Una certa tradizione illuminista ha fatto di Agostino, uno dei geni universali in cui più abita l’umano, un “teologo forcaiolo”; ancor oggi qualche epigono insiste nel presentarlo alla Bayle, come “prince et patriarche des persécuteurs”. La risposta più corretta a questo tipo di giudizi crediamo di darla cercando di sorprendere, per così dire, l’atteggiamento di Agostino su un problema di sconcertante attualità: il terrorismo e la pena di morte.
Quando Agostino, tornato in Africa dopo la conversione, contro ogni suo progetto nella primavera del 391 fu acclamato sacerdote, nella basilica di Ippona (Hippo Regius, Bona sotto l’occupazione francese, oggi Annaba) con un procedimento tumultuoso allora non insolito, la situazione di quella provincia romana era assai difficile. Per una quindicina di anni l’ex professore di retorica, divenuto nel frattempo vescovo, dovette fronteggiare in prima persona l’ostilità di una chiesa scismatica fortemente organizzata e le insidie del terrorismo. Il terrorismo trovava allora nell’eresia del donatismo la sua copertura ideologica e il donatismo, da parte sua, si prestava molto bene a quell’ufficio, poiché traeva tutta la sua forza da un puritanesimo intransigente ed estremista. Agostino, che non dimenticava mai la sofferta esperienza personale dell’errore, elaborò e mise in atto nei confronti della chiesa scismatica una vera e propria teologia ecumenica e, nello stesso tempo, condannò con grande forza le barbare atrocità commesse dai terroristi contro i cattolici.
Malgrado la sua generosità, lo stesso Agostino fu oggetto di calunnie infamanti, fu additato come “un lupo che doveva essere ucciso” (Possidio, “Vita”, 9, 4) e sfuggì per caso a un agguato (“Enchiridion”, 17). I terroristi di allora, i circoncellioni, bande di facinorosi di ambo i sessi, non scherzavano affatto ed erano crudeli e fanatizzati non meno dei nostri: uccidevano, accecavano, gambizzavano, praticavano mutilazioni orrende. Il capo del movimento donatista numida, Ottato di Thamugadi, seppe unire la pretesa purezza ideologica, l’accorta manipolazione delle lagnanze sociali e lo sviluppo delle più progredite tecniche terroristiche, diventando, secondo le parole di Agostino, “il gemito dell’Africa per dieci anni”. La follia fratricida dei donatisti aveva stancato tutti e reso vano ogni sforzo di riconciliazione. L’autorità imperiale, che “non poteva lasciare impunita una paurosa serie di delitti senza incoraggiare il male” (“Retract.” II, 5), intervenne. Il giudizio di Agostino sui modi dell’intervento dello Stato tendeva a distinguere il più possibile l’eresia religiosa e la condotta delittuosa dei terroristi. Nei confronti dell’eresia Agostino pensava che la messa al bando pura e semplice, con l’obbligo di tornare alla confessione cattolica, comportasse il rischio di alimentare conformismo ed ipocrisia; e tuttavia riconobbe in seguito che, alla prova dei fatti, molti, anche se spinti all’inizio dal timore della pena, avevano riesaminato positivamente ed in profondità le loro posizioni mentali ed i loro atteggiamenti pratici. Ma al di là di queste e di altre considerazioni, spesso distanti nel tempo e cariche di sfumature, il punto in cui Agostino dà voce all’arditezza innovatrice del cristiano è proprio quello riguardante il trattamento da riservare ai terroristi, per i quali la legge allora prevedeva la pena di morte.
Il documento più eloquente è costituito dalla “Lettera 133”, indirizzata al commissario imperiale Marcellino. Vale la pena citare la parte iniziale. “Ho appreso che i circoncellioni e i chierici della fazione di Donato, che l’ufficiale di pubblica sicurezza aveva inviati da Ippona al tuo tribunale per i loro delitti, furono ascoltati dall’Eccellenza tua, e che moltissimi si dichiararono colpevoli dell’assassinio del prete cattolico Restituto e di Innocenzo, un altro prete cattolico, a cui cavarono anche un occhio e tagliarono un dito. Questo fatto ha causato in me la più viva ansietà: temo cioè che l’Eccellenza tua pensi di dover punire i colpevoli applicando le leggi in modo sì rigoroso da far subire loro i supplizi che essi fecero soffrire alle loro vittime. Ti scrivo dunque per scongiurarti nel nome di Cristo in cui tu credi di non fare una simile cosa, né permettere in nessun modo che sia fatta da altri. Noi potremmo declinare benissimo qualsiasi responsabilità in merito alla pena capitale da loro subita dal momento che sono stati tradotti in giudizio non già dietro nostre accuse, ma dietro denuncia di coloro cui spetta la tutela dell’ordine pubblico; tuttavia non vogliamo che le torture dei servi di Dio siano vendicate secondo la legge del taglione. Non vogliamo con ciò impedire che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in alcuna parte del corpo, applicando le leggi repressive, siano distolti dalla loro insana agitazione e, sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile”. Agostino loda il suo corrispondente per non avere usato la tortura nell’istruire la causa contro i colpevoli. “Durante l’interrogatorio riuscisti ad ottenere la confessione di così orrendi delitti senza fare stirare le membra sul cavalletto, senza farle solcare con gli uncini di ferro, senza farle bruciare con le fiamme. Non voler castigare con troppa crudeltà ciò che sei riuscito a scoprire con tanta mitezza. Sdegnati contro l’iniquità, ma non dimenticare l’umanità”.
Scrivendo subito dopo al governatore Apringio, fratello di Marcellino, Agostino lo scongiura in nome di Cristo di “non rendere la pariglia ai circoncellioni”, di salvaguardare l’integrità fisica anche di coloro che si macchiarono del sangue altrui, perché possano tornare a lavorare utilmente e redimersi. Agostino spinge fino in fondo, le sue argomentazioni, tanto gli sta a cuore l’obbligo di rifiutare senza indugio la pena di rnorte. “Insisto perché i supplizi subiti dai cattolici non vengano macchiati del sangue dei loro nemici. Se non si potessero stabilire altri mezzi per frenare la malvagità di uomini perversi che la pena di morte, ebbene noi, per parte nostra, preferiremmo piuttosto che fossero messi in libertà, anziché vendicare le sofferenze dei nostri fratelli versando il loro sangue” (“Lettera 134”). Per Agostino “c’è bene una via per cui risplenda la mitezza della Chiesa e si freni sul serio l’audacia di individui spietati”.
In uno scritto successivo il vescovo di Ippona ribatte l’obiezione, sempre rinascente, secondo la quale la mitezza insegnata da Cristo sarebbe dannosa allo Stato. La replica di Agostino è tagliente. Cercare la giustizia è una cosa, rendere male per male è un’altra. Non si può essere giusti, se si è dominati dalla brama di vendetta. Si esalta nei grandi uomini politici dell’antichità la capacità di non abbassarsi al livello dei loro avversari, la costanza nel promuovere la concordia dei cittadini, la magnanimità del perdono; ma quelle stesse virtù sembra che non siano più l’apice della vita pubblica e che anzi non siano nemmeno virtù, quando ad insegnarle è la Chiesa nelle adunanze dei fedeli, come a scuole pubbliche dell’uno e dell’altro sesso, di ogni età e grado sociale”. Lungi dall’essere nemica dello Stato, “la visione cristiana della vita, se fosse osservata, sarebbe potente salvezza per lo Stato”. Agostino conclude: “In qual abisso non ci sprofonderebbe il torrente dell’umana malvagità, se la croce di Cristo non si elevasse ad altezze senza confronto e non costituisse per noi il punto fermo cui appoggiarci?” (“Lettera 138”).
Nella “Lettera 25” Agostino aveva ricordato che un grande vescovo dell’epoca, Ambrogio, cita con onore governatori pagani orgogliosi di non avere mai inflitto la pena di morte durante la loro amministrazione. A maggior ragione, i cristiani faranno bene a non invocare il diritto di guerra per mettere a morte i terroristi. Nella “Lettera 139”, diretta ancora a Marcellino, Agostino torna a chiedere che dal castigo sia sempre e comunque esclusa la pena di morte e adduce un precedente significativo: “Nel processo dei chierici di Val di Non, uccisi dai pagani e onorati ora come martiri, l’imperatore aderì senz’altro alla richiesta che gli uccisori, già tenuti in carcere, non fossero condannati alla pena capitale”.
Nel difendere appassionatamente la sua scelta cristiana, Agostino sapeva bene di andare contro corrente. “Se ora ad alcuni dei nostri, profondamente scossi dalle atrocità commesse, questa condotta sembra non adatta e quasi simile a debolezza e a cedimento, una volta che sia passata l’eccitazione degli animi, che si turbano più violentemente per gli avvenimenti più recenti, apparirà in tutta la sua luce la bontà della Chiesa”. Egli sperava che il senso di umanità del Vangelo finisse con il prevalere, nel tempo. Noi, rispetto al nostro tempo ed al nostro Paese, nutriamo quella stessa speranza. Qualche anno prima, nel 408, nella “Lettera 195” inviata a Paolino di Nola, Agostino aveva già esposto eloquentemente l’ideale della punizione correttiva, la quale esclude a priori la pena di morte. Quell’ideale, ancora così penosamente lontano dall’essere realizzato nelle nostre società che si dicono civili, non deve andare perduto, se non vogliamo lasciarci trascinare dalla stessa logica atroce di chi ha cancellato dal proprio cuore il quinto comandamento.
Humanitas n.4/1991.