A quarantatré anni, dodici dopo la conversione, Sant’Agostino scrisse le “Confessioni”, per aprirsi al genere umano, al cospetto di Dio: apud te, haec narro, generi meo, generi humano. Nessun’altra sua opera ebbe maggior diffusione. Intorno ai settantaquattro anni, quando si volterà a giudicare le sue opere, parlerà delle “Confessioni” con tenerezza e in termini di netta predilezione: «esse mi commuovono ancora, quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo» (“Retract.”, II, 32). Le “Confessioni” non sono soltanto un capolavoro di autobiografia intellettuale: esse sono il manifesto della vita interiore. Per colui che ha potuto scrivere: «Sono entrato in ciò che ho di più mio» (intravi in intima mea, “Conf.”, VII, 10), l’alienazione più profonda sta per l’uomo nel non conoscersi, nel non pensarsi.
«Gli uomini guardano pieni di stupore alle vette delle montagne, al flusso ininterrotto delle maree, all’ampia distesa dei fiumi, agli oceani che li circondano e al movimento delle stelle; e tuttavia essi passano inosservati a loro stessi, non sono oggetti del loro stupore» (“Conf.”, X, 8). L’esperienza dell’uomo diventa autentica nella misura in cui si fa interiore (ibid., X, 6). L’anima non riesce a trovare Dio se non mediante un ritorno su se stessa e una specie di progressione ab intus. Solo chi ha il coraggio di esplorare se stesso ritrova in sé la comunanza di sentimenti, aspirazioni, debolezze che lo unisce ai suoi simili, riscopre in sé «quel che l’uomo è – può – deve» e incontra Dio. Un uomo non può sperare di trovare Dio, se prima non ha trovato se stesso, poiché il Dio vivente è presente all’interiorità più profonda dell’uomo, ed è il più intimo all’uomo di quanto egli possa essere a se stesso (intimior intimo meo, Ibid., III, 6). Di qui la sublime limitazione del socratismo cristiano di sant’Agostino, che fa dell’anima umana e di Dio il centro di gravitazione, l’oggetto precipuo di una stessa ricerca: la ricerca del senso della vita. Per questo le “Confessioni” oltrepassano di continuo il piano dell’analisi psicologica, per darci un’antropologia filosofica, una teologia, una morale, una spiritualità.
Che cosa fa sì che l’uomo si conosca indubitabilmente come capace di conoscere? Perché l’uomo è chiamato ad esercitare la sua signoria sul mondo, a usarne secondo i suoi bisogni? Perché è l’unico animale che fa storia? Quali sono le ragioni della sua libertà di scelta? Qual è la sorgente delle regole di verità e di bene, interiori e trascendenti, nella cui attuazione si celebra l’eminente dignità della persona umana? Interrogarsi in profondità sull’uomo significa aprirsi a Dio. «Il filosofo è con Dio perché ha coscienza della propria interiorità» (sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intelligit sapiens, “De ordine”, II, 2, 5). Una partecipazione analogica e insieme realissima fa dell’uomo un’immagine di Dio. Tuttavia l’immagine divina dell’uomo non è solo, né principalmente, il pensiero e la libertà. Ciò in cui l’uomo rassomiglia effettivamente a Dio è la spinta dinamica, la tensione teologica per cui l’anima, traversando in certo modo se stessa, usa questa similitudine appunto per raggiungere Dio. Questo pensiero, che pervade le “Confessioni” dall’inizio alla fine, Agostino lo ha bene precisato nel “De Trinitate” (XIV, 12).
San Tommaso, citando esplicitamente il passo agostiniano, ribadisce lo stesso principio: «l’immagine di Dio si trova nell’anima, in quanto l’anima si innalza verso Dio, o in quanto la sua natura le permette di innalzarsi verso di lui» (imago Dei attenditur in anima, secundum quod fertur vel nata est ferri in Deum, S. Th., I, 93, 8, sed contra et resp.). Immagine di Dio, l’uomo non può conoscere veramente se stesso senza conoscere qualcosa di Dio. L’uomo, il cui spirito si scopre in relazione costitutiva con Dio, acquista così una profondità nuova, insospettata dagli antichi. Noi siamo inscrutabili a noi stessi perché partecipiamo in qualche misura alla profondità di Dio: «il pensiero stesso non può essere compreso, neppure da se stesso, in quanto è un’immagine di Dio» (mens ipsa non potest comprehendi, nec a se ipsa, ubi est imago Dei, “De symbolo”, I, 2).
Tutte le opere di sant’Agostino, ed in particolare le “Confessioni”, conducono a quell’affermazione e ne sono quasi il commento e la giustificazione. Si pensi alla dottrina della memoria, sviluppata in capitoli indimenticabili nel libro X delle “Confessioni” (8 – 27). Nello sforzo di trovarne in sé l’essenza, l’anima vi traversa piani successivi sempre più profondi. Dapprima la memoria delle percezioni sensibili, ampio palazzo dove trovano posto in modo incomprensibile le distese immense dell’universo; è un rifugio misterioso, vasto e persino senza confini. Chi ne ha mai toccato il fondo? «Non è – dice Agostino – che una facoltà del mio spirito; tuttavia essa mi sfugge, e io stesso non posso cogliere tutto ciò che sono (nec ego ipse capio totum quod sum)». Qui, come mai prima nella storia del pensiero occidentale, l’uomo è divenuto per se stesso un motivo di sorpresa, e di stupore: stupor adprehendit me. Che cosa bisogna pensare, quando alla memoria delle cose sensibili si aggiunge quella delle scienze, e le idee si offrono alla considerazione dello spirito? Quid ego sum, Deus? Quae natura sum? Che sono dunque o Dio? Quale natura sono? Ma non è ancora tutto. Al di là delle idee stesse sta la verità che le governa, e, poiché questa verità porta i caratteri divini della necessità e dell’eternità, bisogna bene che Dio stesso sia presente alla nostra anima ogni volta ch’essa pensa il vero per mezzo di quei poteri e di quelle interiori regole di verità che da Dio derivano. E non basta più parlare delle profondità dello spirito: esso si apre sopra un vero infinito, si prolunga in Dio. Pieno di spavento e afferrato da un orrore sacro (nescio quid horrendum) alla vista di questa presenza divina, l’uomo allora si sgomenta di se stesso, e scorge il mistero latente sotto le apparenze della sua natura; fugge a se stesso, in quanto immagine divina, perché l’ultima parola della conoscenza di sé è la prima della conoscenza di Dio.
«Nessun libro più delle “Confessioni” scalza con tanta abilità artistica quelle che sono le premesse di una biografia convenzionale» . Si comprende allora la ragione per cui i numerosi e dotti tentativi di contrarre quel grande libro in uno schema rigido non potevano dare risultati attendibili e non hanno giovato gran che alla sua lettura approfondita. «Un istintivo senso d’arte – osserva M. Pellegrino – presiede a tutta l’economia della composizione, in forza del quale l’opera trova i suoi motivi non in norme esteriori, ma nelle esigenze stesse della materia, interpretate dalla squisita sensibilità di un artista» . Agostino è anche artista nella più riuscita delle sue opere – oltre che filosofo, teologo, psicologo, mistico: non scrive capitoli di un trattato, ma cerca, attraverso la riflessione sull’esperienza vissuta, di cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale e nel suo orientamento dinamico. Anche sulle vette più pure della sua speculazione si riconosce sempre in Agostino «colui che abita nel cuore dell’umano» . Il pensiero agostiniano – vasto, complesso, zampillante – è sempre attento alle vibrazioni dell’anima ed è una continua vitae meditatio.
Agostino è uno di quegli uomini che solo con l’elevazione del loro pensiero teoretico si mettono in grado di raggiungere il loro essere più profondo. Egli fece, pertanto, della ricerca inesausta e della contemplazione amante della Verità l’alimento, la ragione della sua vita, la sorgente del suo amore senza misura per Dio e per gli uomini. Lo scandaglio degli abissi dell’anima umana, la capacità di suscitare evocazioni e risonanze multiple, l’intuizione sbalorditiva nel cogliere i più diversi aspetti di un problema (si pensi alle indagini sul male, sulla memoria e sul tempo svolte nei libri VII, X e XI), lo spirito largamente umano nell’esporre i temi più rigorosi e l’arditezza inventiva delle soluzioni proposte, la simbiosi perfetta di filosofia e fede: queste caratteristiche del grande africano fanno di lui uno dei «Padri» dell’Europa e della civiltà universale, un genio del Cristianesimo, e del suo capolavoro, delle “Confessioni”, un’opera unica. Un’opera che continuerà sempre, finché l’uomo sarà uomo, a inquietare, ad affascinare, a fecondare potentemente gli spiriti che la meditano, un libro insostituibile per tutti coloro che non hanno smesso di cercare il senso della vita e di cercarsi.
Humanitas, 1/2 del 1978.
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