesso legato e sempre avrà quindi un falso rapporto a colui che vuol rendere libero. Inoltre vi è in ogni potenza finita (doti naturali ecc.) un amor proprio finito. Soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. Ogni potenza finita rende dipendenti; soltanto l’onnipotenza può rendere indipendenti, può produrre dal nulla ciò che ha in sé consistenza, per il fatto che l’onnipotenza sempre riprende se stessa. L’onnipotenza non rimane legata dal rapporto ad altra cosa, perché non vi è niente di altro a cui si rapporta; no, essa può dare, senza perdere il minimo della sua potenza, cioè può rendere indipendenti. È soltanto un’idea miserabile e mondana della dialettica della potenza, pensare che essa cresca in proporzione della capacità di costringere e rendere dipendenti. No, allora comprese meglio Socrate che l’arte della potenza è di rendere gli uomini liberi. Ma nel rapporto fra uomo e uomo ciò non è possibile (sebbene sia sempre necessario accentuare che questa è la cosa più alta), poiché ciò costituisce una prerogativa dell’onnipotenza. Perciò se l’uomo godesse della minima consistenza autonoma davanti a Dio, Iddio non lo potrebbe rendere libero. La creazione dal nulla esprime a sua volta che solo l’onnipotenza può render liberi. Colui al quale io assolutamente devo ogni cosa, mentre però assolutamente conserva tutto nell’essere, mi ha appunto reso indipendente. Se Iddio, per creare gli uomini, avesse perduto qualcosa della Sua potenza, non potrebbe più rendere gli uomini indipendenti». (S. Kierkegaard, “Diario”, trad. it. di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 19803, vol. III, p. 240).
 

Humanitas, n. 3 – giugno 1984.