Nunzia Vallini (N.V.): Perché ha iniziato a fare lo scrittore?
Raffaele Cantone (R.C.): Non è proprio una mia ambizione fare lo scrittore. Lo dico spesso. Tra l’altro quando ero al liceo non ho mai amato più di tanto l’italiano. L’occasione di scrivere questo libro è stata assolutamente casuale, perché nata sull’onda di “Gomorra” e sull’interesse verso la camorra, e anche sullo stimolo che Roberto Saviano mi ha dato in più occasioni. Subito dopo l’uscita di “Gomorra” si è creata l’amicizia, e in più occasioni Roberto mi ha detto che sarebbe stato utile raccontare anche un’altra prospettiva. E da qui è nata questa possibilità. Poi è venuto tutto di getto. L’unico artificio letterario è stato quello di ambientare tutto questo flashback in una notte. Tutto il resto, purtroppo, o per fortuna, sono cose vere. Il libro per me è stato realmente un flashback. É stata l’occasione per pensare su tante cose che avevo fatto ed è stata per me una grande seduta di autocoscienza. Alla fine del libro mi sono detto che, anche se non lo avesse letto mai nessuno, per me questo libro è stata una grande soddisfazione, un’opportunità per guardami all’interno e riflettere su certi miei momenti personali e professionali. Tante idee si sono aggiunte durante il lavoro, poiché il libro è stato l’opportunità per rappresentare il mondo dell’antimafia e per sentire la necessità di dover ringraziare quella che è la “spina dorsale”, e cioè tutti i collaboratori, non solo i magistrati che spesso si prendono tutti i meriti. È un mondo in cui spesso io stesso mi meravigliavo per il tanto impegno, per la tanta abnegazione e per la dignità. Mi è piaciuto parlare di questo mondo complesso, fatto di persone meridionali e uomini che attraverso il loro lavoro volevano riscattare il senso della meridionalità, dimostrando che non c’era solo la camorra con quel sistema che all’esterno rende un’immagine completamente negativa. Questa è stata un’altra ragione che mi ha spinto a scrivere, anche se non vorrei definirmi “scrittore”: sono un magistrato che in un’occasione si è prestato alla scrittura.
N.V.: Da magistrato Lei fa numerosi riferimenti alla cosiddetta “attività repressiva”. In più occasioni parla della necessità di andare oltre. Non basta ricostruire delitti, ricostruire i retroscena di grandi fatti, ricostruire alleanze. Occorre entrare direttamente nel mondo che alimenta la mafia e in particolare la camorra. Tra l’altro lei dice che la mafia non è un anti-Stato, ma vuole essere un semi-Stato, riempiendo gli spazi dove lo Stato è assente. Noi agiamo, riuscendo anche ad ottenere successi investigativi, ma, se non siamo in grado di riempire i vuoti che erano stati occupati dalla camorra, il vuoto resta e viene nuovamente riempito da loro. Ogni volta si ricomincia da capo, ogni volta con nuove alleanze, nuove dinamiche, e anche la collettività stessa ne risente doppiamente.
R.C.: Questa è una di quelle situazioni che avevo intuito durante il periodo del lavoro e che successivamente ho elaborato meglio. Prima di tutto credo che non sia vero che la mafia voglia essere un anti-Stato. Ho raccontato due episodi che sono di grande valore simbolico. Due episodi che riguardano due boss della camorra che hanno avuto la stessa reazione in uno specifico contesto. Nel primo caso, sono andato ad interrogare un capo dei clan dei Casalesi, Francesco Bidonietti. In realtà era un interrogatorio strano, poiché non aveva nulla da dire: era un boss irriducibile. Credo che Bidonietti avesse chiesto l’interrogatorio perché mi voleva guardare. Voleva capire come confrontarsi. Io credo che sia doveroso, da parte di un magistrato, far capire che lo Stato ha anche una faccia umana. E alla fine di questo interrogatorio, che fu sostanzialmente nullo sul piano processuale, lui mi si avvicinò e mi strinse la mano, dicendomi: “Dottore, sono stato accusato ingiustamente di tutti i reati previsti dal codice penale, però non sono stato accusato di aver minimamente attentato ad un rappresentante delle istituzioni”. Fu una cosa che mi lasciò perplesso. È come se, nel suo codice, volesse riconoscere la forza, l’autorità formale, dello Stato.
Ad anni di distanza, quando si verificò una vicenda ricostruita dalle forze dell’ordine, secondo cui Michele Zagaria, attualmente uno dei latitanti del clan dei Casalesi da oltre sedici anni, venne accusato di aver voluto fare un attentato alla mia persona, lo stesso Michele Zagaria mi mandò un biglietto tramite il suo avvocato. Su questo biglietto vi era il solito prologo di carattere generale in cui diceva che sapeva che ce l’avevo con lui, che ero stato un po’ cattivo con i suoi familiari esagerando con le indagini e sequestrando tutto, persino gli indumenti del fratello. Malgrado questo, diceva: “Non ho nulla da ridire, anche perché – aggiunse – non sono mai stato imputato di aver toccato un rappresentante delle istituzioni”. Dunque due persone diverse, non in contatto tra di loro, concludono il discorso allo stesso modo. Si tratta di un valore simbolico delle loro parole: non c’è alcuna volontà di contrapporsi allo Stato. I terroristi non avrebbero mai detto una cosa del genere, perché volevano essere l’anti-Stato. La mafia no. La mafia vuole scimmiottare lo Stato, adotta i sistemi di welfare economico dello Stato, riconosce ai propri dipendenti lo stipendio e la tredicesima, riconosce anche una sorta di pensione e il diritto ad avere il pagamento degli avvocati, le spese mediche. Si sostituisce inoltre allo Stato in alcune funzioni, come per esempio quelle di ordine pubblico. Raccontavo infatti che si parla tantissimo delle ronde: a Casal di Principe la camorra ha conosciuto le ronde molto tempo fa, quando ci fu uno sconfinamento da parte di ragazzi albanesi che probabilmente non avevano capito dove si trovavano. Questi ragazzi fecero qualche furto di troppo, e ci pensarono le ronde della camorra ad allontanare gli albanesi. Credo che Casal di Principe sia uno dei paesi con il più basso tasso di micro-delinquenza in tutta Italia, ai livelli della Svezia. Lì non si vende un grammo di cocaina neanche per caso, non perché i camorristi stessi non ne fanno uso, ma perché ci sono delle regole che servono ad avvicinare il cittadino a certe logiche.
Si arriva così al paradosso. Quando noi otteniamo risultati eccezionali nella repressione di uno dei clan facenti parte del gruppo dei Casalesi, il clan dei Mondragonesi, e questo clan viene completamente abbattuto, un’ex insegnante di liceo in pensione chiede di venirmi a parlare. Mi dice: “Dottore, abbiamo apprezzato moltissimo il vostro sforzo, finalmente ci avete liberato da questa gentaglia. Eppure, da quando questi non ci sono più, la mia casa al mare è stata saccheggiata tre volte ed incendiata due volte dagli albanesi. E lo Stato?”. È evidente che si tratta di una logica anche un po’ meridionale, di attendersi cioè sempre la risoluzione di tutti i problemi da parte dello Stato. Ma si tratta di un dato che indica che la criminalità organizzata in certe realtà si sostituisce allo Stato.
Ed aggiungo un altro particolare che non ho scritto nel libro, ma che mi ha molto inquietato e fatto riflettere.
Un giorno, sempre in questo comune di Mondragone, io fui invitato ad un convegno per parlare di estorsioni. Mi si avvicinò un imprenditore edile molto conosciuto nel casertano, il quale aveva fatto molti appalti e, interrogato da me in qualche occasione, aveva sempre negato di aver ricevuto estorsioni. Con un tono un po’ sarcastico mi disse: “Dottore, ma lei crede di aver salvato il mondo? Queste persone che lei ha tolto, si riformeranno. Tutto sommato svolgono una funzione. Quando vado ad aprire il cantiere a Mondragone, so che devo pagare una tassa. Da quel momento in poi, però, sono sicuro che nessuno verrà a toccare le mie macchine, che non ci saranno postulanti che ogni giorno chiedono lavoro, non ci saranno furti nel cantiere, non ci saranno problemi o ostacoli da parte della Pubblica Amministrazione. Quindi queste persone svolgono questo servizio. E ora chi svolgerà questa funzione?”.
É una considerazione amarissima, che fa riflettere: se noi non eliminiamo le convinzioni di partenza che giustificano l’esistenza della camorra, la repressione è inutile. La vicenda di Mondragone è indicativa: noi lì facemmo “piazza pulita”. Eppure dopo un po’ il clan si riformò. Erano personaggi che dal punto di vista criminale facevano ridere, ma era quasi come se la collettività avesse bisogno di loro per una serie di attività “sociali” che svolgevano.
E questa è la dimostrazione che non bisogna credere di poter risolvere i problemi con i carri armati.
Già ci provò Mussolini, il quale fece una repressione durissima contro la camorra e contro la mafia, che però tornò subito dopo. Mussolini fece una repressione contro la camorra casalese, che già esisteva, persino eliminando il nome di Casal di Principe. Questa è una storia che quasi nessuno conosce. Durante il periodo fascista non c’era una camorra nel senso moderno, c’era un fenomeno di brigantaggio. Mussolini fece “piazza pulita” con l’esercito, e cambiò simbolicamente nome a tutti i paesi del comprensorio: li riunì e li chiamò “Albanova”, un nome significativo nella logica fascista. Appena cadde il regime fascista, la situazione si ricreò immediatamente. In Sicilia il prefetto Mori fece una cosa simile, anche se si rese conto che i mafiosi venivano usati in realtà dalle camicie nere e fu promosso. È la dimostrazione che certi fenomeni hanno un substrato culturale e sociale, e se non si eliminano queste convinzioni la repressione è inutile.
C’è bisogno, credo, di un’attività complessiva che sia, in primo luogo, culturale. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Bisogna cambiare i codici culturali di quelle realtà. E questo si sta anche realizzando, lentamente: piccoli risultati ci sono. Bisogna poi avere la forza di rendere la camorra meno forte dal punto di vista dell’immagine.
Credo che il vero problema della lotta alla camorra non sia soltanto la fase militare, ma ci sono altri due aspetti che vanno affrontati con durezza: i rapporti col mondo dell’economia e i rapporti con la politica.
Questi due aspetti rappresentano anche la forza simbolica della camorra, la quale, soprattutto in realtà socialmente sottosviluppate, rappresentano dei punti di riferimento culturale. Occorre lavorare con forza affinché le strutture economiche che fanno capo alla camorra vengano eliminate, e questa è una cosa che in piccola parte sta già avvenendo.
Bisognerebbe poter contare su una classe politica che sia distante dalla camorra, perché la classe politica fa un’operazione non corretta dal punto di vista metodologico, perché utilizza un’altra categoria del pensiero giuridico: la presunzione di innocenza per stabilire chi può candidarsi o meno. Ma la presunzione di innocenza ha una rilevanza dal punto di vista giuridico. Per accedere alla politica ci vorrebbero ben altri requisiti morali, cioè la certezza di essere trasparente.
Se un politico è colluso, non comporta solo effetti diretti, ma anche degli effetti “a cascata” sulla capacità del clan di fare presa nei confronti delle persone.
Gli effetti a cascata della collusione delle istituzioni ovviamente non riguardano solo la politica, ma anche i dipendenti, gli uomini delle Forze dell’Ordine, i magistrati. Questi meccanismi collusivi sono in grado di operare a tutti i livelli, ed hanno una grandissima valenza simbolica.
La lotta alla camorra non si fa solo con i fatti, ma anche con i simboli. E solo tramite un’aggressione vera su questi settori si potrebbe avere una regressione reale della camorra.
N.V.: La gestione dei pentiti è un altro tema delicato, anche questo di grande attualità, per la riuscita dell’inchiesta. Da una dichiarazione di un pentito è possibile ricostruire i retroscena e cercare quelle conferme che possono consentire di inserire un particolare evento nel suo contesto.
Mi ha impressionato quando nel libro si fa riferimento ad una normativa che riguarda proprio i testimoni e la loro possibilità di ritrattare durante il processo. Questo ha un risvolto sostanziale nel processo.
Lei scrive: “Un proprietario di un bar, vittima di un’estorsione, appena si sedette sul banco dei testimoni scoppiò a piangere come un bambino. Non avevamo ancora incominciato a far domande, e lui era già distrutto dalla tensione. Ricordo ancora la ricaduta disastrosa nella lotta all’estorsione”.
Questo per sottolineare come una modifica di una norma, se non calata in un contesto, può avere davvero degli effetti incredibili. Continua: “Fino ad oggi, chi rendeva dichiarazioni alla polizia, poteva dire ai camorristi di essere stato minacciato o intimidito dalle Forze dell’Ordine. Poi, nel Dipartimento, poteva anche negare: sapeva infatti che non sarebbe servito a invalidare le sue precedenti dichiarazioni”. In questo modo il testimone si salvava la reputazione, sapendo comunque che le sue dichiarazioni sarebbero state utilizzate. Ora, invece, i testimoni che ritrattano durante un processo, rendono inutilizzabili anche le dichiarazioni precedenti.
Questa è dunque una riforma che ha creato parecchi problemi, portando all’invalidazione di interi processi.
Oltre ai pentiti e ai testimoni, nel suo libro lei parla anche di Carmelina, descritta come una “rosa cresciuta nel deserto”.
R.C.: Voglio tornare sul tema della testimonianza. La legge a cui faccio riferimento è la riforma costituzionale del “giusto processo”, che è una norma di assoluta civiltà, votata in Parlamento nel 1999 con soli 9 voti contrari. Coloro che sapevano quale sarebbe stata la ricaduta di questa norma sui processi della mafia avevano detto che non è la stessa cosa venire a testimoniare a Brescia o a Santa Maria Capua Vetere.
Una persona che entra in un tribunale a Santa Maria Capua Vetere passa davanti a tutti i suoi familiari e alle celle dei camorristi presenti, e deve testimoniare contro di loro. Il caso che io ho raccontato è un caso emblematico, perché non era nemmeno una vicenda particolare. Si trattava di un proprietario di un bar, il quale riceveva un’estorsione da un personaggio marginale della criminalità: ogni mese gli chiedeva “solo” 200 euro. Stiamo parlando di una vicenda “banale”. Il criminale faceva questa estorsione sia utilizzando il suo ruolo nel clan sia a altere, cioè con una sorta di “giardinetto privato”. Era un personaggio di scarso spessore. Questo uomo proprietario del bar, appena si sedette davanti al bancone del tribunale, scoppiò a piangere. Il livello di pressione che una persona deve accusare a causa della presenza di questi soggetti è un livello che non può essere capito da chi non conosce certe realtà. Sarebbe bellissimo poter applicare sempre le regole del “giusto processo”, anche se bisogna tenere conto di come certe regole ricadono sulle specifiche vicende. Sarebbe stato opportuno per esempio introdurre una deroga per queste vicende processuali. Sarebbe interessante per esempio affrontare il tema di quante volte negli ultimi anni è cambiato il regime di utilizzazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Molte volte i processi iniziati in un certo modo cambiano le regole per strada. Non si possono cambiare le regole in corso, le parti devono sapere quali sono le regole stabilite! Eppure il nostro sistema, anche in materie così delicate, ha modificato decine di volte le regole.
Mi è capitato per esempio un processo nel quale abbiamo dovuto cambiare regimi quattro o cinque volte: questo comporta un prolungamento di questi processi. E questo dovrebbe essere un segnale: ci sono argomenti delicati in cui gli interventi dovrebbero essere ponderati, tenendo conto anche dei contesti.
Sono assolutamente contrario alle leggi eccezionali. Credo che uno Stato che utilizzi leggi eccezionali ammetta di essere incapace di gestire le vicende ordinarie. Quanti di voi sanno che in Campania c’è una legislazione penale eccezionale che riguarda i rifiuti? Credo nessuno. In Campania c’è una procedura penale speciale per i rifiuti, che prevede regole di competenza e regole di applicazione delle norme processuali completamente diverse dal resto d’Italia.
In Campania è stato applicato per la prima volta un reato che si applica solo in quella zona. Se un cittadino del Lazio, confinante con la Campania, scarica un materasso appena prima del Garigliano, senza chiamare la ditta specializzata nella raccolta dei rifiuti ingombranti, viene punito con una multa di circa 400 euro. Se invece si fa questa cosa a Napoli, in Campania, si viene arrestati e si rischia una condanna fino a 3 anni di reclusione. Vi è dunque, per la prima volta nella storia della Repubblica, una norma penale eccezionale che riguarda solo la Campania. A me questa norma non piace.
Se per caso si diffondesse l’idea che si possono creare norme penali eccezionali, bisogna chiedersi se sia più grave l’abbandono di un materasso o i camorristi. Perché si fanno le norme speciali per i materassi e non per i camorristi? Sarebbe meglio se le norme eccezionali non ci fossero mai. Si è arrivati a creare una norma eccezionale solo per evitare fenomeni di inciviltà.
Spesso in questa materia interviene gente inopportuna, che non sa di cosa si sta parlando. Gente che crede che i fenomeni di criminalità organizzata possano essere affrontati come si affrontano le rapine nelle ville del nord – fenomeno comunque pericolosissimo, ma che non ha nulla in comune alla camorra. Gente che crede che i meccanismi utilizzati nella lotta al terrorismo possano essere utilizzati per la mafia. Gente che non sa di che si parla.
N.V.: Torniamo ai pentiti e alla loro gestione. Dalla Sua esperienza professionale, anche questo è un terreno delicato.
R.C.: E’ un terreno delicatissimo. Il mio approccio nei confronti di questo mondo è abbastanza cambiato. Prima di occuparmi di criminalità organizzata, avevo una visione totalmente positiva del sistema: ero convinto dell’indispensabilità, dell’utilità e anche della bontà del fenomeno dei pentiti. È un argomento su cui mi sono abbastanza ricreduto, nel senso che ho visto quali sono le dinamiche dei collaboratori di giustizia. Premetto che senza i collaboratori di giustizia non si farebbero nemmeno le indagini sulla mafia, poiché i meccanismi della mafia sono per loro natura impermeabili.
Fino ad un certo punto si possono ottenere risultati tramite le intercettazioni, e queste ci permettono solo di raccogliere la realtà di quel particolare momento. Le intercettazioni non ci consentono di capire le dinamiche, le vicende interne, le vicende pregresse.
Senza l’apporto dei collaboratori ci sarebbero una serie di reati, per esempio gli omicidi, che non sarebbero mai individuati. Sono andato decine di volte sui luoghi degli omicidi, e mai nessuno ha mai detto una parola – a parte il caso di Carmelina, di cui parlerò tra poco.
I collaboratori di giustizia consentono un risultato eccezionale: permettono di penetrare in quel sistema, di conoscere le logiche e i retroscena, il modo di pensare, per poter interpretare vicende che da un punto di vista razionale non troverebbero spiegazione. Anche i moventi a volte sono complessi da capire, perché noi stessi usiamo un approccio e una mentalità normale. Spesso ho chiesto ai pentiti il perché di un omicidio. E dalle loro spiegazioni non riuscivo a capire il movente.
Ricordo che Augusto La Torre, uno dei pentiti che ho seguito, che poi era sicuramente un “finto” pentito, rispondeva dicendo: “Dottore, quello era scostumato”. E dato che era “scostumato”, lo ha ammazzato.
Questa capacità di decifrare il modo di porgersi dei criminali sono codici decifrabili solo da chi è coinvolto all’interno di quel sistema: i pentiti sono dunque indispensabili.
Però i pentiti non sono pentiti. D’altro canto il legislatore non richiede che chi scelga questa strada debba avere anche un pentimento morale. Le ragioni che possono giustificare un atteggiamento di questo tipo possono essere anche totalmente utilitaristiche, e nel 90% dei casi lo sono: c’è chi si pente per evitare il carcere, chi si pente perché non riesce a stare al 41bis, chi si pente per evitare di essere ammazzato dal clan. Personalmente mi sarà capitato una o due volte di trovare qualcuno che ha aggiunto alle motivazioni utilitaristiche anche un vero pentimento. A volte poi si è creato “in progresso” un pentimento morale. Proprio perché c’è una motivazione di tipo utilitaristica, la maggior parte di queste persone non smette mentalmente di essere un criminale. Smette per scelta utilitaristica di fare il criminale, e questo richiede un grande attenzione nella valutazione delle dichiarazioni.
Devo dire che su questo argomento Giovanni Falcone aveva dato una lezione incredibile, poiché all’epoca non c’era proprio una normativa per regolare le dichiarazioni dei pentiti. Oggi invece, nel codice penale, c’è un criterio di valutazione di tali dichiarazioni. All’epoca Giovanni Falcone fece una cosa che fu criticata moltissimo, soprattutto da una parte del mondo politico: arrestò per calunnie un pentito. Questo pentito aveva infatti accusato Salvo Lima, nell’entusiasmo generalizzato di una parte politica. L’aveva accusato in modo che l’avrebbero sicuramente assolto. Quando Falcone si accorse che quel pentito stava mentendo, lo arrestò personalmente, dando così un segnale criticatissimo di grande rigore. Le dichiarazioni dei pentiti vanno considerate come uno spunto di partenza, ma devono essere esaminate con grande attenzione, essendo obiettivamente pericolose. E dico questo con la consapevolezza di aver imbastito la maggior parte dei miei processi sulle dichiarazioni dei pentiti. Bisogna porsi in un atteggiamento laico: i pentiti non necessariamente dicono la verità, e in qualche caso non sono nemmeno in malafede. Spesso i pentiti confondono i fatti con le interpretazioni. Scherzando con dei colleghi, ci chiedevamo se, chiedendo ai pentiti chi avesse compiuto la strage delle Torri Gemelle, ci avrebbero detto sicuramente qualcosa.
Il sistema dei pentiti è dunque indispensabile, ma proprio per questo occorre un riscontro rigorosissimo sulle loro dichiarazioni. Le dichiarazioni di un pentito sono solo l’inizio di una prova. Tutta questa attenzione spasmodica non è giustificata. Il pentito può presentare sue dichiarazioni, o spesso dichiarazioni di seconda mano, ascoltate da altre fonti. È un sistema indispensabile: se vogliamo evitare attacchi al sistema dei pentiti, dobbiamo avere la consapevolezza che le loro dichiarazioni devono essere usate con intelligenza. In assenza di prove, è inutile fare i processi. Anche perché i processi che si chiudono con assoluzioni non possono più essere riaperti.
A volte noi stessi, nel ruolo di Pubblici Ministeri, eccediamo nella fretta di arrivare a dei risultati. Iniziando un processo sulla base di dichiarazioni insufficienti da parte dei pentiti, rischiamo di avere un’assoluzione precoce, che vale anche in caso di una successiva confessione. Invece molto spesso col tempo si aggiungono elementi probatori, ed è molto meglio archiviare le dichiarazioni iniziali, per poter fare un’indagine ed arrivare ad un’assoluzione definitiva.
Credo che, se vogliamo difendere i pentiti, dobbiamo pretendere tantissimo da loro. Dobbiamo essere inflessibili nel caso in cui sbaglino, poiché hanno avuto un’altra possibilità dalla vita. Poi dobbiamo avere il coraggio di valutare con grandissimo rigore le loro dichiarazioni. In qualche occasione ho avuto la certezza che i pentiti dicessero la verità, ma ciò non era riscontrabile. Bisogna avere il coraggio di aspettare.
Domanda dal pubblico sulla collusione tra criminalità, il mondo economico ed il mondo della politica.
R.C.: Io non sono così pessimista, nel senso che ho verificato che c’è una parte del mondo politico che non ha nulla a che vedere con questi meccanismi. E si tratta di persone di entrambe le divisioni della politica. Molti politici si impegnano nella lotta per la legalità. Il problema è che accanto ad una serie di vicende di collusione ci sono molti politici indifferenti, disinteressati e soprattutto corporativi. Il meccanismo è molto complesso. Non si tratta solo di un problema di malafede, anzi: credo che i soggetti che sono in malafede siano un numero esiguo, così come sono pochissimi i criminali veri. Se per esempio dovessimo contare quanti affiliati ci sono in un clan, li conteremmo sulle dita di una mano. Eppure sono fortissimi, poiché c’è tutto l’altro mondo: ci sono gli indifferenti, ci sono quelli meno interessati, quelli che non si schierano. E alla fine, con questo atteggiamento si schierano dalla parte sbagliata.
Il tema delle convivenze è un tema complesso. La necessità di provare le responsabilità penali dei politici, riguardo ai fatti di mafia, comporta molte difficoltà. A Napoli fu istituito un processo, il “processo Maglio”, che riguardava le convivenze di tutto l’apparato che faceva capo al partito di maggioranza di allora, con alcuni pezzi importanti della camorra. Vennero imputati anche l’ex ministro degli Interni Antonio Gava e tutti i componenti della sua Segreteria. Alla fine del processo tutti quei componenti sono stati condannati con sentenza passata in giudicato. Gava invece venne giustamente assolto, poiché non aveva mai avuto un rapporto diretto con il mondo della criminalità organizzata.
Dovrebbe perciò funzionare un sistema di responsabilità politica che sia molto anticipatore degli effetti penali. Quando un politico viene condannato per rapporti con la mafia, si è arrivati all’ultimo stadio. Il problema riguarda i rapporti precedenti di tutto il mondo circostante, che fa da interfaccia tra la politica e la criminalità organizzata. E l’Autorità Giudiziaria svolge questo compito male, con grande ritardo, e spesso senza raccogliere risultati. In quella vicenda Gava fu dichiarato innocente, ma sicuramente aveva sbagliato a scegliere i componenti della Segreteria. Esiste una responsabilità, la “culpa in eligendo”, cioè la colpa nello scegliere i propri collaboratori, e questa dovrebbe essere rilevantissima.
In certi meccanismi, delegare all’Autorità Giudiziaria l’individuazione della moralità della politica è un errore clamoroso, che ha effetti dirompenti sul piano della capacità della criminalità e anche sugli effetti simbolici della criminalità organizzata.
Quando qualche volta si arriva ad individuare possibili responsabilità, bisognerebbe consentire ai giudici di fare i processi. Spesso questo non accade: c’è entusiasmo quando si arrestano estorsori o omicidi, ma quando ci si deve occupare di politica, quegli stessi magistrati non sono più in grado di occuparsene. C’è qualcosa che non quadra.
Domanda dal pubblico sui codici comportamentali
R.C.: Io credo che sia molto importante l’aspetto educativo. Vorrei spiegare l’argomento tramite un esempio. È un dato che mi ha colpito molto.
Un collaboratore di giustizia raccontava perché era diventato camorrista. Raccontava che fino ad un certo punto aveva lavorato al Nord come operaio, e poi era tornato nel suo paese, a Mondragone. Suo cognato, che era un dirigente della ditta che si occupava della raccolta dei rifiuti e che era anche un esponente della camorra, gli aveva trovato un posto come autista dei camion per la raccolta dei rifiuti. E siccome era bravo a guidare ma non aveva la patente, il pomeriggio si faceva accompagnare da questo cognato, il quale restava sempre in macchina. Eppure lui racconta come cambiò l’atteggiamento delle persone. Da quel momento in poi l’attenzione del paese era concentrata su di lui: c’era chi gli offriva il caffè, c’era chi lo avvicinava per chiacchierare, c’era chi gli faceva lo sconto nei negozi. E lui capì dunque che la camorra poteva essere uno strumento di affermazione sociale. Poi però si rese conto che la situazione non era proprio così: faceva l’autista per la racconta dei rifiuti, ed era l’ultima ruota del carro della camorra.
Questi codici di comportamento sono determinanti, perché questi sono i classici lustrini che la camorra in qualche modo utilizza. Nella realtà cittadina napoletana i ragazzi diventano camorristi a 15-16 anni. E diventano camorristi perché l’immagine che danno è spaventosa: vestiti griffati, con le ultime mode e tendenze, con le più belle ragazze. Sembrava dunque un modello di riferimento da raggiungere.
Questi sono codici di riferimento da cambiare! Dobbiamo far capire che certi meccanismi non solo non sono ambiti, ma sono perdenti. Così come tutti vogliono fare il “grande fratello”, in un certo senso tutti vogliono fare i camorristi, poiché pensano che quello sia uno strumento veloce per raggiungere il successo sociale. E invece non è così, perché per più del 90% dei casi chi entra nella camorra entra da soldato e muore da soldato. Anzi, nella migliore delle ipotesi resta in carcere per la maggior parte del tempo, se non viene ammazzato per questioni che nemmeno lo riguardano. Però queste cose il ragazzo non le sa. La società non le spiega. Credo che sia importante cercare di far capire e cercare di cambiare i codici di comportamento. Se noi ci riuscissimo, avremmo molto più successo di cento operazioni per arrestare i camorristi. Perché l’arresto, da questo punto di vista, non muta affatto il codice di comportamento. Quando il ragazzino esce dal carcere, dopo la prima esperienza, ha cambiato atteggiamento: esce dal carcere con la testa alta, pensando di essere già un boss.
É per questo che credo sia importante cambiare i codici comportamentali. Mi rendo conto che c’è differenza tra il “dire” ed il “fare”. Non è semplice dire “come” li cambiamo. Ma questo è un problema.
Noi dobbiamo cercare di intervenire per rendere meno appetibile questo fenomeno
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 3.12.2009 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.