Nel 1952 François Mauriac conseguì il Premio Nobel quasi a riconoscimento del posto ufficiale conquistato nella letteratura contemporanea. Ormai son parecchi i critici che han tentato valutazioni d’insieme della sua opera; si discutono i personaggi, i temi dei suoi romanzi il loro significato morale; ma di Mauriac si discute soprattutto la personalità artistica conosciuta come cattolica, la sua particolare sensibilità religiosa e, più propriamente, la connessione tra l’artista e il credente. Mauriac, che non perde nessuna occasione, per quanto incomoda possa essere, di affermare la propria fedeltà alla Chiesa Cattolica, fa sempre da bersaglio ai nemici di questa; ma le sue generose inquietudini di polemista cattolico lo gettano spesso in lotta – com’egli scrive – «contro la menzogna all’interno della verità».
L’autore di “Thérése Desqueyroux”, di “Destini”, di “Groviglio di vipere”, de “La farisea”, compie con la sua opera di romanziere uno dei massimi tentativi di recupero umanistico e cristiano delle forze oscure scatenate, nella letteratura e nella psicologia, dal romanticismo e dalla psicanalisi. Questo «maître du noir» affonda il bisturi, senza falsi veli, ma altresì senza ristagni e compiacenze da decadente, nel processo di degenerazione della borghesia (il Mann dei “Buddenbrok” non è che un’altra grande variante sullo stesso problema); Mauriac scava nelle coscienze e rende evidente il dramma morale che quella dissoluzione comporta, da grande artista che disdegna di affettare volgarità di linguaggio e pose da proletario, luoghi comuni suggeriti dal prammatismo politico o dalla «moda» letteraria.
Per quanto grande sia la statura artistica e complessa la problematica morale di Mauriac romanziere, pure non è del romanziere che qui ci occuperemo. Parecchi anni addietro, un fine conoscitore e giudice della letteratura francese del nostro tempo giunse a scrivere: «il Mauriac che leggo, oggi come ieri, il Mauriac autentico, o se si vuole personale, quello che manifesta la propria vita interiore, la propria sensibilità, lo incontro in opere quali le “Vie de Racine”, la “Vie de Jésus”, il Journal» . Facciamo nostra l’intelligente limitazione, con una sola preziosa aggiunta: quella dell’ultima opera di Mauriac, “Mémoires intérieurs”.
La parentela spirituale con Racine
«Ogni destino è singolare, unico; ma un autore non si decide a scrivere una biografia fra mille altre, se non perché, con quel dato maestro prescelto, egli si sente d’accordo: la via migliore per tentare l’accostamento di un uomo scomparso da secoli, passa per noi stessi» . Queste parole con cui Mauriac suggella la prefazione alla vita di Jean Racine ci attestano esplicitamente la parentela spirituale che lega il romanziere al grande drammaturgo. Ma in qual misura il dramma artistico e spirituale di Racine illumina quello del suo biografo? Mauriac ci fornisce un’indicazione significativa: «La maggior parte dei miei romanzi appartiene a quella scuola narrativa francese di cui si può dire che è derivata dal teatro classico, e, in particolare, dalla tragedia raciniana. Fedra traspare nella filigrana di quasi tutti i miei racconti, e non mi è stato difficile concepire per la scena una figura dominatrice la passione della quale fosse la molla di tutto l’intreccio» .
Mauriac ammira Racine perché Racine ha l’onestà di non mascherare le passioni.
Egli sa ciò che gli uomini sperano dall’artista, una verità che essi possono applicare a se stessi, ma una verità di cui l’artista paga il prezzo, nelle profondità del suo cuore e del suo spirito, con il suo stesso destino umano. Con Racine finisce la convenzione di un gioco d’amore tenero e seducente nel quale non bisogna mai disperare e la passione irrompe, tanto più ostinata e travolgente quanto meno corrisposta, onda sempre furiosa, sempre infranta. Tributario di Port-Royal anche quando l’influenza giansenista gli diventa repellente ed egli se ne allontana con livore – salvo poi a farvi ritorno e per sempre, nella pienezza vigorosa delle sue forze e malgrado la devozione al suo re – il clima che anima tutta la sua opera è quello cristiano; in modo talvolta incosciente prima di «Fedra», lucidamente cosciente da «Fedra» in poi. Racine non solo scoprì il tragico nella tragedia greca perché la lesse con uno spirito segnato dalla serietà di Port-Royal, ma dimostrò ai suoi stessi maestri giansenisti che Cristianesimo e tragedia, fede e arte non si escludono necessariamente. Pascal che cosa ha tentato nella sua apologia, se non di provare la verità della religione mettendo in luce la conformità dei suoi misteri con quelli del nostro cuore? Mauriac rivela l’intimo della sua ispirazione artistica, quando scrive: «…un romanziere e un drammaturgo possono riuscirvi come Pascal e persino a loro insaputa».
Perversità spontanea di tanti moti dell’anima prima di qualsiasi intervento della volontà, impotenza dinanzi ai turbamenti della sensibilità carnale, assunzione radicale della passione da parte dello spirito che le presta così la sua stessa infinità, disperata ricerca di un impossibile assoluto interamente umano, lucidità perversa dell’odio che nasce dall’amore disprezzato, solitudine bruciante di chi è entrato nel «deserto dell’amore»: tutto ciò è Racine, ma è anche Mauriac ed è anche (perché nasconderlo?) profondamente umano. La scoperta dell’antico Adamo in ogni creatura è, perlomeno, una delle premesse ineludibili dell’umanesimo cristiano; un aspetto reale che, però, non va isolato in modo esclusivo ed unilaterale (fu l’errore di Lutero, Calvino e Giansenio). In ogni uomo che viene a questo mondo v’è, infatti, l’antico Adamo, non solo, ma pure e non meno essenzialmente, un’anima naturaliter cristiana, essendo ogni mente luce di Dio partecipata: la somiglianza costitutiva, ontologica con Dio fonda la somma appetibilità della grazia, la nostra dissomiglianza da Dio ne fonda la somma gratuità. Il perfetto equilibrio cristiano fu spezzato dall’ottimismo umanistico, che spesso cancellò tutta l’infinita distanza tra natura e grazia, sfociando nel naturalismo. Racine corresse le esagerazioni equivoche di certo umanesimo, così come oggi Mauriac è instancabile nel denunciare le menzogne e le segrete angosce della borghesia apparentemente paga di una autosufficienza blasfema. Racine e Mauriac dipingono l’incapacità tragica dell’uomo di bastare a se stesso, la miseria della creatura senza Dio. Ambedue sanno che non c’è pace per l’uomo senza Dio.
Cette paix que je cherche et qui me fuit toujours, pace a cui l’anima perviene quando «la concreta e perpetua sete» di Dio (Dante, “Paradiso”, II, 19) si traduce in abbandono alla Sua volontà. Racine nel suo ultimo capolavoro ha espresso in quattro versi perfetti l’approdo del cristiano, ancora itinerante, in questo mondo:
D’un coeur qui t’aime,
Mon Dieu, qui peut troubler la paix?
Il cherche en tout ta volonté suprème,
Et ne se cherche jamais (“Athalie”, III, 8).
La poesia del Vangelo e il fiele della politica
Il momento più importante dello svolgimento artistico di Mauriac è rappresentato dalla “Vita di Gesù”, che è libro di autentica poesia, libro da rileggere e da amare. Il lettore sorprende assai di frequente la gioia dell’autore quando gli capita di riscoprire verità quasi perse di vista, accidentalmente indebolite nelle nostre sonnacchiose coscienze dai sofismi del nostro tempo.
In questo commento poetico alla sublime verità e bellezza del Vangelo, Mauriac, mentre utilizza con sagacia gli studi critici neo-testamentari, sì da evitare suggestioni deteriormente soggettive su di un argomento di tanta grandezza e serietà, ne rifonde, unifica, riplasma i risultati nella commossa intuizione ed espressione artistica della insostituibile verità del Cristo. Accade così – ed è cosa quasi unica – che la vita di Gesù scritta da un artista, per la fede e per l’arte dell’autore, aiuti il lettore moderno ad intuire, a meglio afferrare la vita interiore dei Vangeli, la continuità, il movimento e il mistero di quelle parole di vita eterna, lo splendore della Presenza che le anima.
Per rendere testimonianza a quei valori che il Vangelo ha immesso nella storia, Mauriac ha avvertito, con un significativo crescendo, il peso della politica nella vita dei popoli e il dovere di non evitare il «bagno di fiele» che la politica impone al cristiano. Mauriac raccoglie i suoi articoli, le sue prese di posizione sulla realtà e sulle prospettive della tormentosa politica francese e mondiale nel “Journal” e nel “Bloc-notes”. I motivi ideali sono ben chiari: la lotta coraggiosa prima contro il franchismo, il nazismo, l’anti-semitismo, poi contro il colonialismo in genere e francese in specie e l’appassionata protesta contro i metodi dei paras in Algeria. Tutto ciò onora altamente l’intrepida vecchiaia del Nostro.
Il vigoroso impegno etico che egli porta nel giudizio politico è nobile e gli fa veder giusto nei problemi di fondo, anche se l’aderenza alle impressioni del momento e l’inganno dell’attualità sviano talvolta anche un osservatore così acuto come Mauriac (discutibile, ad esempio, l’aperto sostegno a De Gaulle, l’eroe dell’incertezza, a cui ripugna ogni soluzione ingiusta, ma che è incapace di mirare alla soluzione giusta).
L’ultimo Mauriac
Il Mauriac artista tocca ancora il punto più alto del suo orizzonte, dopo la “Vie de Racine” e la “Vie de Jésus”, in “Mémoires intérieurs”. In quest’ultima opera egli è, a un tempo, attore e spettatore ed appassiona sia che parli di se stesso e difenda il suo atteggiamento etico, religioso e artistico, sia che giudichi con penetrante occhio critico le grandi letture, gli incontri decisivi di tutta una vita: Pascal, Racine, Sainmt-Simon, Gide, Barrès, Baudelaire, Nerval, Benjamin Constant, Rimbaud, Proust, Bernanos, Montherland, Hawthorne, Hopkins ecc.
Ogni lettura è confronto, paragone; talvolta quel poco che sappiamo di noi stessi ci viene rivelato, quasi sottovece, proprio dal personaggio di un libro e così i moti più riposti del nostro animo si fanno evidenti e immediati ed il giudizio che portiamo su di un autore è insieme valutazione e auto-valutazione, dialogo e confidenza. In “Memorie intime” Mauriac non è lo spudorato che si spoglia in pubblico; non è Gide che ostenta come sincerità l’amoralismo patologico e snaturato di chi a tutto può rinunciare tranne che a «descriversi», traendo gloria da tutto ciò che diffama una vita. Per Mauriac la storia di uno scrittore, come quella di ogni uomo, è essenzialmente la segreta lotta di un destino intimo, ciò che l’autore dell’Imitazione chiama «i diversi impulsi della natura e della grazia».
Il tramonto di una vita dovrebbe rischiarare, con la sua implacabile luce orizzontale, la falsità di certi sentimenti: Mauriac avverte questa esigenza e la soddisfa ed il suo coraggio è altamente meritorio perché non v’è nulla quanto la conoscenza metafisica del male e l’opposizione morale fra bene e male che sia più estraneo agli uomini d’oggi, né che ripugni loro maggiormente nei cristiani.
Mauriac matura la sua vocazione di uomo e di scrittore attraverso il distacco dalle due componenti dell’ambiente di origine, e cioè dal romanticismo e dal naturalismo. Come negare la fondatezza di certe notazioni di “Memorie intime” sul romanticismo letterario? «Tutto ciò che in letteratura si collega al romanticismo s’è fatto nostro complice fin dall’adolescenza, e lo resta finché un po’ di giovinezza romba in noi. Poi man mano che l’uragano si allontana… quelle prose e quei poemi si spogliano essi pure d’un infinito del quale li avevamo caricati e che proveniva da noi» . «Accettare la vita com’è, a questo primo tra tutti i doveri il romantico si sottrae. In fondo, egli sceglie la sua follia perché la preferisce. Egli preferisce ciò che non è a ciò che è: ecco il peccato mortale del romanticismo».
Né meno recisa è l’avversione al naturalismo, che pure ha segnato fortemente della sua impronta quasi tutta la letteratura francese. Il suo ripudio dipende non tanto da ciò che il naturalismo mostra, ma da ciò che non mostra e nega, negando che nella realtà vi sia un segreto, e una dimensione profonda: lo spirito.
Mauriac ha una sensibilità fremente per ogni bellezza creata dall’uomo, ma le seduzioni dello stile non gli bastano: egli cerca l’uomo nel personaggio, nel romanziere, nel poeta. D’altra parte, questo andare al cuore dei suoi autori è un rivelare la propria interiorità. Il vecchio Mauriac giunge a scrivere: «Scrittore all’ultima svolta della vita, mi ritrovo solo con in me le parole di Lacordaire che fin dal principio vi erano state scolpite: Presto o tardi si finisce col non interessarsi più che alle anime». E in un’altra pagina, non meno luminosamente: «Ogni opera d’arte è un tentativo di risposta al Che cosa siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?, che Gauguin aveva scritto in basso a un suo trittico» .
La difesa dell’uomo
«La disperazione romantica non mi tocca più. Soffrire per causa della creatura che si ama, è, nell’ordine umano, una forma di felicità. Non mi impietosisco più su Werther, ma sull’innocente perseguitato» . Queste parole hanno la forza della serietà morale e dell’amore cristiano per la giustizia: l’esercito degli innocenti perseguitati, in un mondo in cui larghissime aree son divenute immensi e tragici campi di concentramento anche in tempi di pace, è troppo numeroso e proprio per questo il mondo attesta patentemente la forza tuttora operante della barbarie disumana, malgrado i tanto strombazzati progressi tecnici e scientifici. La dannazione terrena di così gran parte della specie umana non deve lasciar freddi tutti coloro che amano l’uomo in carne ed ossa, ogni singolo uomo, e vogliono adoperarsi a trasformare il mondo per una crescita dell’uomo in giustizia e libertà.
Oggi il problema numero uno della sorte dei popoli e dei singoli è quello del totalitarismo, della dittatura in quanto tale e del modo di avviarne l’arresto e la liquidazione. Che cosa accomuna tutti i despoti, tutti i tiranni, tutti i dittatori, quelli meno ignobili e quelli dichiaratamente criminali? L’idea abbietta che essi hanno dell’uomo – risponde il Nostro, e soggiunge «Ma attenzione! Il disprezzo per l’individuo va di pari passo, nella maggior parte dei rivoluzionari, col culto dell’uomo in generale, così che la religione dell’umanità avrà fatto alla fine tante vittime quante la religione dell’ordine» . Quando Trotskj nella sua autobiografia scrive: «La rivoluzione è la rivoluzione perché riconduce tutte le contraddizioni del suo sviluppo a un’alternativa: la vita o la morte». Mauriac ribatte: «Sì, ma è da questa alternativa che Stalin è uscito, abbattendo Trotsky. Questa alternativa ha servito di scusa a tutte le ecatombi per cui gli innocenti sacrificati sono diventati quei penitenti che accusavano se stessi, dando ragione ai loro carnefici» .
Nella difesa dell’uomo, mediante la scoperta e l’attuazione di quelle verità umane e cristiane che rendono la vita degna di essere vissuta, nella difesa degli oppressi e degli innocenti Mauriac vede l’oggetto proprio e il compito di chi oggi nutre ancora una passione cristiana nel suo cuore.
Al cristiano si chiede qualcosa di eroicamente semplice e quotidiano: di ispirare il pensiero e l’azione a quello che egli crede, elevando tutto, economia e politica, arte ed etica, a quella misura che Cristo ha posto nell’interiorità di ogni credente. Ogni cristiano, per poco che sia fedele a quanto il suo nome comporta, è chiamato all’eccezionale in seno alla vita di ogni giorno, in una tensione feconda tra essere e dover essere: i fanatici gli rimproverano di essere esitante perché rifiuta di divinizzare l’opinabile e mantiene una vigile attenzione anche sulle impurità che inquinano la sua causa; i politici gli rimproverano di essere intrattabile per la sua fedeltà assoluta ai valori assoluti che sono in gioco. Ma il coraggio consiste proprio nell’accettare questa incomoda situazione e nel preferirla ai prati fioriti dell’eclettismo, dell’idealismo astratto dell’opportunismo.
Mauriac, per conto suo, ha fatto il suo dovere di artista e di cristiano. Noi siamo tra coloro che gliene sono grati.
Scuola e didattica, n. 15 – 1962. Il testo comprensivo di note si può scaricare dal file allegato in .pdf