La forma più alta di conoscenza a cui possa giungere l’uomo Bergson la designa col termine «intuizione». Prima di dire in che cosa consiste l’intuizione occorre chiarire gli apporti di due altre specie di conoscenza radicalmente differenti, l’istinto e l’intelligenza, così come sono delineati nel secondo capitolo dell’Evoluzione creatrice. Nel regno animale l’evoluzione si è sviluppata per due strade divergenti: una portava all’istinto, l’altra all’intelligenza. La vita è uno sforzo incessante per ottenere alcune cose dalla materia e gli strumenti meglio riusciti per il conseguimento di quello scopo sono appunto l’istinto e l’intelligenza. L’uno e l’altra sono «potenze immanenti alla vita» che «si staccano da un fondo unico» e che, in seguito, hanno dovuto dissociarsi (L’Évolution créatrice, Oeuvres, Édition du Centenaire, PUF, 1959, 19702, 608 e 653). L’istinto è, eminentemente, «la facoltà di adoperare uno strumento naturale organico» (ibid., 622), cioè il corpo con i suoi organi. Il suo strumento, essendo prodotto dalla natura medesima, usi fabbrica e si ripara da sé» (ibid., 614). L’istinto è, per così dire, «fuso sullo stampo medesimo della vita» (ibid., 635). La conoscenza dell’istinto, virtuale o incosciente che sia, è pur sempre una conoscenza innata e diretta dell’oggetto a cui si applica. L’istinto, dunque, procede organicamente e può fornire immediatamente le risposte richieste dai bisogni della vita in una data situazione.
Non così l’intelligenza, la quale opera solo mediatamente e meccanicamente, dovendo fabbricarsi uno strumento idoneo a conseguire lo scopo. L’intelligenza è, infatti, la facoltà di fabbricare oggetti inorganici, cioè strumenti artificiali, per prolungare e potenziare i mezzi naturali di cui l’uomo dispone. Lo scopo perseguito dalla vita è quello di mettere in grado l’homo sapiens di «trarsi d’impaccio», cioè di sopperire alle proprie deficienze, difendersi e nello stesso tempo accrescere la capacità d’azione pratica sulle cose e sugli altri esseri viventi. È l’intelligenza che trasforma un certo tipo di vertebrati in uomini; ma l’homo sapiens è tale proprio perché faber, cioè capace di fabbricare, trasformare la materia, costruire. Unendo mano e mente, egli può eseguire qualsiasi lavoro. Grazie alle inesauribili invenzioni della sua intelligenza costruttrice, l’uomo ha saputo attingere progressivamente nel corso dei millenni un’indipendenza crescente, affrontare la più grande varietà di ostacoli e vivere negli ambienti più diversi, «fino a coprire la più vasta estensione possibile della terra e a rivendicare la terra intera come proprio dominio» (ibid., 605-08 passim) (1). L’istinto dà risposte immediate e precise, ma sempre uguali e adatte a un solo tipo di circostanze: può spingersi, al massimo, a «una variazione sul tema della routine» (ibid., 718). L’intelligenza, invece, «può variare la fabbricazione dello strumento a seconda delle circostanze» (ibid., 622) ed è questo che le conferisce una superiorità incommensurabile rispetto all’istinto, per cui essa si rivela come la più efficace, la più pratica delle vie di liberazione dalla materia. Tra l’istinto e l’intelligenza vi è tutta la distanza che intercorre fra il limitato e l’illimitato. La differenza non è di grado, ma di natura, e tuttavia l’istinto si mescola di continuo al lavoro dell’intelligenza nella vita degli individui e delle società (2).
L’intelligenza guarda alle cose che entrano nel campo della coscienza da un duplice punto di vista: ciò che possiamo attenderci da esse e come modificarle in rapporto allo scopo che vogliamo conseguire (ibid., 655). Per questo essa chiede alle nostre percezioni «più che il disegno delle cose stesse, quello della nostra azione possibile su di esse». Il lavoro dell’intelligenza riguarda ambiti diversissimi e può proporsi obiettivi sempre più arditi e complessi; ma la logica che presiede alle sue produzioni è sempre la stessa. L’intelligenza, quale esce dalle mani della natura, opera per lo più su materiali tratti da realtà organiche (il legno si ricava dall’albero), ma, per usare quei materiali, essa deve pensarli come inorganici, pezzi di un meccanismo, oggetti esterni gli uni agli altri. «In vista delle manipolazioni ulteriori, a noi riesce utile considerare ogni oggetto come divisibile in parti ritagliabili a nostro arbitrio» (ibid., 625). L’insieme della materia deve apparirci, pertanto, come «un’immensa stoffa in cui possiamo ritagliare ciò che ci piace, per ricucirlo poi come crediamo» (ibid., 628). L’intelligenza è un’altissima, potente emanazione della vita, ma in essa «la vita guarda al di fuori e si fa esteriore a se stessa» (ibid., 632). Se per modificare un oggetto, dobbiamo percepirlo come divisibile e discontinuo, sarà naturale per l’intelligenza erigere a principio, a criterio del proprio lavoro, i processi della materia inorganica e la rappresentazione ad essi collegata di uno spazio omogeneo, divisibile all’infinito. In una parola, l’intelligenza si trova a suo agio solo in ciò che è spaziale e perciò non può che inquadrare quanto percepisce, si rappresenta e concettualizza in schemi spaziali che ne facilitino il più possibile l’utilizzazione. Essendo questo il lavoro dell’intelligenza, le scienze che per prime raggiunsero una sistemazione rigorosa, la matematica e la fisica meccanica, erano destinate ad esercitare su di esso la più grande influenza. Non è certo «colpa» dell’intelligenza se i suoi procedimenti, funzionali al suo tipo di lavoro, sono stati estrapolati dal campo in cui essa li usa per essere estesi, per una sorta di diktat, a tutti gli altri ambiti dell’esperienza. L’intelligenza fa bene il suo mestiere; «sono i filosofi quelli che s’ingannano, quando trasportano nell’ambito speculativo un modo di pensare fatto per l’azione» (ibid., 627). Liberarci da un errore così diffuso e insinuante -tale da comportare una spaventosa mutilazione dell’esperienza e del senso stesso della vita – era ed è necessario per aprirci alla vera ricerca filosofica.
In sintesi, l’istinto trova ciò che non si è mai proposto di cercare. Tocca l’oggetto, ma, per così dire, non lo vede. Ristretto a quella sola porzione di vita che lo interessa, esso è incapace di staccarsi dall’oggetto a cui è vincolato e non può andare oltre. La sua conoscenza, però, afferra le cose, implica cioè una materia, un oggetto, il ciò che è dato allo stato bruto. L’intelligenza, il cui raggio d’azione ha un’estensione universale, non afferra le cose, ma tende a stabilire i rapporti tra le cose. Essa ci dà, pertanto, la conoscenza di una forma (3), cioè dell’insieme dei rapporti tra i materiali assunti per costruire qualcosa e, al suo più alto livello, quello tecnico-scientifico, è in grado di conferire al nostro operare unità di metodo, certezza di risultati, fecondità di applicazione. Ci si chiede se l’uomo possa pervenire a una conoscenza che sia oltre l’istinto e l’intelligenza; che associ il carattere materiale, l’afferrare un oggetto fino a coincidere con esso, proprio dell’istinto, e il carattere formale dell’intelligenza; che superi la limitatezza dell’uno e l’esteriorità spazializzatrice dell’altra. Ci può essere, insomma, un conoscere che non sia strumentale rispetto a qualcosa d’altro, ma disinteressato e puro, teoretico, capace di farsi «moto di simpatia con l’oggetto» e insieme di dispiegare un’ampiezza di sguardo, che si estenda all’essere in quanto tale?
È solo a partire dall’Introduzione alla metafisica, il saggio apparso nel 1903, che Bergson usa il termine intuizione per designare, in opposizione all’analisi concettuale, «la simpatia mediante la quale ci si colloca all’interno di un oggetto per coincidere con ciò che in esso vi è di unico» (La pensée et le mouvant, 1395). Per questo suo aspetto e per qualche altra analogia, l’intuizione filosofica è parsa ad alcuni pensatori, soprattutto del periodo romantico, far tutt’uno con l’intuizione artistica. È, però, un errore credere che Bergson la pensi allo stesso modo, giacché egli rifiuta esplicitamente quella tesi per due ragioni: «1°. L’arte riguarda il vivente e fa appello solo all’intuizione, mentre la filosofia si occupa necessariamente della materia nello stesso tempo in cui approfondisce la realtà spirituale, facendo appello, di conseguenza e all’intelligenza e all’intuizione. 2°. L’intuizione filosofica, dopo essersi avviata nella stessa direzione dell’intuizione artistica, va molto più lontano: essa coglie ciò che è vitale prima del suo sparpagliarsi in immagini, mentre l’arte poggia sulle immagini» (Lettera a H. Höffding, 1916, in Écrits et paroles III, 455-56).
Sgombrato il terreno da un equivoco così diffuso, vediamo più da vicino che cosa si debba intendere per intuizione. «I filosofi scrive Bergson – concordano, a dispetto delle loro divergenze apparenti, nel distinguere due maniere profondamente diverse di conoscere una cosa. La prima richiede che le si giri attorno, la seconda che si penetri in essa. La prima dipende dal punto di vista nel quale ci si colloca e dai simboli con i quali ci si esprime; la seconda non parte da alcun punto di vista e non si appoggia ad alcun simbolo. Della prima conoscenza diremo che si ferma al relativo, della seconda, là dove essa è possibile, che attinge l’assoluto» (Introduzione alla metafisica in La pensée et le mouvant, 1193). L’assoluto che noi possiamo pretendere di cogliere in tal modo non è l’Assoluto in sé, l’Incondizionato, ma è, potremmo dire con Tommaso d’Aquino, un assoluto secundum quid; e la conoscenza che ne abbiamo può certamente essere limitata, ma non è per nulla relativa: è assoluta perché si accorda con il proprio oggetto e coincide con esso. Qui il termine «assoluto» è sinonimo di perfezione, compiutezza. Conoscere una realtà assolutamente vuol dire solo conoscerla in se medesima, nella sua intima semplicità.
Bergson esita a lungo a servirsi del termine intuizione, come precisò in una nota aggiunta alla seconda edizione dello scritto del 1903. L’esitazione era più che giustificata agli occhi del filosofo francese, perché quel termine era stato screditato proprio dai cosiddetti «filosofi dell’intuizione», e in primo luogo da Schelling e Schopenhauer, i quali non avevano fatto altro che sostituire ai concetti che l’intelligenza fornisce «un concetto unico che li riassume tutti e che, di conseguenza, è sempre lo stesso, quale che sia il nome con cui lo si chiami: la Sostanza, l’Io, l’Idea, la Volontà» (La pensée et le mouvant, Introduzione-Seconda parte, 1272). Se si intende così la filosofia, non si fa fatica a dedurre tatto quel che si vuole dall’unico principio, dal «concetto dei concetti», in cui prima si è messo tutto il reale e tutto il possibile. Ma deduzioni del genere non sono affatto spiegazioni e l’unità originaria, a cui di continuo ci si appella, rimane una vuota astrazione, un presupposto dommatico. Insomma, ciò che fa difetto ai filosofi dell’intuizione è proprio l’intuizione. È un vero e proprio arbitrio, infatti, stabilire a priori che essa debba essere una ed una sola, oltre che onnicomprensiva. Al contrario, l’intuizione metafisica non può avere la pretesa di abbracciare l’Uno e il Tutto, perché non si dà intuizione del vuoto, dell’astratto, e neppure della loro «generalizzazione suprema». Il Tutto non è dato; la sua idea non è che sia priva di senso, ma le sue parti attuali non si lasciano affatto totalizzare. L’unità del mondo, se c’è, potremo intravederla e forse conoscerla, ma al termine di una lunga ricerca e non certo all’inizio. È poi francamente insostenibile la pretesa di racchiudere virtualmente in un unico principio la scienza universale. Il compito, umile e arduo insieme, dell’intuizione è un altro: «seguire le ondulazioni del reale» (ibid.), cercando dell’essere concreto di cui si diventa partecipi la sola spiegazione che gli si attagli, perché pensare seriamente significa «pensare su misura», essere obbligati per ogni nuovo oggetto di studio a fornire uno sforzo assolutamente nuovo (Introduzione alla metafisica in La pensée et le mouvant, 1408).
L’intuizione filosofica non è affatto, come erroneamente si immagina, qualcosa che irrompe nel nostro spirito dal di fuori, per caso: essa nasce, invece, da un’energica presenza dello spirito a se stesso e dalla sua continua vittoria su ciò che è dispersivo, superficiale, secondario. L’intuizione ha un carattere «essenzialmente attivo». «Non è un atto unico», ma consta di una serie indefinita di atti, tutti senza dubbio dello stesso genere, ma ciascuno di specie affatto particolare, e tale diversità corrisponde alle differenze qualitative degli esseri (ibid., 1416). L’intuizione è come il talento dell’artista: «si forma o si deforma, in ogni caso si modifica, sotto l’influsso dell’opera che produce» (L’Évolution créatrice, 500).
Nella discussione sul termine «intuizione», svoltasi il 1° luglio 1909 alla Società francese di Filosofia, Bergson sottolinea che l’intuizione, lungi dall’offrirsi a noi spontaneamente, esige una lunga preparazione. La sorpresa di interlocutori e interpreti, dinanzi a questa precisazione, era fuori luogo. In effetti il filosofo francese aveva insistito, e con forza, su questo aspetto fin dal primo scritto sulla questione. Nell’Introduzione alla metafisica aveva detto che una «simpatia spirituale» per un essere che si vuol cogliere nella sua interiorità non nasce se prima non si è guadagnata la sua confidenza, e senza cuna lunga familiarità (camaraderie) con le sue manifestazioni», a cominciare da quelle superficiali (La pensée et le mouvant, 1432). Lo stare in compagnia con una data realtà comporta una rigorosa attenzione all’insieme delle osservazioni e delle esperienze raccolte su di essa dalle scienze positive e soprattutto dalla riflessione dello spirito su se stesso. «Anche nel caso semplice e privilegiato del diretto contatto dell’io con l’io, lo sforzo decisivo per un’intuizione distinta sarebbe impossibile a chi non avesse raccolto e confrontato tra loro un gran numero di analisi psicologiche» (ibid.). Familiarizzare lo spirito con una realtà significa, infatti, formulare il più esattamente possibile i problemi di cui occorre cercare la soluzione, neutralizzando «le idee preconcette o premature», che si siano insinuate in noi a nostra insaputa, e soprattutto farci avvertire, a un certo punto, che tutti i documenti e le analisi di cui disponiamo hanno una funzione introduttiva rispetto a quel qualcosa di diverso e di più che ci è richiesto per collocarci, in virtù di «uno sforzo spesso penoso» (ibid., 1431), nel cuore stesso di un’esperienza o di un problema.
La lentezza e la complessità degli approcci non possono, però, cancellare il fatto che l’intuizione, quando c’è, si presenta come un’esperienza semplice, l’esperienza immediata di chi percepisce l’identità intenzionale, si direbbe il contatto, del suo spirito con quella determinata realtà, di cui ha cercato di afferrare il carattere proprio e l’intimo dinamismo. Fa parte dell’intuizione, o ad essa si accompagna, il sentimento illuminante di un’indubitabile presenza. L’intuizione ha, dunque, una sua intrinseca evidenza, la quale, però, non è quella chiara e distinta di cui parla Cartesio. Bergson arriva persino a dire che è «oscura», benché in un senso che va subito precisato (La pensée et le mouvant, Introduzione-Seconda parte, 1376). L’intuizione, infatti, è oscura per coloro che non vi siano pervenuti personalmente e anche per quelli a cui si cerchi di spiegarla; ma lo è anche per chi, pur sperimentandone la presenza, non riesce ancora ad afferrarne i precisi contorni e il contenuto positivo.
In realtà ciò che prima di tutto risulta evidente dell’intuizione è la sua singolare potenza di negazione. Bergson la descrive in termini molto vivaci e, si direbbe, autobiografici. «Ricordate come procedeva il demone di Socrate: a un dato momento fermava la volontà del filosofo e, pur senza comandargli ciò che doveva fare, gli impediva di agire. A me sembra – scrive Bergson – che l’intuizione si comporti in campo speculativo come il demone di Socrate nella vita pratica; è almeno sotto questa forma che fa il suo debutto, sotto questa forma che continua a darci le sue manifestazioni più nette: essa vieta. Dinanzi a idee che sono correntemente accettate, a tesi che sembrano evidenti, ad affermazioni che fino a quel momento erano passate per scientifiche, essa soffia all’orecchio del filosofo la parola: Impossibile. Impossibile, quand’anche fatti e argomenti sembrino invitarti a credere che la cosa era possibile non solo, ma reale e certa. Impossibile, perché una certa esperienza, forse ancora confusa ma decisiva, è incompatibile con i fatti allegati e gli argomenti addotti, mostrando così che quei fatti erano stati male osservati e quegli argomenti erano falsi… Non è forse vero che il primo passo del filosofo, allorché il suo pensiero non è ancora ben fondato e nulla vi è di definitivo nella sua dottrina, è quello di rigettare definitivamente certe cose?» (L’intuizione filosofica in La pensée et le mouvant, 1347-48). È più difficile, certamente, indicare il contenuto positivo di un’intuizione, ma non é meno necessario e appassionante.
L’intuizione, cioè la conoscenza del «profondo» che si attua mediante il contatto e la coincidenza tra soggetto e oggetto, è di per sé semplice e immediata; ma il «profondo» può trasparire, avereuna sua «espressione»? E l’espressione non è forse, inevitabilmente, condannata a indebolire e ad estenuare l’intuizione?
Senza dubbio, Bergson insiste molto sulle difficoltà da superare per esprimere il profondo, perché il nostro linguaggio è quasi sempre inficiato, come s’è detto, dall’ossessione della spazialità, e il lavoro dell’intelligenza si esplica con procedimenti che sostituiscono il discontinuo al continuo e l’astratto al concreto. La polemica bergsoniana non si stanca di denunciare il pericolo che si parta dai concetti già fatti, invece che dall’esperienza del reale, e che si sacrifichi al conoscere «utile» dell’intelligenza quello «disinteressato» dell’intuizione. Il primo «è necessario al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una misura da determinare, alla scienza positiva» (Introduzione alla metafisica in La pensée et le mouvant, 1421); il secondo, però, è necessario alla verità. Il primo ha una funzione pratica, il secondo un valore teoretico. Va, dunque, ribadito che tra l’intelligenza e l’intuizione vi è soluzione di continuità, c’è un salto qualitativo e non un passaggio. Con le analisi e i loro simboli matematici si può fare un lavoro che è prezioso e indispensabile anche per un approccio introduttivo al vissuto e al concreto, ma non è sul loro terreno che fiorisce l’intuizione. Il nostro spirito imboccherà il cammino dell’intuizione, ma solo «in virtù di uno sforzo violento» (ibid., 1419). Ci vuole uno «sforzo penoso, doloroso perfino» – come si diceva nella prima edizione del saggio del 1903 – per risalire la china naturale dell’intelligenza. Bergson è stato sempre profondamente convinto che l’intuizione è sforzo, è fatica e che «filosofare consiste nell’invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero» (ibid., 1422). In tal senso non ha esitato a scrivere che «la filosofia dovrebbe essere uno sforzo per oltrepassare la condizione umana» (ibid., 1425).
Il paradosso della posizione bergsoniana consiste in questo: non si passa dall’analisi all’intuizione, ma dall’intuizione si passa certamente all’analisi (ibid., 1413). Per comunicare l’intuizione abbiamo bisogno di servirci inevitabilmente dei mezzi di cui disponiamo; e «noi non abbiamo che due mezzi di espressione, il concetto e l’immagine» (L’intuizione filosofica in La pensée et le mouvant, 1357) (4). L’intelligenza tesse attivamente per suo conto, e assume dalla vita sociale, una rete di concetti, con cui cerca a suo modo di dominare il reale. Dei concetti abbiamo effettivamente bisogno per qualsiasi lavoro che tenda al rigore, alla precisione, al perfezionamento logico e all’indefinita estendibilità di un metodo o di un parametro a casi particolari (Introduzione alla metafisica in La pensée et le mouvant, 1423); tuttavia i concetti offrono solo un’impalcatura, una classificazione dei fenomeni e sono utilissimi a orientare la nostra azione nel mondo, ma dal punto di vista conoscitivo sono vaghi e insufficienti.
Le immagini, in cui si è visto qualcosa di nettamente inferiore al concetto, hanno invece una sorprendente plasticità e una forza allusiva tali da renderle idonee a suggerirci, e lo si sperimenta abitualmente nell’arte, cose che sono fuori dalla portata del concetto. Spingendoci a cogliere i contorni di una realtà e insieme il suo senso, esse sono «mediatrici» tra la semplicità dell’intuizione e la complessità delle astrazioni concettuali, a cui si deve far ricorso per fornire le spiegazioni necessarie di un processo interiore e di una conoscenza meta-concettuale (5). L’immagine ha il compito di rendere la coscienza attenta all’intuizione, ponendola in «una disposizione di spirito tutta particolare e determinatissima: quella, precisamente, che essa dovrà assumere per apparire a se stessa senza veli» (ibid. , 1399). L’immagine dispone all’intuizione e insieme ne sorregge la presenza nella memoria. Con chiaro riferimento alla sua esperienza di scrittore, Bergson avverte, però, che è bene usare «immagini quanto più possibili disparate» per impedire che una qualsiasi di esse venga identificata con l’intuizione (ibid.). In verità, colui che sia pervenuto all’intuizione, nell’atto di comunicarla riscatta anche il linguaggio dall’uso utilitario, e più spesso banale, che se ne fa: egli anima di una vita nuova i termini di cui si serve e, facendoli sgorgare dal movimento stesso del suo spirito, li arricchisce di valenze e sfumature, senza le quali il profondo non potrebbe mai essere espresso.
Sin qui si è parlato di coloro i quali sperimentano in prima persona un’intuizione e tentano di esprimerla. Si dà, però, anche il caso di chi si accosta all’intuizione comunicatagli da un’altra persona, per renderne partecipe il proprio spirito o per favorire la disponibilità di altri spiriti a un’esperienza così significativa, essendo l’intuizione di diritto per tutti, cioè per ogni uomo nella misura in cui egli divenga significativo a se stesso. È questo uno dei compiti più alti e specifici di ogni autentico maestro e per Bergson, che fu un grande educatore, esso è eseguibile. Ma a un patto: che ci sia una ripresa dello sforzo di coloro da cui ci è venuta l’una o 1’altra illuminazione, conferendo così all’intuizione un’esistenza rinnovata. Rivivere un’intuizione è, infatti, rifarne ogni volta l’esperienza originaria, ma anche contribuire ad estenderla e ad approfondirla. Uno spirito che si riporti alla coscienza della durata reale – della sua propria esistenza, in primo luogo, e, in via subordinata, degli altri esseri che sono intorno e insieme a lui – vede tutte le cose dal punto di vista della durata, sub specie durationis, in una disposizione di spirito che, mentre gli vieta di far spreco di sé, fermandosi alla superficie delle cose e al livello dei condizionamenti sociali, apre il suo animo alle profondità della vita interiore e alla bellezza della creazione. Se l’esperienza della durata reale – ossia della conoscenza metafisica del profondo – fosse vissuta da molti, se fossero in molti a incamminarsi per la via che mena all’intuizione filosofica, le emozioni che l’arte riserva ai privilegiati della natura e della fortuna la filosofia potrebbe offrirle a tutti. «Se la conoscenza intuitiva si generalizzasse, non sarebbe solo la speculazione a trarne profitto. La vita di tutti i giorni potrebbe esserne riscaldata e illuminata». Ricercando esclusivamente o in primo luogo l’utile, il benessere, il piacere, «noi stessi siamo artificialmente foggiati a immagine di un mondo altrettanto artificiale». L’uomo, però, ha in sé di che superarsi, anche grazie alla filosofia (L’intuizione filosofica in La pensée et le mouvant, 1364-65).
Con fine ironia Bergson pregava i suoi interlocutori di non chiedergli una definizione semplice e geometrica dell’intuizione. «Sarebbe troppo facile mostrare che noi prendiamo quella parola in accezioni che non si deducono matematicamente le une dalle altre… Di ciò che non è astratto e convenzionale, ma reale e concreto, e a maggior ragione di ciò che non è ricomponibile con elementi già dati, non si può dare un’idea se non prendendo su di esso molteplici vedute, complementari e non equivalenti» (La pensée et le mouvant, Introduzione-Seconda parte, 1274). Un procedimento del genere, che lavora sull’esperienza, esige sempre tempo, pazienza e un’incessante tensione dello spirito; inoltre ciò che con esso si riesce ad afferrare del reale è sempre ben delimitato e non è affatto inquadrabile in uno di quei sistemi di idee generali che sembrano fatti apposta per risolvere ogni problema e tappare ogni buco. Di qui l’inferiorità frappante del punto di vista intuitivo nella controversia filosofica. Bergson ce ne dà la riprova in questo brano chiaramente autobiografico: «Ascoltate discutere insieme due filosofi, di cui uno tiene per il determinismo e l’altro per la libertà. È sempre il determinista che sembra aver ragione. Non importa che sia alle prime armi, mentre l’avversario è uno sperimentato. Egli può sostenere senza preoccupazione alcuna la sua causa, mentre all’altro tocca sudar sangue. Di lui si dirà sempre che è semplice, chiaro, vero e lo è in modo facile e naturale, non dovendo far altro che mettere insieme pensieri già pronti e frasi fatte: la scienza, il linguaggio, il senso comune, l’intelligenza tutta è a suo servizio. La critica di una filosofia intuitiva è così facile, così sicura di essere ben accolta, che costituirà sempre una tentazione per il principiante. Più tardi potrà sopraggiungere il dispiacere di aver ceduto a meno che non vi sia un’incomprensione nativa, un risentimento personale nei confronti di tutto ciò che non è riconducibile alla lettera e che è propriamente spirito. Questo succede, perché la filosofia ha anch’essa i suoi scribi e i suoi farisei» (ibid., 1277).
Un’ultima annotazione. Nello scritto L’intuizione filosofica Bergson, nell’atto di chiarire un aspetto fondamentale del suo pensiero, ci dice come la filosofia non dovrebbe essere concepita e neppure insegnata. È errato – afferma Bergson – ridurre un nuovo orientamento filosofico ad un «assemblaggio» di idee preesistenti, ad un «lavoro di mosaico»; così ci si illude di spiegare una filosofia con l’ambiente, ossia con ciò che fu attorno ad essa. Certamente un pensiero nuovo deve manifestarsi, per forza di cose, attraverso le idee che incontra davanti a sé e che trascina nel suo movimento; in questo senso, esso può apparire relativo all’epoca in cui il filosofo è vissuto. Ma una veduta del genere non considera che «le cose già dette da altri filosofi il filosofo le pensa a modo suo» e che «non si può confondere la materia, di cui il filosofo doveva servirsi per dar forma concreta al suo pensiero, con l’elemento costitutivo della sua dottrina» (La pensée et le mouvant, 1349). Orbene, l’elemento costitutivo di una dottrina, il suo significato profondo altro non è che l’intuizione originale che ne costituisce il cuore o, se si vuole, il punto di forza. Afferrare l’intuizione che anima dal di dentro una filosofia è la prima e la più importante condizione per intenderla e per insegnarla con il rigore e la passione disinteressata che essa esige. Non ci si deve, però, dimenticare di un paio di cose. La prima è che «un filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una cosa sola: meglio, ha cercato di dirla piuttosto che dirla veramente» (ibid., 1350). E la seconda: la filosofia è una forma di sapere in cui l’approfondimento va di pari passo con la semplificazione. «Occorre che la complicazione della lettera non faccia perdere di vista la semplicità dello spirito» (ibid., 1345).
NOTA
Testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.