L’evoluzione creatrice

  1. «NON SIAMO SOLTANTO NOI A DURARE» – CRITICA DEL MECCANICISMO E DEL FINALISMO

Il Saggio sui dati immediati della coscienza e Materia e memoria rappresentano una tappa intermedia tra una filosofia della natura spuria, quella di Spencer, e una autentica, quella dell’Evoluzione creatrice. La critica della nozione di tempo scientifico fa tutt’uno in Bergson con la scoperta della durata, che è il fatto primario e innegabile, il dato immediato della coscienza. Di qui, come abbiamo visto, quell’inversione dell’evidenza che il bergsonismo ci suggerisce nella sua prima opera: l’assolutamente certo e il colmo della positività non è ciò che è spaziale, tangibile e visibile, ma l’io che vive sente intende e vuole, l’io che dura nel mutamento. Tuttavia Bergson si guardò bene dal rimanere prigioniero della verità conquistata, se già nel Saggio scriveva: «Noi proviamo una difficoltà incredibile a rappresentarci la durata nella sua purezza originale e ciò, senza dubbio, dipende dal fatto che non siamo soltanto noi a durare» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres, Édition du Centenaire, PUF, 1959, 19702, 71). E ancora: «Sentiamo, è vero, che se le cose non durano come noi, ci deve essere in esse qualche incomprensibile ragione per cui i fenomeni sembrano succedersi e non dispiegarsi tutti in una volta» (ibid., 137). A quegli interrogativi Bergson risponderà nell’Evoluzione creatrice, che è del 1907, a distanza di diciotto anni, estendendo all’intero universo, ed in particolare al vivente, il principio della durata, la quale appare, pertanto, come «coestensiva alla vita» e all’«esistenza in generale».

Nell’Introduzione alla metafisica, del 1903, si legge: «La coscienza che abbiamo della nostra propria persona, nel suo continuo scorrere, ci introduce all’interno di una realtà sul modello della quale dobbiamo raffigurarci le altre» (La pensée et le mouvant, 1420). Sarà questa la tesi di fondo dell’Evoluzione creatrice, formulata espressamente all’inizio dell’opera: «L’esistenza di cui siamo più certi, e che conosciamo meglio, è incontestabilmente la nostra: di ogni altro oggetto abbiamo una nozione che può essere considerata esteriore e superficiale, mentre noi ci percepiamo da noi stessi interiormente, profondamente. Che cosa allora noi constatiamo? Qual è, in questo caso privilegiato, il senso preciso della parola esistere?» (L’Évolution créatrice, 495). E qualche pagina dopo: «Cercando il senso preciso della parola esistere, troviamo che, per un essere cosciente l’esistere consiste nel mutare, il mutare nel maturarsi, il maturarsi nel creare indefinitamente se stessi. Si può dire altrettanto dell’esistenza in generale?» (ibid., 500). La risposta è sì: «l’universo dura» (ibid., 503) e «la successione è un fatto innegabile anche nel mondo materiale» (ibid., 502). A veder bene, anche il fenomeno più umile riempie un intervallo di tempo che nessuno può omettere o saltare, e neppure accorciare: «Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata, non c’è scampo: devo aspettare che lo zucchero fonda. Questa piccola circostanza è ricca di insegnamenti. Il tempo che devo aspettare, infatti, non è più quel tempo matematico capace di misurare altrettanto bene l’intera storia del mondo materiale, anche se questa fosse spiegata d’un sol tratto nello spazio: esso coincide con la mia impazienza, cioè con una certa parte della durata mia propria, che non è allungabile né accorciabile a volontà. Non è più qualcosa di pensato, ma di vissuto» (ibid., 502).

L’Evoluzione creatrice, prima di esporre la teoria dello slancio vitale, sviluppa un’originale, vigorosa critica del meccanicismo pseudo-evoluzionistico e del finalismo radicale. «La filosofia della vita in cui ci siamo incamminati – dichiara Bergson – pretende di oltrepassare insieme il meccanicismo e il finalismo» (ibid., 537). Il meccanicismo è uno schema mentale tipico di qualsiasi visione del mondo che escluda ogni reale divenire, poiché riduce il mutamento a una giustapposizione di elementi considerati immutabili, i quali a loro volta possono produrre solo cambiamenti di posizione. Per questo Bergson non è riuscito mai a capacitarsi del fatto che esso sia stato assunto a premessa delle teorie evoluzionistiche. «Noi non comprendiamo – scrive il Nostro – come l’ipotesi evoluzionistica abbia potuto, di norma, essere considerata connessa a una concezione meccanicistica della vita» (ibid., 526). Ed è proprio su questo punto che il filosofo francese opera un rovesciamento dell’argomentazione dal pro al contro: «Si può provare mediante i fatti l’insufficienza del meccanicismo? Ebbene se questa dimostrazione è possibile, lo è a condizione che ci si collochi francamente nell’ipotesi evoluzionistica» (ibid., 539).

La realtà è in continua evoluzione, «la vita si sviluppa e dura» (ibid., 538): ecco la verità posta in forte evidenza da Lamarck, Darwin, Spencer (1). Ma l’evoluzione può essere spiegata con il meccanicismo, i cui postulati sono impotenti a render conto di se stessi e del cammino della vita nell’universo? È certamente paradossale che siano proprio i teorici dell’evoluzione a rendere impensabile il processo evolutivo: essi, infatti, soggiacciono senza saperlo al presupposto parmenideo quando non solo incorporano alle loro ipotesi il meccanicismo, malo collegano al principio di conservazione dell’energia, indebitamente estrapolato dalla teoria del calore ed eretto ad assioma universale, a suprema invariabile nel succedersi dei fenomeni. Ma se nulla si crea e nulla si distrugge, prima o poi ci si accorge che l’evoluzione di cui si parla diventa una tesi insostenibile e una vana parvenza. Il primo principio della termodinamica è così l’ultimo travestimento dell’immobilismo parmenideo. Il principio di conservazione dell’energia ha un suo posto di rilievo nella storia delle scienze della natura, ma conserva un valore solo se rapportato ad un sistema che si suppone chiuso. Esso serve a costituire una teoria meccanica del calore, ma non ha alcuna validità nello studio dei fenomeni fisiologici e psicologici; né è applicabile laddove la durata, per il fatto stesso di esserci, rende inconcepibile l’ipotesi della reversibilità. Se il primo principio della termodinamica si applica a ciò che appare intercambiabile in energie di tipo diverso (cinetiche, termiche, elettriche, ecc.), il secondo principio, formulato da Carnot e Clausius, non solo attesta in termini matematici un fenomeno reale, ma «ci addita, senza interposti Simboli e artifici di sorta, il senso di un avvenimento, la direzione in cui va il mondo» (ibid., 701). La legge di degradazione dell’energia non riguarda, infatti, un sistema chiuso di forze intercambiabili: è una veduta generale colta sulla natura delle cose, secondo la quale l’universo è una storia, reale è il suo mutamento, irreversibile il processo evolutivo – anche se strutturalmente dialettico, in quanto misto a inversioni di tendenza ed esposto di continuo a regressi, arresti, incidenti di ogni genere. Insomma, se il primo principio della termodinamica ci informa sul rapporto di una parte con un’altra, all’interno di un sistema chiuso, il principio CarnotClausius ci informa sulla natura del tutto. In questo senso si può affermare che è «tra le leggi fisiche la più metafisica».

Bergson motiva anche con altre ragioni il rifiuto del meccanicismo radicale (2). La prima di esse è che il meccanicismo, utile per il dominio pratico di fenomeni adatti a entrare negli schemi della causalità fisica e del tempo spazializzato, non può estendere la sua portata ad altri fenomeni che in quello schema non entrano affatto. Per il meccanicismo ciò che viene dopo è semplicemente un aggiustamento casuale di ciò che c’era prima. La sua spiegazione del mutamento, e dello stesso processo evolutivo, è pertanto di tipo «caleidoscopico» (ibid., 754). Nel caleidoscopio, infatti, una figura segue l’altra, ma i pezzi di vetro combinati in modo diverso sono sempre gli stessi. Il meccanicismo, inoltre, non prende neppure in considerazione il fatto ‘che anche nel caleidoscopio non vi può essere successione di una figura all’altra senza una «scossa», la quale introduce pur sempre un elemento di discontinuità. Esso ha, infatti, la mania della continuità e si adopera senza sosta a otturare buchi e a colmare lacune, sino a inventarsi finte transizioni pur di completare la serie dei termini medi; la natura, però, è ben lontana dal fornire tutti gli anelli della catena con cui ci si vorrebbe sbarazzare della diversità che ci circonda.

Vi è nel primo capitolo dell’Evoluzione creatrice una pagina particolarmente perspicua, in cui Bergson inquadra la questione del meccanicismo nei suoi termini essenziali. È un testo che va riportato così come l’Autore lo pensò e lo scrisse. «L’essenza delle spiegazioni meccaniche – scrive il Nostro – consiste nel considerare passato e avvenire come calcolabili in funzione del presente, e nell’ammettere, quindi, che tutto è dato. In tale ipotesi, passato, presente e avvenire potrebbero essere scorti d’un sol tratto da una intelligenza sovrumana capace di eseguire il calcolo. Gli scienziati che hanno creduto all’universalità e alla perfetta oggettività delle spiegazioni meccaniche hanno fatto, coscientemente o no, un’ipotesi di questo genere. Laplace la formulava già con la massima precisione: “Un’intelligenza che, per un istante dato, conoscesse tutte le forze di cui è animata la natura, e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse, altresì, abbastanza vasta per sottoporre all’analisi questi dati, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del minimo atomo. Nulla sarebbe incerto per essa, e l’avvenire come il passato sarebbero presenti ai suoi occhi…” In una dottrina siffatta si parla ancora del tempo, se ne pronunzia il nome: ma non si pensa, in realtà, alla cosa, perché il tempo vi appare sprovvisto di efficacia e, non facendovi nulla, non è nulla. Il meccanicismo radicale implica una metafisica in cui la totalità del reale è posta in blocco, nell’eternità, e la durata apparente delle cose non fa che esprimere la debolezza d’uno spirito incapace di conoscere tutto in una volta. Mala durata è ben altra cosa per la nostra coscienza, ossia per ciò che vi è di più indiscutibile nella nostra esperienza… Essa è il fondo del nostro essere e, ben lo sentiamo, la sostanza stessa delle cose con cui siamo in comunicazione. Invano ci si fa brillare davanti agli occhi il miraggio di una matematica universale: non si può sacrificare l’esperienza alle pretese di un sistema. Per questa ragione respingiamo il meccanicismo radicale» (ibid., 426-28).

A conferma di queste sue radicate convinzioni, nella lettera a Höffding, qualche anno dopo, Bergson scriverà: «L’argomento essenziale che oppongo al meccanicismo in biologia è che esso non spiega come la vita svolga una storia, una successione dove non c’è ripetizione, dove ogni momento è unico e porta in sé la rappresentazione del passato… Colui che ha afferrato l’intuizione della durata non potrà mai più credere al meccanicismo universale; perché, nell’ipotesi meccanicistica, il tempo reale diventa inutile, e anche impossibile. Ora la durata è il più indiscutibile dei fatti per colui che si è posto in essa. Per questo io dico che essa ci fornisce una confutazione empirica, definitiva, della filosofia meccanicistica» (Écrits et paroles II, 456-57).

Se l’evoluzione della vita è tutt’altro che una serie di adattamenti a circostanze accidentali, essa non è neppure la realizzazione di un piano come, invece, sostiene il finalismo che, in tal senso, è solo «un meccanicismo alla rovescia» (ibid., 528). La dottrina della finalità, nella sua forma estrema quale la troviamo in Leibniz, implica che le cose e gli esseri non facciano altro che realizzare un programma inscritto nella loro natura. «Ma se non vi è nulla di imprevisto, se non vi è alcuna invenzione o creazione nell’universo, il tempo, di nuovo, diviene inutile. Anche qui, come nell’ipotesi meccanicistica, si suppone che tutto sia dato» (ibid., 528). Insomma, il finalismo, assoggettando la vita all’esecuzione di un programma «pre-stabilito», sotto qualunque forma venga concepito questo programma, esaurisce in anticipo il movimento della vita: installando l’immaginazione nel prima-di-essere, il finalismo fa sì che il ciò-che-si-va-facendo venga concepito come il già fatto.

Per Bergson i punti di vista del meccanicismo e del finalismo sono, in fondo, i punti di vista a cui l’intelligenza è stata condotta dall’osservazione dei modi in cui si esplica il lavoro dell’uomo. Un piano è un termine fissato ad un lavoro: esso disegna e per ciò stesso chiude la forma dell’avvenire. Nulla, però, ci autorizza a supporre che la vita, o l’Artefice della natura, lavori allo stesso modo di chi fabbrica una casa, facendo seguire l’esecuzione al progetto. Noi concepiamo il possibile come precedente nel tempo la sua realizzazione, ma il tempo crea sia il possibile che il reale e, contrariamente alle apparenze, crea il possibile dopo il reale. Solo quando il reale si è già prodotto, noi diciamo che è possibile. E lo proiettiamo retrospettivamente nel passato dove immaginiamo che esso fosse virtualmente preesistente all’atto che lo realizza. Bergson approfondirà genialmente la denuncia della cosiddetta «illusione retrospettiva» nel saggio Il possibile e il reale, pubblicato nel 1930 e incluso quattro anni dopo nel volume Il pensiero e il diveniente. In quello scritto Bergson osserva con ironia: dire che il reale è il possibile al quale è stato aggiunto qualcosa, che è precisamente l’esistenza, è come se noi dicessimo, osservando l’immagine di un uomo nello specchio, che l’uomo altro non è che quell’immagine con lo spessore in più, come se non sapessimo che l’immagine presuppone l’uomo, poi lo specchio. Noi pensiamo che l’Amleto sarebbe stato possibile crearlo, ma solo dopo che Shakespeare lo creò. Non ha senso, infatti, pensare ad un’opera d’arte possibile prima di essere realizzata. In che cosa mai consisterebbe, infatti, questa possibilità? Nell’idea incerta e nebulosa che l’artista portava in sé prima di mettersi all’opera? Ma è proprio di questa idea che egli cerca d’impadronirsi agendo, ed essa diventa precisa e completa solo nel compiersi dell’opera (La pensée et le mouvant, 1341-42).

Bergson ricorda come il finalismo, anche nelle forme più attenuate, teorizzi una sorta di armonia prestabilita, in cui regna dappertutto l’ordine; ma è una tesi difficilmente sostenibile. «I fatti, interrogati, testimoniano altrettanto bene il contrario. La natura mette gli esseri viventi alle prese l’uno con l’altro: ci presenta dappertutto il disordine accanto all’ordine, il regresso accanto al progresso» (ibid., 529). Tuttavia lo stupore ci afferra dinanzi alla realtà degli organismi – si pensi alla formazione dell’occhio – e al lavoro di organizzazione della vita che li ha prodotti. Tutto questo ci obbliga a ripensare la finalità, anche se in modi radicalmente diversi dagli schemi della metafisica classica e di Leibniz? A1 riguardo Bergson ammette che «la dottrina delle cause finali non sarà mai confutata definitivamente», perché il suo principio è assai agile ed è di così vasta applicazione che, appena si respinga il meccanicismo puro, se ne accetta già qualcosa. «La tesi di questo libro scrive Bergson – parteciperà dunque, inevitabilmente, del finalismo, in qualche misura. Per questo occorre indicare con precisione ciò che vogliamo prendere e ciò che vogliamo lasciare di tale dottrina» (ibid.).

  1. LO SLANCIO VITALE E IL MOVIMENTO DI DIFFERENZIAZIONE – LA GENESI DELLA MATERIA – IL DUPLICE RITMO DI ASCESA E DISCESA

L’ipotesi di Bergson è che la vita possa essere paragonata a uno slancio. Come ogni immagine, anche quella dello «slancio vitale» è del tutto inadeguata a esprimere le realtà, ma non ve n’è un’altra che renda l’idea con maggior approssimazione (L’Évolution créatrice, 713). Lo slancio vitale è flusso, movimento, forza propulsiva, vis a tergo che spinge la vita a evolversi differenziandosi (3). «L’essenza di una tendenza vitale è di svilupparsi in forma di fascio, creando, con il solo fatto del suo accrescersi, delle direzioni divergenti fra le quali si dividerà lo slancio» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1225). Le direzioni in cui si incammina lo slancio sono molteplici e l’evoluzione passa in primo luogo attraverso lo svolgersi di quelle direzioni: uno svolgimento che, là dove ha successo, consegue l’effetto di produrre una crescente eterogeneità qualitativa. La vita, insomma, procede «per dissociazione e sdoppiamento» (L’Évolution créatrice, 571), «per dicotomia» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1226). Lo slancio vitale è unità semplice, totalità originariamente indivisa, immensa virtualità; ma esso si manifesta solo differenziandosi, dividendosi, generando linee divergenti di attualizzazione. Nel manifestarsi lo slancio deve fare i conti con l’ostacolo che incontra, entrando in rapporto con la materialità che attraversa e con il genere di estensione che contrae. L’ostacolo mette continuamente alla prova le capacità inventive della vita, la quale conosce pure i suoi scacchi; ma è ben essa, almeno nelle linee in cui riesce vittoriosa, a produrre funzioni e organismi, specie e individui a un tempo sommamente semplici e infinitamente complessi. La vita ci costringe a pensare in termini nuovi la nozione di finalità, essendo del tutto inutilizzabile nei confronti degli organismi il modello della «fabbricazione», suggerito dal modo di lavorare dell’intelligenza. «Come si fa a supporre – osserva Bergson – che delle cause accidentali, che si presentano in un ordine accidentale, abbiano portato per parecchie volte allo stesso risultato, essendo esse infinitamente numerose e il loro effetto infinitamente complesso?» (L’Évolution créatrice, 541) (4). Insomma, «tutto avviene come se nella materia fosse penetrata una larga corrente di coscienza, carica, come ogni coscienza, di una molteplicità enorme di virtualità che si compenetrano reciprocamente» (ibid., 649). Il percorso dell’Evoluzione creatrice sembra essere condensato in queste parole: «se le nostre analisi sono esatte, all’origine della vita si trova la coscienza, o meglio la sovracoscienza (supraconscience)» (ibid., 716).

Lo slancio dà luogo allo sviluppo evolutivo, dividendosi, e Bergson individua a più riprese il principio che «divide e precisa» (L’énergie spirituelle, 22) nella materia. Ma come concepire la materia? È forse qualcosa originariamente contrapposto allo slancio e preesistente ad esso? Se così fosse, Bergson non sfuggirebbe al dualismo. A veder bene, però, egli indica una soluzione ben diversa. La materia fa parte dello slancio vitale come una delle sue immense virtualità; è una virtualità la cui realizzazione è necessaria alla corrente della vita e della coscienza che la determina, l’attraversa e la abita in modi radicalmente diversi. La materia assolve così il ruolo di collaboratrice essenziale nella storia della vita: essa provoca, infatti, lo sforzo e l’inventiva che occorrono per creare esseri sempre più perfetti, sempre più caratterizzati dall’affermarsi della coscienza e della libertà.

Per un altro verso, però, la materia appare come un «risultato» a cui mette capo l’inversione dello slancio medesimo: un’inversione che è originata dal suo rallentamento, una sorta di entropia che accompagna ogni calo di tensione e che, al limite estremo, conduce all’estensione frammentata dell’inorganico. In questo senso, e solo in questo, la materia assume una connotazione negativa. I1 rischio è che, avvolgendosi intorno alla coscienza, la pieghi ai propri automatismi e la ricacci nell’incoscienza. Automatismo e incoscienza sono la regola per il mondo vegetale; nel mondo animale la coscienza si desta in rapporto allo sforzo richiesto dal movimento e dai bisogni istintivi da soddisfare. Nell’uomo la coscienza emerge al punto di dominare la materia, piegarla ai suoi fini e persino opporle resistenza; ma anche nell’uomo essa tende ad addormentarsi, e allora la vita si svuota di senso. Ciascuno di noi può verificare su se stesso questa legge che vale per la coscienza in generale: quanto più avanzano gli automatismi, tanto più la coscienza si ritrae, fino a spegnersi.

Il bergsonismo non cessa mai di denunciare il pericolo dell’alienazione, alla quale bisogna contrapporsi con tutte le forze. Rimane comunque stabilito – ed è addirittura un motivo ricorrente per Bergson – che il mondo non è affatto una caduta e una degenerazione: basta, infatti, rimettere i termini attuali nel movimento che li produce, riferirli alla virtualità che in essi si attualizza, per vedere che la differenziazione dall’unità originaria non è mai una negazione, ma una creazione continua, cioè qualcosa di eminentemente positivo. In questo spirito si comprende la travolgente chiusa del secondo capitolo dell’Evoluzione creatrice, che fa pensare alla wagneriana cavalcata delle Valchirie: «L’animale si appoggia sulla pianta, l’uomo cavalca l’animalità; e l’umanità intera, nello spazio e nel tempo, è un immenso esercito che galoppa a fianco di ognuno di noi, dietro e davanti a noi, in una carica trascinante, capace di sfondare tutte le resistenze e di superare molti ostacoli: forse, la stessa morte» (L’Évolution créatrice, 725).

Le immagini bergsoniane dell’evoluzione stanno a indicare due movimenti, uno discendente, l’altro ascendente. Il primo è simile a una molla che si distende, o a un gomitolo che si svolge; il secondo corrisponde a un lavoro interiore di maturazione o di creazione, e impone il suo ritmo all’altro, da cui è inseparabile (ibid., 503). II primo movimento porta alla materia, il secondo alla coscienza. Ma quel che è più consiste precisamente nel fatto che l’uno è nell’altro: «Fattività vitale è una realtà che si fa attraverso la realtà che si disfa» (ibid., 705). La vittoria della vita e della coscienza, infatti, si compie solo quando essa riesce a «trascinare con sé l’ostacolo, che potrà appesantire la sua marcia, ma non fermarla» (ibid., 723). L’estensione, però, in cui lo slancio tende a disperdersi non è mai totale e quindi la materia non è mai totalmente inorganica. All’estensione si oppone la tensione, costitutiva di ogni specie di durata, da quella del più umile dei viventi alla coscienza dell’io. Tensione ed estensione sono due movimenti inversi, ma l’uno e l’altro al loro interno ammettono una molteplicità di gradi e, quindi, un duplice movimento di concentrazione e di rilassamento. Sembra quasi che nel ritmo ascesa-discesa, tensione-estensione sia come nella composizione musicale, in cui ciascuno dei due movimenti antagonistici contrasta l’altro e si alterna ad esso, ma l’uno richiama di continuo l’altro, senza di cui non sarebbe quello che è. La tendenza inversa allo slancio fornisce il contrappeso necessario alla tendenza ascensionale, ma, nell’atto di zavorrarla, la abilita a fare la sua parte. Ancora una volta Bergson si rifiuta di trasformare la dualità, in cui si esprime il dinamismo del reale, in uno dei soliti dualismi manichei, assurdi e ingombranti, che servono solo a generare problemi insolubili.

  1. L’UNITÀ DEI VIVENTI E IL POSTO DELL’UOMO NEL COSMO

Poiché il movimento della vita non è rettilineo ed uniforme, ma irradiante e pluridimensionale, i viventi non possono essere disposti lungo una serie, come tanti numeri collocati in ordine progressivo. Ci sono indubbiamente transizioni nel processo evolutivo, ma questo è fatto essenzialmente di discontinuità profonde e tendenze divergenti. Queste possono anche produrre lotte innumerevoli e disarmonie impressionanti (5), tuttavia nel loro insieme restano profondamente complementari, capaci cioè di produrre risultati armoniosi. La relazione tra le specie appare, perciò, non una filiazione, ma piuttosto una parentela. Vi è, insomma, tra esse una cert’aria di famiglia. Non deve, pertanto, stupire se, essendo unico l’impulso vitale che si trasmette nel tempo e nello spazio all’intero ciclo delle generazioni viventi, la semplice classificazione dei generi e delle specie assuma, sia per il fissista Linneo che per un evoluzionista, la forma di un albero genealogico.

Sorge una domanda: la vita come movimento non si nega quando si produce una specie nella sua forma definita? La specie non è forse un arresto del movimento della vita? Per Bergson «ogni specie sarà pure un arresto, ma ad ogni arresto è stata raggiunta una combinazione perfetta nel suo genere» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1082). Lo slancio vitale non è onnipotente, non vince tutte le sfide, ma ha pur sempre generato qualcosa di stupefacente, un’infinità di mondi e di viventi, passando con un successo sbalorditivo almeno lungo tre linee dell’evoluzione: le piante, gli animali, l’uomo. La sua prima biforcazione fondamentale è quella che ha dato origine da un lato alla pianta, dall’altro all’animale. Il vegetale è caratterizzato dalla capacità di fabbricare le sostanze organiche con i minerali tratti dalla terra, sotto l’azione del sole: è la fotosintesi clorofilliana. Gli animali, obbligati a muoversi per cercare il loro nutrimento e per soddisfare i loro istinti, si sono evoluti nel senso dell’attività locomotrice, aprendosi a un certo livello di coscienza. Neppure la vita animale si è sviluppata lungo una linea unica. L’evoluzione ha conseguito il più alto risultato lungo la linea degli artropodi e quella dei vertebrati: gli artropodi hanno raggiunto il punto culminante negli imenotteri, con le api e le formiche; i vertebrati con l’uomo. Nella prima direzione il processo si è diretto verso l’istinto, nella seconda verso l’intelligenza. La filosofia della natura è chiamata a dar conto del processo evolutivo in cui l’unità dei viventi e le loro analogie siano affermate senza per questo che siano negate le differenze qualitative, o di natura, esistenti. L’errore capitale, trasmessoci da Aristotele e che ha viziato quasi tutte le filosofie della natura, è di vedere nella vita vegetativa, nella vita istintiva e nella vita razionale tre gradi successivi dello sviluppo di una stessa tendenza, mentre esse sono tre tendenze divergenti di un’attività che si è scissa nel manifestarsi.

È in quest’ottica che si pone il problema del passaggio dall’animalità all’umanità: esso è propriamente non un passaggio, ma un salto. «A seguire il filo conduttore dei fatti e delle analogie si arriva a un’evoluzione discontinua che procede per salti» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1082). Niente ci dice che «la specie umana non sia dovuta a più salti nella medesima direzione, che si siano realizzati, qua e là, in una specie anteriore, e siano culminati in esemplari di umanità assai differenti… Le molteplici variazioni che caratterizzano ciascun esemplare sono perfettamente coordinate le une alle altre, ma forse non tutte si equivalgono in quanto i salti non avrebbero superato la stessa distanza. Questi avevano tuttavia la stessa direzione» (ibid., 1073). «Del resto che la specie umana sia uscita o no da un unico ceppo, che ci siano o no uno o diversi esemplari irriducibili di umanità, poco importa: l’uomo presenta sempre due tratti essenziali, l’intelligenza e la socialità» (ibid.).

L’intelligenza, che sembra fatta apposta per superare difficoltà, chiede agli individui sforzi sempre nuovi per mantenere le precedenti conquiste, giacché rimane contraddetta dall’esperienza l’eredità dei caratteri acquisiti e ciò che una generazione ha appreso le generazioni successive devono apprenderlo di nuovo. Entrando nella scena del mondo, l’uomo dava inizio così a un’altra evoluzione, incomparabilmente più rapida rispetto a quella biologica, l’evoluzione storica e culturale, destinata a rendere incolmabile la differenza di natura fra l’uomo e i suoi «utili compagni di viaggio» (ibid., 721). «Come non restare colpiti – scrive Bergson – dal fatto che l’uomo è capace di imparare qualsiasi esercizio, di fabbricare qualsiasi oggetto, di acquisire qualsiasi abitudine motrice, mentre anche nell’animale meglio dotato la facoltà di combinare movimenti nuovi è strettamente limitata? Il tratto caratteristico del cervello umano è questo. Il cervello umano è fatto, come ogni cervello, per montare meccanismi motori e lasciarci scegliere tra essi, in un momento qualsiasi, quello da mettere in movimento premendo un grilletto: ma esso differisce dagli altri cervelli in quanto il numero di meccanismi che può montare e, conseguentemente, il numero di scatti tra cui scegliere, è indefinito: ora, dal limitato all’illimitato vi è tutta la distanza che intercorre tra il chiuso e l’aperto. Non è più una differenza di grado, ma di natura» (ibid., 718). Il cervello dell’uomo, infatti, ha un bel somigliare a quello dell’animale; la sua particolarità è di fornire il mezzo per opporre ad ogni abitudine contratta un’altra abitudine, e ad ogni automatismo un automatismo antagonista. Così la libertà si afferma e la materia diviene suo strumento.

La diversità fra la coscienza dell’animale più intelligente e la coscienza umana è radicale. «Nell’animale l’invenzione non è mai altro che una variazione su un tema già noto (variation sur le thème de la routine, ibid.)». Chiuso nelle abitudini della specie, l’animale arriva certamente ad allargarle per mezzo della sua iniziativa individuale, ma non sfugge all’automatismo se non per un istante, per il tempo necessario a stabilire un automatismo nuovo. «Le porte della prigione si richiudono per l’animale non appena riaperte; tirando la sua catena, esso non riesce che ad allungarla. Con l’uomo, la coscienza spezza la catena. Nell’uomo, e nell’uomo soltanto, la coscienza si libera» (ibid., 718-19). Il senso della storia cosmica e umana narrata da Bergson sembra essere racchiuso in questa metafora: «Dal trampolino sul quale la vita ha preso il suo slancio, tutti gli altri esseri viventi sono discesi, trovandolo troppo alto. Soltanto l’uomo ha saltato l’ostacolo» (ibid., 720). Proprio per questo l’uomo può dirsi il «fine» dell’evoluzione, la sua «ragion d’essere».

  1. I PROBLEMI LASCIATI APERTI

I problemi lasciati aperti dall’Evoluzione creatrice sono lì a indicare prospettive e direzioni dell’ulteriore ricerca. L’evoluzione non è più creatrice di specie, ma questo fatto che cosa sta a significare? Lo slancio vitale si è esaurito con l’uomo, pur continuando attraverso la generazione a legare l’uno all’altro gli individui e le specie, oppure con l’uomo qualcosa finisce perché un’altra cominci? L’uomo è «la fine» della creazione, o lo slancio che gli ha permesso di saltare l’ostacolo prosegue all’interno dell’umanità? E in che modo? L’altra domanda che si pone è se lo slancio vitale rinvia o meno a una Sorgente e, in caso affermativo, se si identifica con essa o se ne distingue.

La risposta di Bergson arriverà solo con Le due fonti della morale e della religione, un quarto di secolo dopo l’Evoluzione creatrice. «Io non rispondo a certe questioni – diceva – perché non le ho ancora studiate. È un atto di elementare probità da parte del filosofo» (A. Adès, Adès chez Bergson, Parigi, 1949, p. 147). E ancora: «Il filosofo ai miei occhi è prima di tutto un uomo che è sempre pronto, quale che sia la sua età, a rifarsi studente» (Écrits et paroles III, 44S). Tuttavia Bergson aveva già avanzato qualcosa di più di un’ipotesi sulla realtà di Dio, nell’Introduzione alla metafi­ sica, quando aveva svolto questo ragionamento: «L’intuizione della nostra durata, lungi dal lasciarci sospesi nel vuoto come farebbe la pura analisi, ci pone in contatto con tutta una continuità di durate che dobbiamo cercar di seguire sia verso il basso che verso l’alto: in entrambi i casi ci possiamo dilatare indefinitamente, con uno sforzo sempre più violento; in entrambi i casi trascendiamo noi stessi. Nel primo, procediamo verso una durata sempre più sparpagliata, le cui pulsazioni, più rapide delle nostre, dividendo la nostra sensazione semplice, ne diluiscono la qualità in quantità: al limite avremmo il puro omogeneo, la pura ripetizione, con cui definiremo la materialità. Procedendo nel senso opposto, ci avviciniamo alla durata che si tende, si rinserra, s’intensifica sempre più: al limite, sarebbe l’eternità. Non più l’eternità concettuale che è eternità di morte, bensì un’eternità di vita» (La pensée et le mouvant, 1419). Porre il problema del «limite estremo verso l’alto» della durata è più che legittimo ed è un procedimento coerente al metodo bergsoniano; il filosofo, però, avverte che è altra cosa riconoscere positivamente l’esistenza dell’«eternità vivente». Si fa per la prima volta ricorso qui alla parola Dio. A Dio si può pensare come a «un centro da cui scaturirebbero i mondi, come i raggi di un immenso fuoco d’artificio, purché non si presenti questo centro come una cosa, bensì come un continuo zampillio». Bergson dice testualmente: «Dio, così definito, è vita incessante, azione, libertà». La nostra attività creatrice, quella che sperimentiamo in noi stessi ogni volta che agiamo liberamente, ci permette di pensare Dio come libera, incessante attività creatrice. Insomma, il Dio dell’Evoluzione creatrice è un Dio cosmico, come quello di Aristotele; ma mentre quello di Aristotele è causa del movimento e non dell’essere del mondo, il Dio di Bergson lo si riconosce, invece, nell’esercizio della sua funzione creatrice.

Le obiezioni a Bergson sul problema di Dio furono numerose, ma il nocciolo della questione fu bene espresso dal titolo del secondo articolo che il tomista Joseph de Tonquédec gli dedicò: Bergson è monista?, apparso il 20 febbraio 1912 (6). Nelle risposte di Bergson fa una confidenza e una precisazione di metodo. Bergson nel marzo 1908 dichiara che la logica intrinseca della sua filosofia porta ad escludere il monismo e il panteismo. Egli non cessa di indagare sul problema di Dio, ma nel febbraio del 1912 precisa: «Non voglio aggiungere nulla, per il momento, in quanto filosofo». Egli sa di aver accertato «il fatto della libertà» nel Saggio, «la realtà dello spirito» in Materia e memoria e «la creazione come un fatto» nell’Evoluzione creatrice. «Da tutto ciò – scrive Bergson si leva nettamente l’idea di un Dio creatore libero, che ha generato nello stesso tempo la materia e la vita», la qual cosa implica «la confutazione del monismo e del panteismo». Tuttavia queste sono soltanto delle vedute dello spirito e Bergson sente di non poter ancora parlare di quegli argomenti «in quanto filosofo». La ragione è la seguente: «Il metodo filosofico così come io lo intendo è rigorosamente ricalcato sull’esperienza interiore ed esteriore, e non permette di enunciare una conclusione che superi in qualsiasi modo le considerazioni empiriche su cui si fonda» (Écrits et paroles, 365).

NOTE

1- Nel 1809 Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) pubblicava il primo testo fondamentale dell’evoluzionismo, Filosofia zoologica, in cui si respingeva la tesi della permanente immutabilità delle specie viventi – o fissismo – sostenuta dal naturalista svedese Carlo von Linné, latinizzato Linneo (1707-1778) nella Philosophia botanica, che è del 1750, e ripresa da Georges Cuvier (1769-1832). Nel 1859 apparve L’origine della specie del naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882), che portava a sostegno dell’ipotesi evoluzionista, anche se formulata in modo diverso da Lamarck, la messe -di osservazioni raccolte fra il 1831 e il 1836 nel viaggio intorno al mondo compiuto sul brigantino «Beagle». Nella lettura lamarckiana dell’evoluzione c’è qualcosa che prelude alla teoria dello slancio vitale. La variazione che porta a una specie nuova non è predeterminata meccanicamente, non è accidentale. Vi è un’intima tendenza della natura ad adattarsi all’ambiente non solo per sopravvivere, ma per realizzare forme di vita più alte. Lo sforzo dei viventi per adattarsi all’ambiente può sviluppare gli organi più sollecitati e atrofizzare quelli non usati. È quanto sarebbe accaduto – per servirci di esemplificazioni molto discusse, malgrado la loro apparente evidenza – al collo della giraffa, costretta a strappare foglie e frutti posti sempre più in alto, e agli occhi degli animali che, come la talpa, vivono al buio. Per Darwin il passaggio da una specie all’altra si è attuato, invece, attraverso una serie di piccole, insensibili variazioni accidentali, determinate dal vario intrecciarsi di concatenazioni casuali e meccaniche. Le variazioni «fluttuanti» che diventano «dominanti» in certi individui assicurano a questi, nella lotta per l’esistenza, la vittoria sugli altri che ne sono sprovvisti e che, pertanto, tendono a scomparire. In tal modo la «selezione naturale» è prodotta automaticamente dalla «sopravvivenza del più adatto» e le differenze che hanno causato la selezione entrano attraverso il seme a far parte del patrimonio genetico. Molte osservazioni particolari di Darwin possono servire a una più completa comprensione del processo evolutivo, ma la tesi di fondo appare a Bergson francamente inaccettabile. Puntare tutto sulla «composizione del caso con il caso» non è esaminare dei fatti, ma serve solo a cacciarsi in difficoltà insormontabili (Les deux sources de la morale et de la religion, 1070). Quali che siano le differenze fra Lamarck e Darwin, entrambi «lasciano inesplicata la capacità della vita di trovare soluzioni originali ai problemi posti dalle condizioni esterne» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1071). I due massimi teorizzatoci dell’evoluzionismo «non dicono per qual ragione il movimento della vita porta l’organizzazione sempre più in alto, perché la vita è andata avanti ovunque fosse possibile, attraverso rischi sempre maggiori» (L’énergie spirituelle, 829-30). Bergson, però, non respinge quelle teorie in blocco: «ciascuna di esse, appoggiandosi a un numero considerevole di fatti, dev’essere per un qualche verso vera e corrispondere a un certo punto di vista sul processo dell’evoluzione» (L’Évolution créatrice, 567).

2- Per Bergson concepire l’evoluzione come una risultante meccanica delle circostanze equivale a scambiare l’occasione e lo strumento, senza di cui la causa non potrebbe attuarsi, con la causa stessa. È come spiegare una scia con l’acqua che la costituisce, anziché con il movimento del corpo che l’attraversa. Lo stesso concetto Bergson esprime con l’immagine di una mano che attraversa bruscamente la limatura di ferro: la semplicità di quell’atto non può essere colta dalla giustapposizione degli innumerevoli filamenti di limatura. Il disporsi di questi è un effetto, non la loro causa. Al meccanicismo avrà ragione di rimproverare al finalismo il suo carattere antropomorfico, ma anch’esso pretende che la natura lavori allo stesso modo che l’artefice umano, cioè mettendo insieme dei pezzi» (L’Évolution créatrice, 571).

3- Bergson paragona lo slancio vitale che si divide a una granata che si frammenta al tempo stesso «per la forza esplosiva della polvere che contiene e per la resistenza che il metallo le oppone». A differenza della forza esplosiva della polvere, la spinta dinamica della vita, essendo originariamente unica, rimane presente in ogni frammento della granata. Ciascuna specie si comporta, perciò, come se il movimento generale della vita si fermasse a lei, in luogo di attraversarla: essa non pensa che a sé. «Di qui lotte innumerevoli di cui la natura è teatro; di qui una disarmonia impressionante, di cui tuttavia non dobbiamo rendere responsabile il principio della vita come tale» (L’Évolution créatrice, 711).

4-«C’è una prova della finalità: quando si scoprono, su linee divergenti, attualizzazioni simili, strutture o apparati uguali, come ad esempio l’occhio nei molluschi e nei vertebrati. L’esempio sarà tanto più significativo quanto maggiore sarà la distanza delle linee fra loro e quanto più uno stesso organo si otterrà attraverso mezzi diversi fra loro…» (G. Deleuze, Il bergsonismo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1982 p. 100).

5-Bergson denuncia l’inclinazione molto forte del nostro spirito a gridare subito allo scandalo del disordine e del male, perché giudichiamo quasi sempre «attraverso la nebbia di stati affettivi». In realtà quello che chiamiamo disordine è quasi sempre ciò che risulta dall’interferenza tra loro di due o più tipi di cordini» molto diversi (ad esempio, quello geometrico e quello vitale, l’ordine meccanico e quello originato da un atto di volontà). Altre volte è il risultato del nostro incoerente oscillare fra un tipo di considerazioni e un altro. Può anche sorgere per l’impossibilità di ricondurre ad un’unica legge, che per noi è l’«ordine», aspetti diversi di un fenomeno o più fenomeni. Se poi non si riesce a cogliere l’intreccio complesso di «ordini» molteplici, allora rifugiarsi nell’idea di disordine, invece di disporsi alle fatiche di una lunga e difficile ricerca, appare addirittura inevitabile (L’Évolution créatrice, 681-95).6- Dopo l’Evoluzione creatrice Joseph de Tonquédec si occupò della concezione bergsoniana di Dio in due articoli, pubblicati dalla rivista «Études» il 5 marzo 1908 e il 20 febbraio 1912. Bergson inviò due lettere di risposta, che apparvero sulla stessa rivista. Nella prima lettera Bergson prospetta in questi termini la posizione espressa nell’opera del 1907: «Nell’Evoluzione creatrice parlo di Dio come della sorgente (source) da cui escono, di volta in volta, per un effetto della sua libertà, le correnti o slanci ognuno dei quali formerà un mondo: egli, dunque, ne rimane distinto…» (Lettera del 12 maggio 1908 in Écrits et paroles II, 296). Lavelle accoglie senz’altro la testimonianza diretta di Bergson, che esclude un presupposto o uno sbocco monistico, e nello stesso tempo giudica che nel 1907 quella era una via che il bergsonismo avrebbe potuto imboccare, anche se ciò non avvenne.

Testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.