Mentre in politica economica, il “laissez faire, laissez passer” è stato criticato fortemente, l’educazione e il costume oggi tendono a elevare quella discussa massima a legge, la legge della "permissività", e a contrapporla alla "repressione". Il permissivismo si fonda su due presupposti: sul significato assolutamente negativo che si conferisce al termine repressione e sulla riduzione di ogni forma di autorità alla categoria dell’autoritarismo. Della parola repressione si fa uso a diritto e a torto, ad ogni piè sospinto, ma ad una rapida riflessione il termine stesso appare non già univoco, ma polisenso. Infatti repressione vuol dire impedimento violento, costrizione, rimozione, umiliazione, dominazione, soffocamento, annullamento; ma vuol dire anche riduzione, contenimento, azione frenante. Non c’è bisogno di essere glottologi per osservare che il contenimento non è l’annientamento, l’ostacolo non è l’eliminazione, il freno non è la stasi definitiva. Marcuse, i cui paradossi sono stati strumentalizzati in funzione di un estremismo anarchico a oltranza, fa un’ammissione che dovrebbe essere ben meditata. Il dominio, egli dice, è ben diverso dall’esercizio razionale dell’autorità. Quest’ultimo è inerente ad una società, proviene dalla consapevolezza ed è limitato all’amministrazione di funzioni e di ordinamenti necessari al progresso dell’insieme. Si deve ammettere una forma primaria e legittima di autorità, e la "repressione fondamentale" scaturiente dall’attuale organizzazione della società. Si può essere senz’altro d’accordo, soprattutto se per "repressione addizionale" si intende qualcosa di ben preciso: la repressione non necessaria e non motivata, sadica, arbitraria, tirannica, così come la repressione impersonale e anonima derivante da certi difettosi meccanismi burocratici, procedurali o consuetudinari, da cui spesso l’individuo è travolto o schiacciato. Chi potrà mai dire quanta parte ha nell’insoddisfazione suscitata dai regimi contemporanei, autoritari e democratici, l’incolore tirannide della burocrazia, che sottopone il cittadino alle più varie vessazioni, spesso senza possibilità di riparazione o di rivalsa? Vi è dunque un esercizio razionale dell’autorità ed uno irrazionale; il primo è da perfezionare, vincendo difficoltà sempre più complesse, il secondo è da indagare nei suoi più riposti meccanismi per combatterlo senza soste, dappertutto, e in primo luogo in noi stessi e in tutto ciò che dipende da noi. Se non ché questa distinzione fondamentale non soddisfa l’estremismo di moda, che sopprime addirittura il problema del rapporto tra autorità e libertà, volendo abbattere uno dei termini che lo costituiscono. In questo caso dovrebbe scomparire l’autorità, identificata ipso facto con l’autoritarismo, in applicazione di un modulo sofistico assai diffuso secondo cui non si può nominare una cosa senza essere accusati di pensare e giustificare la sua deformazione scimmiesca ed aberrante, come se la paternità fosse paternalismo, la consapevolezza morale moralismo astratto e pedantesco, l’apprezzamento dei valori estetici estetismo e così via. Una pregiudiziale del genere, nel suo radicalismo acritico, pone un’antitesi universale, necessaria, insuperabile, a ogni livello e in qualsiasi rapporto umano, fra autorità e libertà. Noi pensiamo al contrario che un’indagine di struttura che ci riconduca alla semplice e perenne radice dei problemi, la riflessione storica e l’esperienza comune della vita quotidiana provano – contro la pseudo-mistica dell’autoritarismo e contro la fantapolitica della sua controfigura, l’anarchismo – che l’esigenza dell’autorità è spontanea e ineludibile, perché ogni forma di vita associata la implica necessariamente, e che il contrasto non è tra autorità e libertà autentica, o viceversa fra un’autorità autentica ed una falsa e arbitraria libertà. Queste due tesi esigono, però, di essere dimostrate perché il problema è di così rilevante importanza in filosofia politica come in pedagogia, e non solo in esse, da non consentire soluzioni facili e affrettate.
La vita sociale richiede una regolarità di relazioni che dev’essere comunque garantita, altrimenti la socialità si disperderebbe in una serie slegata e discontinua di rapporti tra singoli individui e non darebbe luogo a nessuna istituzione di carattere stabile o permanente. Qualunque forma di vita associata implica, invece, la costanza di certi rapporti sottratti pertanto all’arbitrio e alla contingenza di stati d’animo individuali. Ogni consociato ha il diritto di attendersi, in caso di necessità di esigere dagli altri determinati servizi, nonché forme varie di assistenza e di collaborazione, quale che sia la loro disposizione o propensione personale. Tutto ciò presuppone un sistema di opere, una distribuzione di compiti, un’armonia di funzioni che non sarebbero possibili senza una gerarchia sociale di fini e di responsabilità. La genesi, la permanenza, lo sviluppo di ogni comunità esigono il costituirsi e l’esercizio dell’autorità. Il che è facile vedere anche in particolari casi di emergenza, quando le autorità costituite cessano come che sia di funzionare. C’è sempre qualcuno che si pone a capo di un gruppo di naufraghi o di una moltitudine smarrita e impartisce ordini, prende iniziative, raziona i viveri, prende su di sé la cura della sicurezza collettiva. La nave deve pur avere, se si vuol navigare, chi ha la visione articolata del tutto, la competenza che nasce da una serie di conoscenze e di esperienze molteplici, la capacità di coordinare l’apporto indispensabile dei singoli; nulla funzionerebbe se ognuno pretendesse di autoproclamarsi capo, ma anche se nessuno assumesse di fatto il necessario potere d’iniziativa e di guida. Anche in una squadra di calcio occorre chi diriga l’opera comune verso un risultato che si vuole positivo, e un buon capitano o un buon allenatore non sono certo estranei alla condotta della squadra, proprio nella misura in cui la loro autorità non caporalesca, né paternalista, sa suscitare lo spirito di équipe. Non si può pensare che il compito della società politica sia quello di associare nel modo migliore una collezione di individui, i quali cerchino innanzi tutto di salvaguardare ognuno la propria volontà. All’origine del sentimento democratico si trova non già, come crede Rousseau, il desiderio, in verità alquanto puerile, di non obbedire che a se stesso, ma il desiderio di obbedire solo a ciò che è giusto. La libertà di scelta – per cui l’uomo discerne, preferisce, si determina, fa proprie alcune influenze e resiste ad altre – se attesta l’indipendenza metafisica di un essere intelligente e la sua "apertura al mondo" (“Weltoffenheit”), non è che la condizione per la conquista di una libertà più alta, la libertà morale, e il mezzo che gli uomini possiedono per rendersi liberi, per affrancarsi dalle schiavitù che pesano su di loro, le miserie e le fatalità del corpo, dell’eredità, dell’ignoranza, dell’egoismo, della selvatichezza degli istinti. Ebbene l’uomo può vincere questa schiavitù, perché non è solo un animale di natura, ma è un animale storico, un animale di cultura, la cui specie può sussistere soltanto con lo sviluppo della società, della civiltà e dell’educazione. Ma la società, la civiltà, il processo di umanizzazione non possono sussistere né progredire senza l’esercizio effettivo di una funzione di guida e di servizio. "Se nel cosmo una natura come la natura umana non si può conservare e sviluppare che nello stato di cultura, e se lo stato di cultura presuppone necessariamente l’esistenza nel gruppo sociale di una funzione di comando e di governo ordinata al bene comune, ne segue che tale funzione è richiesta dalla legge naturale". Sui modi, sui limiti, sui caratteri essenziali come anche sulle perversioni reali e possibili di una siffatta funzione di guida e di servizio, il discorso deve essere tenuto sempre aperto, soprattutto da chi crede nella dignità spirituale dell’uomo e nel valore etico-politico della democrazia. Non si tratta di nascondersi i rischi, si tratta di sapere piuttosto come evitarli, mettendo da parte la viltà del giustificazionismo storicistico e le vuote astrattezze di chi è sfornito di quel senso storico senza di cui nulla si può cambiare durevolmente in meglio. Il cambiamento, l’invenzione, la razionalizzazione non solo tecnica, ma sovrattutto morale, delle strutture è un compito a cui si deve lavorare con uno sforzo di ragione, di volontà, di immaginazione sempre rinnovato, ma nessuna comunità può esistere se non organizza una ripartizione di ruoli, e la più giusta possibile, tra i suoi membri. Una ripartizione di ruoli significa un diverso grado di esercizio della responsabilità e, dunque, dell’autorità, per cui alcuni debbono pur avere come compito proprio le funzioni che concernono l’unità del corpo sociale, la direzione dell’opera comune e a questo titolo è inevitabile che abbiano autorità sugli altri. Anche se tutti gli individui fossero perfettamente ragionevoli e di volontà perfettamente retta, l’unità di condotta del corpo sociale postulerebbe ancora un’autorità politica e una gerarchia nella misura in cui è proprio dell’autorità politica dirigere uomini liberi verso il bene della comunità. Lo stato nasce per l’affinità naturale che esiste tra gli uomini e sarebbe ugualmente nato anche senza il reciproco bisogno di aiuto. Ma gli individui non sono perfettamente ragionevoli e di volontà perfettamente retta e inoltra hanno reciproco bisogno di aiuto; non possono vivere senza i loro simili, ma non sanno vivere nel modo più degno con essi. Se questa è, per dirla con Kant, l’"insocievole socievolezza" (“ungesellige Geselleskeit”) dell’uomo, è di primaria importanza un’opera di instancabile vivificazione della coscienza morale per la formazione di uomini liberi, che compiano da sé e non per costrizione ciò che il bene comune esige, andando ben oltre ciò che la legge comanda; ma è del pari necessario che la legge in quanto tale possa essere efficace anche nei confronti dei cittadini non adulti dal punto di vista civico e degli elementi antisociali. «Lo stesso potere di costringere e di punire spetta all’autorità in quanto direttamente consegue da quello di guidare e di agire in nome della collettività. Se l’autorità non avesse il diritto di costringere i riluttanti ad uniformarsi alle decisioni prese per il bene comune e di punire coloro che operassero in senso addirittura contrario, è chiaro che l’autorità si troverebbe nell’impossibilità di assolvere il suo compito». Se nella vita intima e privata dell’individuo insorgono forze che devono essere infrenate, ancor più frequente e pericolosa è nella convivenza sociale l’insorgenza di fattori irrazionali e di tendenze antisociali, alle quali uno stato di diritto deve opporsi e con la necessaria energia. In questo caso, separare il potere dall’autorità è separare la forza dalla giustizia . L’idea di una totalità non gerarchica, per riprendere un’espressione del Gurvitch, il sogno di un tutto senza alcuna subordinazione delle parti al tutto, senza governo, senza costituzione, senza rappresentanza, senza stato, il mito di uomini-dèi capaci tutti di autogoverno non solo nella vita individuale, ma anche nei rapporti sociali rinviano a un mondo che è al di fuori del tempo e della storia.
Non c’è associazione non solo politica, ma economica, culturale, scientifica, religiosa senza che nel loro ambito non vi siano organi o uomini a cui sia devoluto, in un modo o nell’altro, l’esercizio di un’autorità. V’è poi, innegabilmente, una forma di autorità, che è anzi superiore ad ogni altra, anche se sfugge a chi si fermi alla superficie più appariscente dei fenomeni sociali: si tratta dell’autorità eminentemente morale. È l’autorità di uno studioso di particolare valore tra i cultori della sua stessa disciplina, di un religioso di meriti eccezionali, di un politico di grande statura per quanto attualmente non insignito di alcuna carica. L’esigenza dell’autorità è, dunque, ineludibile; molteplici sono le sue forme e l’aspetto giuridico-politico non è se non una forma particolare per quanto caratteristica e rilevante.
L’autorità ha, strutturata nella sua stessa natura, un significato superindividuale e una destinazione di utilità pubblica. Poiché l’autorità sorge e si afferma in funzione del bene comune e quindi al servizio delle persone su cui esso si riversa, la coscienza umana esige che l’autorità sia giusta. Non si può parlare di autorità se non v’è giustizia. In caso contrario vi sarà potere, ma non autorità. E un potere che rompe con la coscienza morale tende sempre più a porsi come forza di costrizione, come un assoluto senza fondamento di diritto e senza limiti nel disprezzo della persona. Sarebbe facile arricchire la casistica di questo processo di pervertimento anche con fatti non lontani; comunque il termine ultimo di decomposizione dell’autorità come principio morale a profitto del potere come forza di costrizione è la società chiusa del totalitarismo. Esiste, però, anche nella democrazia un processo di decomposizione dell’autorità, a profitto di quelle fazioni che si accampano nello stato e nella società e ne disfano il tessuto connettivo con l’egoismo di corporazione e di partito, con l’aggressività cieca del privilegio, con il veleno della demagogia più irresponsabile. Nell’uno e nell’altro caso, nella tirannia totalitaria e nell’anarchismo pratico delle pseudo-democrazie, la crisi dell’autorità – nella sua autentica significazione, nelle sue finalità e nei modi di funzionamento – non gioca mai a favore della libertà e della sua organica espansione, ma la umilia, ne spezza lo slancio e l’inventiva, quando non la rende addirittura impossibile, per lo meno come libertà politica. In ogni tempo, nelle più diverse situazioni storiche, a cominciare dall’antichità più remota, si può scorgere, non certo sempre secondo un taglio netto e un procedimento lineare, il conflitto fra poteri straripanti e libertà che rivendicano per sé un legittimo spazio così come fra licenze sfrenate e autorità legittime. L’attenta considerazione dei diversi coefficienti del conflitto conferma il principio fondamentale e non annulla i termini del problema, né la possibilità della sua soluzione. Poiché l’autorità e la libertà hanno entrambe un fondamento naturale, il nostro compito è di trovare l’articolazione meglio rispondente al grado di consapevolezza raggiunto dalla comunità in cui viviamo. L’autorità e la libertà autentiche sono caratterizzate dalla consapevolezza che l’espansione della persona e l’attuazione del bene comune sono mete inseparabili, non essendo concepibile un bene comune veramente umano che non rifluisca sulle persone e che non si proponga come valore principale il loro svolgimento perfettivo, in modo che esse godano quella libertà di indipendenza che è assicurata dalle garanzie economiche del lavoro e dai diritti politici, dalle virtù civiche e dalla cultura dello spirito. Autorità e libertà non sono in contrasto tra loro, più di quanto non lo siano la persona e la società. La società è "naturale" all’uomo in un senso che non si riferisce solo alla sua natura animale o istintiva, ma alla sua natura umana, cioè alla ragione e alla libertà. Questo vuol dire che la società che la persona richiede esige il suo consenso, il suo affrancamento da ogni soggezione alienante e l’esercizio sempre più pieno dei suoi diritti-doveri. Se l’autorità autentica è "la legge che rispetta la coscienza", come scriveva Lambruschini, vuol dire che gli uomini devono essere governati non come cose o armenti, ma come persone, soggetti di vita e di esistenza individuale, dotati di intelligenza e di libertà, che portano anche nel cuore della vita sociale il senso della loro dignità e dei loro obblighi verso gli altri. Sulla linea delle aspirazioni profonde della natura razionale protesa al suo compimento, libertà e autorità, persona e società, dignità dei singoli e attuazione del bene comune si richiamano a vicenda.
I temi della contrapposizione fra autorità e autoritarismo e della ineliminabile relazione tra autorità e libertà acquistano superiore concretezza e profondità quando dalla sfera politica e giuridica si passa a esaminarli nel rapporto educativo, come fecero con insperata finezza Raffaello Lambruschini nell’800 e nel nostro secolo Lucien Laberthonnière e William F. Förster. Anche qui la lotta doverosa e di alto significato etico contro l’autoritarismo non deve farci smarrire il ruolo insostituibile dell’autorità educatrice. Senza colui che educa e insegna, che possiede veramente una conoscenza che il figlio o l’alunno non ha e che gliela comunica, in modo intenzionale o indirettamente, non c’è educazione e istruzione. L’autorità morale e la competenza professionale, per adempiere degnamente l’ufficio educativo in una scuola o altrove, sono di così grande importanza che i genitori giustamente vorrebbero dominanti nella personalità di coloro a cui affidano i propri figliuoli. Solo chi fa troppe astrazioni può negare che un essere umano in formazione, che ancora non si possiede, non è padrone di sé, non sa da solo innalzarsi al di sopra dei propri istinti possa essere abbandonato a se stesso e al caos di tendenze e influenze contraddittorie, senza atrofizzare la sua nascente personalità. Alla vera libertà e indipendenza, all’autonomia che vince l’anomia e l’eteronomia, si arriva solo con la vittoria sopra se stessi e quindi anche in virtù di quell’opera di sollecitazione, di guida e di risveglio umano che la rende possibile. "Il fanciullo ha bisogno di essere difeso da se stesso, ha bisogno di essere aiutato nella conquista di sé: l’autorità dell’educatore è l’aiuto che egli attende e domanda per diventare ciò che deve essere, e non può essere efficace che a patto di conservare il proprio carattere di autorità". Il problema non è dunque di stabilire se si debba o non si debba fare ricorso all’autorità. Questa, infatti, in virtù della costituzione stessa delle cose, si esercita necessariamente in una maniera o nell’altra, lo si voglia o no, e qualora si pretenda di non volerlo si inganna se stessi ingannando gli altri. Il problema è unicamente di sapere ciò che l’autorità dev’essere, quale fine deve perseguire, da quale spirito dev’essere animata nel suo esercitarsi. "È stato detto, con profonda verità, che l’idea che ci si fa dell’educazione e del compito dell’educatore dipende evidentemente dall’idea che ci si fa dell’uomo e del suo destino". La natura dell’autorità cambia quindi a seconda degli scopi perseguiti da chi la detiene e dei mezzi scelti per esercitarla in coerenza o meno con l’intenzione che l’anima. La volontà di dominio è potere e autoritarismo e non autorità liberatrice. L’autorità che subordina in un certo senso se stessa a coloro che le sono soggetti nel profondo rispetto della loro dignità spirituale, l’autorità consapevole della propria debolezza e insieme della grandezza del proprio compito, l’autorità che cerca essa stessa nel suo organizzarsi delle garanzie contro di sé, è servizio ed è forza di reale liberazione. Far proprio l’appello che da essa promana significa farsi liberi. Tra questi due modi di concepire e di esercitare l’autorità esiste non una qualche differenza di grado, ma un’assoluta contraddizione, una differenza qualitativa incolmabile. Non fare una distinzione del genere significa confondere ogni cosa, diventare incapaci di intendere la vita e di assumersi in essa la propria parte di responsabilità. Solo l’estrema suscettibilità di chi sia travagliato da un malsano complesso di inferiorità può confondere l’autorità con l’autoritarismo. L’abuso non toglie l’uso, dicevano i romani.
I giovani che hanno l’ansia di smascherare soprusi e ipocrisie meritano sempre rispetto, anche nelle loro impazienze aggressive; ma non possono a loro volta autoingannarsi fino al punto di accettare sul serio il permissivismo professato a parole. Una pseudo-morale che legittima il proprio comodo non è uno strumento di liberazione: è la filosofia risibile dei "nati-stanchi", dei decadenti, di chi non lavora e non soffre, di chi ignora l’esistere con e per gli altri, di chi accetta l’ideale edonistico proprio di una civiltà afrodisiaca e consumistica come la nostra, quali che siano le parole e le pose da "progressisti". È impensabile che voglia veramente una società giusta un individuo che sia individualista, incivile, ingiusto, insofferente di ogni disciplina morale. I repressi fanno pena e bisogna rimuovere il più possibile la causa di tale deformazione; ma i viziati non sono peggiori dei depressi? Il permissivismo rischia di darci una moltitudine di viziati, cioè di mezzi uomini a cui è mancata la formazione del carattere, l’esercizio a scegliere nella sola maniera degna fra tendenze, suggestioni e proposte molteplici, l’acquisizione di quella forza virile necessaria a sopportare le inevitabili privazioni e frustrazioni. D’altra parte le privazioni e le frustrazioni, se contenute entro certi limiti, sono esse stesse opportune perché servono a risvegliare le latenti potenzialità della persona. Se l’eccesso di conflitto può condurre a nevrosi, il prevalere di "situazioni troppo molli", l’insufficienza di conflitto non è forse all’origine di tante personalità "non o mal strutturate", ansiose, esposte a crisi di tipo depressivo? Anche il "no" è strutturante – se detto al momento giusto, con rispetto, e quand’è il caso, motivato – perché aiuta il soggetto a uscire dallo stato di infanzia e di troppo prolungata adolescenza. Un ambiente familiare, scolastico, sociale non è strutturante se non nella misura in cui offre situazioni reali e non artificiose di partecipazione e di conflitto, di consenso e di resistenza. La permissività come punto di vita degli adulti che dovrebbero educare non nasce affatto da magnanimità d’animo e da ampiezza di vedute. Essa è piuttosto il frutto e l’emblema di una pedagogia eunuca, della ignavia e anche di una situazione molto diffusa di abbandono affettivo nei confronti dei ragazzi e dei giovani, siano essi figli o scolari (assai spesso il "fa’ quello che vuoi" sottintende una delle seguenti motivazioni: "purché mi lasci in pace", "perché anch’io faccio i miei comodi e non posso esigere proprio nulla da te", "tanto a me non importa nulla di quello che tu fai").
Non è stato possibile rintracciare la pubblicazione e la relativa data. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970. Per il testo completo di note scaricare il file in .pdf