Il senso della storia: le due città

La risposta di Agostino alla grande domanda sul senso e il valore della storia è insieme semplice e profonda. La storia ha un significato universale, proprio perché l’agire umano rinvia sempre a un duplice atteggiamento spirituale, che si ritrova nei tempi e nei luoghi più diversi. Agostino riconduce la storia non a due realtà, come farebbero i manichei, ma a due atteggiamenti opposti, che i singoli e i popoli assumono di fronte a una stessa realtà. Il duplice atteggiamento spirituale consiste in due principi diversi, in due modi di intendere e di vivere la storia. Non vi sono che due movimenti reali nel mondo umano: quello che va verso l’alto e muove incontro alla verità, o caritas, e quello che va verso il basso s’allontana dalla verità per andare verso l’apparenza, o cupiditas.
La civitas terrena è «la città dei figli della terra», cioè quella società i cui membri, legati come sono dall’amore esclusivo o preponderante delle cose della terra, considerano questa la loro unica vera città. È la città in cui l’uomo, dimentico di Dio, diventa idolatra di se stesso e dei propri poteri. È la città in cui l’uomo deforma o calpesta la legge naturale, rifiuta la sua vocazione all’esterno e si chiude nella finitezza dell’al-di-qua, nell’ebbrezza di sé e dei suoi compiti terreni, conferendo ad essi, quali che siano, un valore assoluto, totale. Altre connotazioni importanti, anche se variamente mascherate, sono la libidine del potere all’interno della società e tra nazioni diverse, la violenza eletta a sistema, l’emarginazione e l’oppressione delle coscienze che non si piegano alla menzogna e alla brutalità, una falsa concezione del bene comune ed una effettiva appropriazione dei beni con ingiusta esclusione degli altri, la chiusura ad ogni autentica comunione con gli altri uomini e con Dio, la faziosità, il razzismo.
E sul razzismo l’Africano è molto esplicito. Egli osserva che in virtù della comune origine, conosciuta attraverso la rivelazione, l’unità del genere umano non è solo un ideale realizzabile, ma un fatto. Un fatto fisico, poiché tutti gli uomini sono parenti; ed anche un fatto morale, poiché essi sono legati non solo da una semplice somiglianza naturale, ma anche da un sentimento propriamente familiare. «Nessun fedele può avere dubbi sul fatto che tutti gli uomini – per quanto differiscano per razza, colore della pelle o per la forma stessa delle membra – traggano origine dal primo uomo creato da Dio e che questo sia stato creato unico» (“De Civitate Dei” XVI, 8, 1). Né Agostino dubita che Dio stesso abbia creato in questo modo tutto il genere umano «per far comprendere agli uomini quanto gli sia gradita l’unità pur nella diversità» (ibid., XII, 22) e perché la loro unità fosse veramente quella di una famiglia (ibid. XII, 21). Gli uomini sono dunque naturalmente fratelli in Adamo, prima di esserlo, in modo soprannaturale in Cristo.
La città di Dio è la comunità invisibile, di là di ogni confine di tempo e di luogo, di quanti cercano, amano il bene e vivono per attuarlo nella situazione storica in cui sono chiamati ad attuarlo. I suoi connotati sono esattamente opposti e irriducibili a quelli della città terrena e stanno ad essi come il valore al disvalore, il bene al male, la luce alle tenebre,. In particolare alla libido dominandi essa oppone il servitum. Nella casa dei giusti quelli che comandano lo fanno non per orgoglio, per volontà di asservire, ma perché hanno il dovere di rendersi utili e il desiderio di provvedere. Ma non basta distinguere le due città e metterle a confronto; occorre anche precisare i loro mutui rapporti così come è dato coglierli nell’esperienza storica. «Le due città in questo mondo sono intricate tra loro e confuse». La formula è giustamente famosa e lo stesso Agostino l’ha ripresa molto spesso. Questa nozione di mescolanza inestricabile – permixtio, come per i gambi di vimini di un paniere, commixtio, come in una emulsione chimica – richiama esplicitamente la parabola evangelica della zizzania e del buon grano.
Chi comprende una tale dottrina non potrà mai procedere manicheisticamente (di qui tutti i buoni, di lì tutti i malvagi). Il limite che separa queste due città è praticamente indiscernibile ai nostri occhi e passa attraverso l’intimo del nostro cuore. Il sembiante interiore di ognuno, la sua vera bellezza o bruttezza, il suo grado di responsabilità morale non sono conosciuti appieno che da Dio.
Un importante punto di contatto tra le due città è costituito dalla ricerca della pace. Per quanto opposte nelle loro finalità ispiratrici, le due città hanno bisogno della pace per sussistere: è infatti assolutamente necessario un minimo di unione sia delle volontà, sia nelle opere indispensabili alla nostra sussistenza e nella produzione di quei beni adatti alla nostra condizione. Sul tema della pace Agostino torna di continuo e a lui ben si addice la designazione di «dottore della pace».
Sulla concezione agostiniana delle due città continua a circolare un equivoco luogo comune, per cui si fa dire al grande Africano proprio l’opposto di quello che ha esplicitamente detto. Per Agostino lo Stato non è affatto la civitas terrena e la Chiesa visibile non può essere identificata con la città di Dio. Concezioni del genere, che autorizzerebbero un radicale pessimismo sul terreno politico e un grossolano trionfalismo in campo religioso, sono esplicitamente criticate da Agostino. Lo Stato tende a identificarsi con la «città perversa» solo quando le sue leggi e le sue istituzioni opprimono le persone invece di servirne l’ordinato sviluppo; nondimeno questo è pur sempre un processo di perversione, non qualcosa di connaturato alla realtà statuale e alla città temporale.
Analogamente la Chiesa visibile è, per la sua missione e per la sua universalità, la prefigurazione meno inadeguata della città di Dio. Incamminata verso la città di Dio, non coincide puntualmente con essa. Società di «coloro che, santificati in Cristo Gesù, sono chiamati ad essere santi» – per servirci di una forte espressione paolina (I Cor, 1, 2) – empiricamente la Chiesa visibile è composta di uomini bisognosi di luce e di perdono, di comprensione e di aiuto. Con la solita finezza Agostino osserva inoltre che tra i nemici della Chiesa ci possono essere eletti che si ignorano e che, per le più diverse circostanze di educazione e di esperienza, hanno smarrito senza colpa la via che conduce alla casa del Padre e la fede in quella patria a cui pure anelano le loro anime generose.
Tra i molteplici insegnamenti che si possono trarre dalla riflessione agostiniana sulla storia due in particolare ci sembrano di grande rilevanza. Il primo è che anche nella costruzione della città politica la traiettoria disegnata dall’azione umana, finché dura nella sua energia realizzatrice di giustizia e nella sua volontà di servizio, può essere omogenea con l’itinerario della città di Dio e confluire in esso. Ma solo parzialmente. La città politica è, infatti, d’importanza decisiva nella sua sfera, ma non può soddisfare le più alte aspirazioni dell’anima umana ed è per questo che il politicismo assoluto genera barbarie e disumanità.
Yves Congar, parlando delle attuazioni riuscite della città temporale, si domanda se esse «possono essere altra cosa che non una specie di parabole del regno di Dio e della sua giustizia» (“Per una teologia del laicato”, Brescia, 1966, p. 630). Etienne Gilson, parlando della città politica che abbia accolto liberamente l’ispirazione evangelica, propone l’immagine di un «sobborgo della città di Dio» (“Le metamorfosi della città di Dio”, trad. it., Milano, 1958, p. 283); Henri I. Marrou quella di «un guscio che racchiude il nocciolo» (“Teologia della storia”, trad. it., Milano, p. 108). Permane nettissima comunque la distinzione fra questa città politica, cui bisogna tendere, e la città di Dio. Così, del pari, non si può confondere nessuna delle "cristianità" storiche con il Cristianesimo, che tutte le supera e le trascende, pur senza negare o misconoscere quanta autentica grandezza sia testimoniata dall’una e dall’altra epoca storica.
Il secondo acquisto della lezione agostiniana sta nell’aver individuato la tentazione più grande che si presenta all’umanità: l’artista è portato a idolatrare la propria arte, l’amante l’oggetto del proprio amore, l’uomo d’azione la città che si è prefisso di costruire. A costoro sant’Agostino ricorda che ciascun bene o valore di questa terra – si chiami pure il bene della città temporale, l’arte, la scienza, la filosofia – per quanto prezioso si corrompe, e diventa caricatura di ciò che avrebbe potuto essere, quando è innalzato a fine ultimo, a tèlos, mentre lo si dovrebbe considerare come fine intermedio, scopòs, realtà trasparente attraverso cui e per mezzo della quale l’uomo raggiunge la meta, il traguardo supremo dell’esistenza, la fonte dell’essere e di ogni dono perfetto.
L’uomo non è una specie di animale come le formiche o le termiti, a cui è demandato il compito di rifare incessantemente le loro magnifiche e fragili dimore. L’uomo è chiamato ad essere co-autore, concreatore di quel regno di Dio, che «è già e non ancora». È già in mezzo a noi e dentro di noi, come fermento, imperativo e speranza che struttura interiormente il nostro oggi; e non è ancora, perché costituisce la meta finale del nostro viaggio. È bene ricordare di tanto in tanto che sulla provvisorietà delle costruzioni storiche, il Divino Architetto costruisce la Città di Dio, la sola dimora definitiva. Architectus aedificat per machinas transituras domum manentem (“Serm.” 362, 7).
 

Osservatore Romano, 21 marzo 1987.