Le due fonti della morale e della religione

  1. LA SOCIETÀ CHIUSA E LA SUA MORALE LA RELIGIONE STATICA

Nel marzo 1932 apparve Le due fonti della morale e della religione, un’opera pensata e scritta in anni di grande sofferenza fisica. Dal punto di vista speculativo le Due fonti sono il punto d’arrivo di una lunga riflessione, durata almeno un quarto di secolo; ma quel libro è anche la testimonianza di un tenace sforzo dello spirito per vincere le resistenze di un corpo trasformatosi in ostacolo. L’argomento delle Due fonti è di estrema importanza: la condotta umana indagata dal basso (en bas), nei suoi meccanismi istintivi e impersonali, e dall’alto (en haut), nelle sue manifestazioni più splendide e nobili. Il punto di partenza, a cui del resto si fa ritorno di continuo, è un dato innegabile: l’uomo – sia in quanto membro di una società, sia in quanto individuo – ha una condotta duplice e di tale duplicità, che pascalianamente attesta la reale miseria e la reale grandezza della sua condizione, occorre render ragione. Vi è, infatti, una distanza infinita nell’arco delle possibilità umane e una «filosofia dell’esperienza integrale», quale vuol essere il bergsonismo, non può ignorare il carattere duale della nostra esistenza e la tensione costitutiva che ne consegue.

Nelle Due fonti della morale e della religione si cerca, com’è chiaramente detto nel titolo, la spiegazione dell’origine della morale di fatto, quella realmente vissuta, e non il suo fondamento teoretico. Seguendo in ciò il metodo dei sociologi, Bergson indaga non le ragioni che possono giustificare l’obbligazione morale, male sue cause essenziali e le sue forme tipiche. Queste si riducono a due: la pressione sociale e l’aspirazione. La condotta umana rinvia, dunque, da una parte, a una morale infrarazionale, che è essenzialmente di ordine sociale; dall’altra, a una morale sovrarazionale, che è essenzialmente di ordine mistico. Le due sorgenti dell’azione umana di fatto «si frammischiano e si compenetrano» (s’entremélent et se compénètrent, Les deux sources de la morale et de la religion, Oevres, Édition du Centenaire, PUF, 1959, 19702, 1047) nella condotta concretamente vissuta e anche nei sistemi di filosofia morale, che ne sono la razionalizzazione; tuttavia l’intersezione tra l’inframorale, o pressione, e il sovramorale, o aspirazione, è intelligibile solo dopo aver distinto e contrapposto quello che nella vita morale appartiene alla pressione e quello che appartiene all’aspirazione.

Vediamo in che cosa consiste e come funziona la prima di esse. La pressione sociale è l’insieme delle abitudini che sono imposte dal gruppo di cui si fa parte – attraverso il linguaggio, i costumi o modi di vivere, le istituzioni – e che, passando di generazione in generazione, finiscono con l’apparirci ereditarie. Nella prima fase della formazione delle società umane, «l’addestramento originario, quello voluto dalla natura, era automatico: consisteva nell’adozione delle abitudini del gruppo, la qual cosa si compiva da sé là dove l’individuo si sentiva per metà confuso con la collettività» (ibid., 1058). Successivamente, «la società, a misura che si differenziava per effetto della divisione del lavoro, delegava agli aggruppamenti, che si erano costituiti al suo interno, il compito di addestrare l’individuo a porsi in armonia con loro e con se stessa; ma si trattava sempre di un sistema di abitudini contratte solo a profitto della società» (ibid.). In una situazione del genere, la disciplina – intesa come attitudine di un uomo a sentirsi, a pensarsi, a voler essere perfettamente integrato nella società in cui vive – diventa l’essenza stessa della moralità. Durkheim, il sociologo francese che faceva della «mentalità collettiva» il tutto-abbracciante e il vero assoluto terreno, identificava la disciplina sociale con l’ideale morale, ravvisando in essa la virtù specifica della sola moralità praticabile all’interno delle società umane. La moralità a cui conduce la pressione sociale ha il suo modello nella «legge del formicaio e dell’alveare». L’obbligazione sociale, nel suo complesso, ha il carattere di «un imperativo assolutamente categorico», di un «si deve perché si deve» che tutto permea nelle coscienze e nell’inconscio. Il contenuto di questa morale può riassumersi in tre parole: «Autorità, gerarchia, fissità» (ibid., 1215). Sono questi, a veder bene, i pilastri su cui poggia ogni società chiusa, quale che sia l’epoca storica in cui essa trovi attuazione, anche se alle origini gli enormi ostacoli da superare e la limitata estensione del gruppo sociale di appartenenza sembrano renderla ben più plausibile che nelle cosiddette società civilizzate. Bergson, in netta polemica con l’altro famoso sociologo a lui contemporaneo, il Lévy-Bruhl, rifiuta di ammettere l’eredità dei caratteri acquisiti e mette in evidenza la nostra identità profonda, celata malamente sotto la vernice di tante differenze secondarie, con i primitivi. C’è, quindi, in noi sempre un fondo barbarico con le sue inclinazioni alla servitù, alla violenza esercitata in nome della collettività, insomma con il suo istinto di identificazione con gli imperativi sociali solidificati in abitudini. In ogni società chiusa il facile, in realtà, è fare proprio quello che essa chiede, mentre il difficile e il coraggioso è il sottrarvisi. Ma l’individuo, in fin dei conti, non rinuncia mai del tutto a correre quel rischio. Se non lo facesse, non vi sarebbe una storia umana e la vita non sarebbe un’avventura.

Bergson insiste sulla profonda relazione che c’è – e non può non esserci, dal momento che l’uomo è un animale sociale – tra l’individuo e la società: «l’individuo è nella società», ma è ugualmente vero che «la società è nell’individuo». In realtà «ciascuno di noi appartiene alla società come appartiene a se stesso» (ibid., 986). Egli esemplifica il suo pensiero, analizzando genialmente il rimorso del criminale, il caso di Robinson Crusoe «solo» su un’isola e quello della guardia forestale di cui parla Kipling in un suo racconto. Il filosofo francese ha riconosciuto che, pur mescolata a gravi errori e fraintendimenti, vi è una larga parte di verità nell’analisi positivistica della morale sociale. Quella parte di verità va inquadrata in una visione duttile e più aderente alla complessità del fenomeno umano, ma è certamente fuori strada chi crede di poter studiare la condotta umana prescindendo dall’effettivo ruolo che ha l’invasione del fattore sociale nei meccanismi e nei recessi della nostra psiche. La natura, di per sé, tende alla società chiusa, per la quale l’efficacia del vincolo sociale sembra essere assicurata tanto dall’immobilismo relativo, quanto dall’esclusione dell’«altro». Le società chiuse – dal clan tribale allo Stato totalitario del XX secolo, siano esse primitive e arretrate o provviste in grado eccezionale degli strumenti moderni della civilizzazione si somigliano tutte perché in esse la morale dominante è quella della pressione sociale e perché «hanno come essenza quella di includere, in ogni momento, un certo numero di individui e di escludere gli altri» (ibid., 1000).

Non deve sfuggire, però, che persino nella frase, prima citata, sul carattere automatico dell’adozione delle abitudini del gruppo nel primo stadio della civiltà, Bergson dice che in quel caso l’individuo «si sentiva per metà confuso con la collettività». Dunque, per l’altra metà non lo era, neppure nella società primordiale. Il fatto è che l’uomo è intelligente e l’intelligenza non è solo capacità di calcolo: è dubbio, domanda, curiosità, inventiva, gusto del rischio. Vi è nell’intelligenza un principio di inquietudine, qualcosa che scompiglia l’istinto e mette in crisi le sicurezze della società chiusa. II paradosso è che l’individuo ha bisogno del gruppo per affermare le sue potenzialità e, nello stesso tempo, ha bisogno di sottrarsi, almeno in parte, agli imperativi del gruppo. La questione sta nel vedere se la fronda nasce per motivi egoistici o da un presentimento di libertà. Ma ecco, sulla scena della vita irrompe ciò che Georg Simmel chiama «la tragedia della coscienza»: l’uomo si fa consapevole che la morte è inevitabile e che nella sua esistenza incombe ad ogni passo l’imprevedibile, e l’una e l’altro rischiano di mandare in frantumi l’ordine della società chiusa. La virile assunzione di responsabilità di fronte alla realtà della morte e all’imprevedibile sarà compito, e talora conquista, di un’umanità progredita; per ora la risposta all’angoscia e alla sfiducia nella vita è lo sfrenamento dell’egoismo. Bisogna che ci sia «una precauzione contro il pericolo che si corre, non appena si pensa, di pensare solo a se stessi?» (ibid., 1079). Ma come restaurare una coesione che l’istinto avrebbe dovuto essere sufficiente a garantire e in che modo ricollegare tra loro l’intelligenza e l’istinto? Insomma, come ridar forza all’obbligazione sociale, messa in crisi dall’intelligenza? La risposta della natura sarà la funzione fabulatrice, che genera i miti e le credenze della religione statica. La religione statica, pertanto, è una reazione difensiva contro il potere disgregatore dell’intelligenza, la paura della morte e l’imprevedibile.

«La funzione fabulatrice gioca nelle società umane un ruolo simmetrico a quello dell’istinto nelle società animali» (ibid., 1220). L’istinto di conservazione dell’individuo e della società si trovano associati nel suscitare le credenze fittizie, che surrogano i fatti, e le illusioni incoraggianti della religione statica. Lo scopo a cui tende la natura è chiaro: «la religione statica attacca l’uomo alla vita, l’individuo alla società» (ibid., 1125). Contrariamente all’affermazione di Epicuro e di Lucrezio, non è il timore all’origine della religione (ibid., 1160), ma «l’assicurazione contro il timore». C’è, però, da ricordare che una sola cosa è veramente necessaria al sorgere della religione: avvertire innanzi tutto la presenza del divino. Tale «avvertimento» non è per forza di cose congiunto all’attività della funzione fabulatrice e autorizza a pensare che il monoteismo preesista in qualche modo al politeismo, o che si celi al fondo di esso. In ogni caso, per la rilevanza che storicamente il fenomeno ha assunto, l’invasione del sociale e l’urgere delle sue drammatiche richieste hanno fatto sì che l’apertura religiosa, strutturalmente coestensiva alla nostra specie, fosse innanzi tutto occupata dalla «religione della città». Nella religione statica, infatti, gli dei appartengono in modo esclusivo alla città, solo ad essa riservano la loro protezione e dell’orgoglio della collettività costituiscono il fondamento. La proliferazione degli dei, anche all’interno di una stessa collettività, dipende dalla fantasticheria dei popoli, la quale non conosce limiti; ma per quella via passa anche il processo di degenerazione per cui la religione statica arriva a produrre vere e proprie crudeltà, riti assurdi e aberranti. A1 di là dei servizi utili resi all’individuo e alla società e delle degenerazioni che l’hanno abbrutita, la religione statica rappresenta, dunque, il fenomeno religioso al livello inferiore (en bas), quello a cui nelle loro analisi si sono fermati, o a cui hanno tutto ricondotto, Feuerbach, Marx, Nietzsche e Freud.

La morale della città e la religione statica esercitano un peso enorme nella nostra esistenza e tuttavia l’uomo non sarà mai del tutto assimilabile a un meccanismo di imperativi e abitudini che, al loro limite estremo, lo porterebbero ad assomigliare a una formica o a un’ape. La differenza viene dal fatto che quanto in noi vi è di «istintivo e sonnambolico» (ibid., 996) non è tutto l’uomo, né ciò che vi è di più specificamente umano in lui. Nelle società degli artropodi ogni regola, essendo imposta dalla natura, è necessaria; ne consegue che la loro organizzazione è invariabile. Nelle società umane, invece, «una sola cosa è naturale, la necessità di una regola» (ibid., 997). Ciò vuol dire che, prima o poi, in un modo piuttosto che nell’altro, il giudizio dell’intelligenza si porta sulle stesse regole e che l’organizzazione della città, anche quando è bloccata, è pur sempre «di forma variabile» e, dunque, solo relativamente immobile. II complesso delle abitudini sociali certamente tende, in ciò che ha di imperioso, ad avvicinarsi all’istinto; ma l’istinto non ha obblighi di sorta e le abitudini non possono trasmettersi per via ereditaria e trasformarsi in istinti. Perché una società riesca a superare gli ostacoli che ne minacciano la sopravvivenza «è necessario che ci siano degli obblighi»; ma per quanto condizionato dalla collettività, «un essere si sente obbligato solo se è libero e ogni obbligo, preso a sé, implica la libertà» (ibid., 999). Nel mondo formato dagli uomini «la vita, per realizzare certi fini, esige l’intelligenza, la scelta e, per conseguenza, la libertà» (ibid.).

La morale della pressione sociale e la religione statica hanno pure le loro «virtù»: insegnano a sottomettere a una disciplina i bisogni dei singoli e dei gruppi; inculcano il civismo, cioè il senso di appartenenza ad una collettività e la coscienza degli obblighi che ne derivano, l’amore del lavoro, l’onestà come valore sociale, la devozione al gruppo familiare. Ma queste «virtù» – che stranamente sembrano tanto simili a quelle di una certa visione borghese della vita quale si è sviluppata negli ultimi secoli – non rischiano di tramutarsi in «vizi», innanzi tutto a causa della ristrettezza dell’orizzonte in cui sono inscritte? Mancano ad esse, inoltre, quell’universalità e quel primato dell’intenzione disinteressata necessari a rendere moralmente buona un’azione o una condotta. Quelle «virtù», comunque, non possono prometterci che il benessere (le bien-être), o tutt’al più il piacere (le plaisir), insomma ciò che accompagna il buon funzionamento della vita. «Il piacere, infatti, non è che un artificio immaginato dalla natura per ottenere dall’essere vivente la conservazione della vita; esso non indica, però, la direzione in cui la vita si è lanciata» (L’énergie spirituelle, Oeuvres 832). Non è certo da quel tipo di morale e di religione, non è dalla società chiusa, non è con quel genere di «virtù» che potrà mai venire una ripresa dello slancio creatore nella storia dell’umanità.

  1. IL PASSAGGIO DALL’EVOLUZIONE ALLE DUE FONTI MISTICISMO E FILOSOFIA – I MISTICISMI INCOMPLETI E IL CRISTO DEI VANGELI

È stato detto molto bene che «le Due fonti non rappresentano affatto una sorta di post-scriptum religioso al bergsonismo filosofico, essendo il seguito dell’Evoluzione creatrice» (R.M., Mossé-Bastide, Bergson et Plotin, PUF, Parigi, 1959, pp. 348-49). Occorre, però, spiegare anche la transizione da un’opera all’altra e il diverso orizzonte in cui esse si collocano. Dopo L’evoluzione creatrice Bergson vede l’uomo manifestare più direttamente le sue capacità creative in due campi: l’arte e la vita morale. Nello studio dell’arte egli aveva dato buona prova, delineando un’estetica del comico nel saggio Il riso; ma l’esitazione ebbe termine dopo qualche anno e il filosofo si concentrò nell’esplorazione della condotta morale e religiosa dell’umanità. Nei corsi universitari e nelle numerose conferenze di quegli anni Bergson continua a meditare sulla morale – anche in compagnia di Plotino, Kant, Maine de Biran e William James – e muove alla ricerca di una teoria della personalità, il cui problema non esita a definire «supremo», il centro attorno al quale «gravita o dovrebbe gravitare tutta la filosofia» (Mélanges, 1051-52 e 1071). Il passaggio che porterà dall’Evoluzione alle Due fonti è così indicato in un resoconto giornalistico: «Il risultato del processo di evoluzione è il costituirsi di personalità distinte. E poiché l’azione della personalità è creatrice, ci sembra di essere autorizzati a guardare l’intero processo evolutivo come lo strumento necessario per la creazione di creatori». Così uno degli uditori riassumeva, sul periodico inglese The Scotchman Monday del 25 maggio 1914, la relazione svolta da Bergson alle Gifford Lectures, all’università di Edimburgo, su «Il problema della personalità»; e i termini sembrano essere proprio quelli del conferenziere. Qualche anno prima, nel 1911, Bergson si era chiesto: «Se in tutti i campi il trionfo della vita è la creazione, non dobbiamo supporre che la vita umana abbia la sua ragion d’essere in una creazione che può, a differenza di quella dell’artista e dello scienziato, accadere in ogni momento in tutti gli uomini?» (La coscienza e la vita in L’énergie spirituelle, Oeuvres 831). Ebbene, le opere che manifestano più puramente l’ispirazione creatrice della vita, che possono essere da tutti riprese e continuate, sono quelle che portano il sigillo del valore morale e che, perciò, concorrono in modo preminente alla crescita della nostra personalità. Non si tratta di opporre tra loro, per assegnare il primato all’una o all’altra, la morale teorica e la morale pratica. Qui si tratta solo di rapportarsi, nel modo più aderente possibile, al fatto più importante che caratterizza la vita umana: l’invenzione morale attraversa il cammino umano e, se anche a tratti non è visibile in superficie, scorre di continuo nella vita delle coscienze e nella storia, come un fiume che può divenire sotterraneo, ma che, prima o poi, riappare alla luce del sole. Le grandi anime ci fanno cogliere sul vivo, come in un’esperienza scientifica, la forza che le trasporta e le solleva, il segreto della loro capacità di irradiazione. Sono così i migliori tra noi i soli veri «superuomini»: essi non solo ci indicano dove va lo slancio vitale, ma ci mostrano di dove viene. L’itinerario che porterà alla morale dell’aspirazione e alla religione dinamica è così tracciato.

Quando la capacità inventiva dell’uomo prende la forma della bontà, dell’eroismo, dell’amore divino per l’umanità, la filosofia non può ignorare questa dimensione, che è propriamente di natura mistica, ed è anzi chiamata a render conto di essa. Se la filosofia, infatti, può acquisire una conoscenza anche approfondita di ciò che è infra-intellettuale e infra-morale, perché non dovrebbe fare altrettanto per il livello di esperienza che è sovra-intellettuale e sovra-morale, per la vita morale e religiosa al livello più alto (en haut)? La vita mistica autentica è un’esperienza reale, l’esperienza dell’unione con il Principio stesso della vita. C’è un’esperienza mistica perché individui della nostra specie lasciano passare in sé 1’«energia creatrice» e sono resi capaci di ricongiungersi alla Sorgente dell’energia creatrice (Les deux sources de la morale et de la religion, 1155).

Le obiezioni sollevate contro l’analisi filosofica dell’esperienza mistica sono addirittura dei luoghi comuni, ma non per questo risultano ben fondate. Si dice: l’esperienza dei mistici è individuale ed eccezionale, dunque non può essere indagata da altri. Ma anche le produzioni del genio, in qualsiasi campo, sono uniche e nuove e tuttavia ciò non ha mai impedito il loro studio e lo sforzo compiuto per coglierne il valore. Quando l’Africa centrale era terra incognita, Livingstone vi compì un viaggio di esplorazione; l’impresa era eccezionale, ma altri avrebbero potuto esplorare quei luoghi e Stanley lo fece. Anche il mistico compie un viaggio eccezionale, ma anche altri potrebbero ripercorrere la sua esperienza, almeno di diritto. Noi siamo per lo più nella situazione di William James, il quale dichiarava di non essere passato per degli stati mistici, ma aggiungeva che, appena si accostava a ciò che documentava quel tipo di esperienza, «qualcosa in lui faceva eco» (ibid., I 184).

A chi insiste nel dire che non si può parlare di esperienza mistica dal momento che vi sono persone del tutto chiuse al senso religioso, Bergson ribatte: «S’incontrano allo stesso modo persone per le quali la musica non è che rumore; qualcuno, anzi, si esprime con la stessa collera, con lo stesso tono di astio personale, nei confronti dei musicisti. Nessuno, però, potrà trarre da questo un argomento contro la musica» (ibid.). C’è poi un’altra considerazione da fare. I misticismi, antichi e moderni, «vanno più o meno lontano e si arrestano in un punto o nell’altro del cammino, ma indicano tutti la stessa direzione» (ibid., 1185). E vi è un accordo profondo dei mistici tra loro. Anche se appartenenti ad aree culturali e religiose lontane nel tempo e nello spazio, anche se gli uni non hanno avuto conoscenza degli altri, «nella descrizione degli stati definitivi si ritrovano le stesse espressioni, le stesse immagini, le stesse comparazioni» (ibid., 1184). È un fatto questo estremamente importante e ci induce a trarre una conclusione: «l’accordo profondo dei mistici tra loro è segno di una identità di intuizione, la quale si può spiegare nel modo più semplice con l’esistenza reale dell’Essere con cui essi si credono in comunicazione» (ibid., 1185).

Se nella sua essenza il misticismo, in qualsiasi contesto culturale e storico si inserisca, è sempre e solo un’esperienza di unione trasformante dell’anima umana con Dio, le forme in cui quell’esperienza si manifesta sono diverse. Hanno una loro tipicità categoriale quelle della Grecia e dell’Oriente, di Israele e del cristianesimo. Il raffronto tra di esse è, quindi, d’obbligo e può risultare illuminante. Brevi e dense le annotazioni sul misticismo greco (Les deux sources de la morale et de la religion, 1159-63; nel testo pp. 222-226). La filosofia greca «dette alle funzioni dialettiche dello spirito tanta forza e flessibilità che ancora oggi, per esercitare, è alla scuola dei Greci che noi dobbiamo andare». Ci sono, però, due cose da notare. «La prima è che all’origine di quel grande movimento vi fu un impulso o una scossa che non era di ordine filosofico». Basti pensare a quell’«atmosfera di mistero», anche se in un senso ancora lontano dal misticismo, nella quale «si bagnano i miti platonici». «La seconda osservazione è che la dottrina alla quale il movimento mette capo, e dove il pensiero ellenico troverà il suo compimento, pretende sorpassare la pura ragione». Plotino non è nominato, ma è di lui che si parla. Infatti con l’Autore delle Enneadi la filosofia greca perviene alla sua sintesi più ricca di dottrina e di spiritualità; ma, cosciente di non poter andar più lontano, essa pone un al di là della ragione e fa della contemplazione mistica (1) il culmine dell’ascesa dell’uomo. Ma, secondo Bergson, «a Plotino fu dato di vedere la terra promessa, non di calpestarne il suolo». Egli non andò oltre l’estasi, l’a solo a solo con Dio, per arrivare al punto in cui «la contemplazione si inabissa nell’azione e la volontà umana si confonde con la volontà divina». E si badi, non è che Plotino fosse un denigratore del mondo, uno gnostico. Tutt’altro. Solo che egli si credeva sulla vetta e andare più lontano ai suoi occhi sarebbe stato discendere. È ciò che egli ha espresso con queste parole: «l’azione è un indebolimento della contemplazione» (Enn. III, 8, 4).

C’è un uomo in Grecia, che più di ogni altro sembra preannunciare il vero misticismo: è Socrate, su cui Bergson ha scritto nel primo capitolo pagine memorabili (Les deux sources de la morale et de la religion, 1026-28; nel testo pp. 164-167). Come mai ancora oggi Socrate continua a mettere in moto gli spiriti che gli si accostano? La ragione è che, a differenza di altri filosofi, a cui si devono solenni frasi sulla comune appartenenza degli uomini a una civitas i cui confini sono quelli del mondo, il messaggio della sua vita è incomparabilmente più alto delle sue dottrine. «Il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione». Egli è un mistico, per il quale la vita è innanzi tutto un servizio da rendere a Dio. «La missione di Socrate è di ordine religioso e mistico». I1 testo più socratico di cui disponiamo, l’Apologia, è lì a documentarlo. Il limite di un così grande ed eroico testimone di Dio tra i Greci è l’intellettualismo, tipico della cultura a cui Socrate apparteneva, ma che egli contribuì anche a spingere molto oltre, proprio in campo morale.

Per eccesso di contemplazione e, quindi, per difetto d’azione appare incompleto anche il misticismo orientale. Certamente il brahmanesimo e soprattutto il buddhismo aprono molteplici vie di purificazione morale e attestano nobili «sforzi per coincidere con lo slancio creatore». Mala spinta mistica si arresta a metà strada, essendo staccata dall’impegno generoso a fare del mondo il cantiere di Dio, in cui si lavora a realizzare l’ordine spirituale e a continuare l’opera sua. Il buddhismo non ignora la pietà, ma è congelato dal suo pessimismo e dalla totale sfiducia nell’efficacia dell’azione che trasforma il mondo. Per motivi opposti Bergson esprime vivo apprezzamento nei riguardi del neo-induismo, nato dall’innesto sulla spiritualità indiana del sentire cristiano, per cui l’uomo è sollecitato a costruire la storia, a modificare le situazioni di miseria e ingiustizia, a non sentirsi schiacciato dalla natura.

Il misticismo dei Profeti d’Israele pecca, invece, per difetto di contemplazione. «I Profeti ebbero la passione della giustizia e la reclamarono in nome di Dio». Bergson rovescia così, come un guanto, il giudizio di Hegel e degli hegeliani di sinistra che portavano i Profeti a esempio di rassegnazione passiva e di coscienza infelice. Bergson è ben consapevole dell’eredità preziosa, e si può ben dire unica, dell’Antico Testamento. Tuttavia il tesoro di spiritualità, saggezza e poesia che è rappresentato dalla Legge e dai Profeti, per divenire patrimonio universale, dev’essere liberato da due deformazioni pericolose: il particolarismo nazionalistico e razziale, da una parte; dall’altra, le rappresentazioni di un Dio «giudice troppo severo». Nella misura in cui quelle rappresentazioni diventano prevalenti su altre di diverso tono e contenuto, il misticismo ebraico manca di «intimità con Dio». I Profeti di Israele ebbero, però, un merito grandissimo: essi bruciarono, per così dire, l’intervallo fra il pensiero e l’azione, superando di colpo il misticismo contemplativo. «Il cristianesimo, che successe al giudaismo, dovette in gran parte ai Profeti giudaici di avere un misticismo attivo, capace di marciare alla conquista del mondo» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1179). Nel primo capitolo delle Due fonti Bergson aveva reso omaggio alla grandezza dei Profeti e del loro ruolo, che parte da Israele ma non vi si ferma. «Ricordiamo il tono e l’accento dei Profeti d’Israele, la loro voce che sentiamo quando una grande ingiustizia è stata commessa e accettata. Dal fondo dei secoli essi levano la loro protesta. Certo, l’idea di giustizia si è singolarmente slargata dopo di essi; quella che i Profeti predicavano concerneva prima di tutto Israele…

Uno di loro, Isaia, ha potuto pensare a una giustizia universale perché Israele, distinto dagli altri popoli per volere di Dio e legato a Dio da un patto, si elevava così in alto al di sopra del resto dell’umanità che presto o tardi sarebbe stato preso a modello» (ibid., 1039; nel testo a p. 176).

Dalla comparazione tra i misticismi incompleti emergono i criteri per definire il «misticismo completo». Essi sono l’intimità con Dio e l’attività sovrabbondante, la perfetta coincidenza di contemplazione e azione. Amare Dio, infatti, significa testimoniare il suo amore per tutte le sue creature. Questa è l’essenza stessa del cristianesimo. Anche i grandi mistici cristiani hanno conosciuto stati che somigliano sotto diversi aspetti al misticismo antico; ma attribuivano a visioni ed estasi un’importanza del tutto secondaria, anzi ne diffidavano. «Essi non hanno fatto che passarvi» (ibid., 1168-69 e 1185). «Raccogliendosi in se stessi, per tendere verso uno sforzo del tutto nuovo, essi hanno rotto una diga e dalla loro accresciuta vitalità si è liberata un’energia, un’audacia, un’arditezza di concezione e di azione straordinarie» (ibid.). Bergson ricorda san Paolo, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Francesco d’Assisi, Giovanna d’Arco. Per costoro e per tanti altri attingere il termine significa giungere a identificare la volontà umana con la volontà divina. Più esattamente, nel momento in cui l’unione con Dio diventa totale, «l’amore che consuma il mistico non è più semplicemente l’amore di un uomo per Dio, è l’amore di Dio per tutti gli uomini». Elevati alla dignità di collaboratori di Dio (adiutores Dei), i veri mistici sono «passivi rispetto a Dio, attivi rispetto agli uomini» (ibid., 1173). Lo sforzo resta, tuttavia, indispensabile così come la resistenza e la perseveranza. Ma queste vengono da sole in un’anima che è a un tempo «agente» e «agita», la cui libertà coincide con l’attività divina (ibid., 1172).

I filosofi pongono il principio dell’uguale partecipazione originaria degli uomini a una stessa essenza razionale. Ma chi potrebbe donare tutto se stesso per un ideale astratto, così poco conforme all’esperienza, e che non sarebbe mai stato neppure formulato se in qualche angolo della nostra civiltà il misticismo non avesse lasciato traccia del suo profumo inebriante? La verità è che dal chiuso all’aperto, dall’egoismo all’amore per tutti non si passa, come alcuni credono, per una serie di gradi, per transizioni indolori. L’immagine, a cui di solito si ricorre, è quella dei cerchi concentrici che si formano in uno specchio d’acqua, in cui si sia gettato un sasso: come questi hanno un raggio d’estensione sempre più lungo, così si allargherebbe meccanicamente la solidarietà di clan, di corporazione, nazione o razza al genere umano. Male cose non vanno affatto così. Quello che la natura e i cosiddetti istinti di socievolezza ci portano ad amare è non tutti gli uomini, ma i nostri ad esclusione degli altri. La natura tende alla morale di gruppo e alla società chiusa, così come gli dei prodotti dalla funzione fabulatrice sono patrimonio esclusivo della città e non l’Iddio di tutti gli uomini. È dapprima contro tutti gli altri uomini, che si amano coloro con i quali si vive. Questo è l’istinto primitivo che, è facile scoprirlo, vigoreggia anche nell’uomo civilizzato, «appena si gratta la civiltà» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1029). Nella concezione della natura Bergson è, come si vede, assai vicino a Hobbes e molto lontano da Rousseau.

In realtà ogni progresso morale dell’umanità si è compiuto contro corrente rispetto alla natura, sotto l’influsso della morale dell’aspirazione. E come la morale della pressione era unita in modo organico alla religione statica, così la morale dello slancio interiore alle coscienze e dell’appello che ad esse rivolgono i grandi modelli di vita è profondamente legata alla religione dinamica. Con una differenza: che la religione statica è prodotta a difesa della società chiusa e della sua morale, mentre è la religione dinamica a generare, di norma, la morale più alta e la società aperta, per sovrabbondanza di vita e per una spinta irresistibile che getta i suoi eroi e geni nelle imprese più vaste. «L’amore mistico dell’umanità non è il proseguimento di un istinto, non deriva da un’idea, non appartiene né al sensibile né al razionale, ma è implicitamente l’uno e l’altro ed in effetti è molto di più… Coincidendo con l’amore di Dio per la sua opera, amore che ha creato ogni cosa, esso è in grado di rivelare, a chi sappia interrogarlo, il mistero della creazione. La sua essenza è metafisica più ancora che morale» (ibid., 1174).

L’analisi filosofica dell’esperienza mistica e l’individuazione dei caratteri specifici del misticismo completo portano a concludere che «misticismo e cristianesimo si condizionano l’un l’altro, indefinitamente» (ibid., 1178). Ma bisogna pure che ci sia stato un inizio. All’inizio del cristianesimo c’è il Cristo. La filosofia, rimanendo rigorosamente sul suo proprio terreno e senza entrare nella sfera della fede, che cosa è autorizzata a dire di lui? Nei passi delle Due fonti dedicati al cristianesimo (2), il filosofo scopre che Cristo costituisce un caso eccezionale ed unico. I grandi mistici cristiani «sono gli imitatori, originali ma incompleti, di ciò che fu in modo completo il Cristo dei Vangeli» (ibid., 1079). Il che vuol dire: ciò che in essi è ancora relativo, è assoluto nel Cristo, modello perfetto e, di fatto, unico, in cui si attua nella sua pienezza l’ideale che egli stesso delineò nel Discorso della Montagna. L’ardente unione del mistico cristiano con Dio implica sia un atto di profonda adesione a quel Dio di cui Gesù Cristo ha mostrato il volto, sia il commisurarsi all’esempio e al magistero di chi ha pronunciato il Discorso della Montagna e «altre divine parole». La filosofia, con i mezzi di cui dispone, può, dunque, riconoscere in Gesù la presenza dell’Uomo-Dio, l’adempimento del voto più profondo della creazione e dell’umanità. Non tocca a lei, infatti, fare del Nuovo Testamento un trattato di metafisica o di morale, tanto meno abolire il salto della fede pretendendo di spiegare il paradosso del Dio-Uomo. II filosofo, però, non può e non deve rinunciare a vedere nel cristianesimo e nell’esperienza cristiana «un potente ausiliare della ricerca filosofica». Scrive Bergson: «Questa concezione è sembrata imporsi a noi» (ibid., 1188). Noi aggiungiamo che la riprova della sua fecondità è attestata anche da un libro come le Due fonti.

  1. IL FERMENTO EVANGELICO NELLA STORIA GLI SCAMBI TRA LE DUE RELIGIONI E LA LORO PERMANENTE DIFFERENZA DI DIREZIONE

La morale autentica e la religione dinamica non sono separate dallo sforzo di organizzazione della società, in cui l’io diventa un noi, ma un noi cosciente e attivo, che sa stabilire rapporti interpersonali, non il noi della pressione sociale e delle varie forme di massificazione. Le grandi svolte della storia si realizzano quando i trascinatori dello spirito indirizzano il cammino degli uomini su vie nuove. Il balzo in avanti si verifica, allora, sia in rapporto ai principi, sia sul terreno dei cambiamenti giuridici e politico-sociali; e la ragione, in fondo, è sempre la stessa: qualcosa del Discorso della Montagna, del suo fuoco, che è spirito e vita, si è propagato nelle coscienze.

L’umanità è ancora ben lontana dal sospettare quali siano le immense virtualità del Vangelo, la sua forza di umanizzazione della storia. Quel messaggio, però, ha già prodotto risultati di grande portata, spingendo l’umanità a superare ostacoli che sembravano insormontabili, pregiudizi consolidati, chiusure radicate nell’istinto. Bergson porta alcuni esempi, prendendoli dalla storia moderna e contemporanea. Ricorda il significato universale della «Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino», votata dall’Assemblea costituente francese il 26 agosto del 1789, e l’affacciarsi di un ideale etico-politico «di essenza evangelica» (ibid., 1215), l’ideale della democrazia, per garantire non le pretese, ma certamente i diritti di tutti i membri di una comunità, a cominciare da quelli delle minoranze, che la legge del numero porterebbe a misconoscere brutalmente (3). Anche la «Dichiarazione americana d’indipendenza» del 1776 può essere considerata una proiezione storica dello spirito evangelico. Essa, anzi, anticipa la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», da cui si differenzia per le esperienze e per la logica istituzionale che sono alle sue origini. Nella Dichiarazione americana la radice religiosa è persino più scoperta, perché coloro che costituivano la nuova nazione americana erano dei perseguitati che fuggivano dai loro paesi per difendere la loro fede. In una lettera del 1936 a J. Chevalier il filosofo francese sottolineava che «con gli Stati Uniti per la prima volta, e probabilmente per l’unica, nella storia del mondo, una nazione è stata fondata coscientemente e volontariamente su una pura idea, da uomini che erano espatriati per trovare la libertà di pensare e di credere» (la citazione è riportata da Mossé-Bastide, Bergson et Plotin, ed. cit., p. 386 n.).

Il cammino dell’umanità verso la società aperta è documentato anche dal radicale cambiamento di significato che hanno subito, nel corso dell’era cristiana, l’idea di «rispetto di sé» e di «giustizia». Il rispetto di sé prima era null’altro che il riflesso dell’approvazione sociale, il riscontro della puntuale coincidenza dell’amor proprio del singolo con l’amor proprio del gruppo; ma poi è divenuto coscienza della dignità umana, dinanzi a cui ci si deve inchinare, al di sopra di ogni convenzione, costi quello che costi. L’idea di giustizia in origine designava un equilibrio meccanico e mutevole, di natura mercantile, tra il dare e l’avere; ma oggi la stessa parola sta a significare i «diritti dell’uomo», cioè qualcosa che non evoca più idee di relazione o di misura ma, al contrario, di incommensurabilità e di assolutezza. Tutto ciò è accaduto grazie all’impulso delle grandi figure morali e religiose che hanno inciso nella storia. «Esse si danno la mano al di sopra dei secoli, al di sopra delle nostre città umane: insieme compongono una città divina, nella quale ci invitano a entrare. Possiamo non intendere distintamente la loro voce; non di meno il richiamo è lanciato e in fondo alla nostra anima qualcosa gli risponde: dalla società reale in cui siamo ci trasportiamo con il pensiero alla società ideale» (ibid., 1032).

Bergson richiama, infine, l’attenzione sullo spettacolo orrendo delle guerre nell’età industriale, in cui si combatte con le armi forgiate dalla nostra civiltà. Non dovrebbe una tragedia così prevedibile rendere finalmente consapevoli i governi del rischio gravissimo in cui gettano i loro popoli, ingaggiando un conflitto? Se obbedissero alla ragione, essi farebbero proprie tutte le iniziative che tendono a dare certezza al diritto nei rapporti internazionali, invece di affidarsi alle armi. Purtroppo, l’istinto belluino, che vive in noi e che si potenzia all’infinito quando diventa fanatismo collettivo, fa sì che l’autoinganno prevalga non solo su ciò che è giusto, ma perfino sul calcolo di ciò che è più utile al proprio gruppo. È questa l’univisualità tipica di ogni Realpolitik, per la quale non c’è altro diritto che la forza; ma, eccettuato Kant e pochi altri nobili spiriti, i filosofi dell’età moderna su questo punto la pensavano allo stesso modo. La loro convinzione è bene espressa dalla sentenza di Hegel, secondo la quale i rapporti tra gli Stati cadono sotto il caso e l’arbitrio perché «un diritto universale degli Stati è un dover essere senza realtà» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, par. 545). È, dunque, inevitabile che gli eventi seguano il loro corso e che la legge della giungla domini nei rapporti tra i popoli? «Alcuni uomini, che non esitiamo a porre tra i benefattori dell’umanità, hanno fortunatamente preso un atteggiamento opposto e, come tutti i grandi ottimisti, hanno cominciato supponendo risolto il problema da risolvere. Essi hanno fondato la Società delle Nazioni. È nostra opinione che i risultati già ottenuti superino quello che si poteva sperare. La difficoltà di eliminare le guerre, infatti, è molto più grande di quanto possono immaginare, generalmente, coloro che non credono a questa eliminazione» (ibid., 1219). Va, inoltre, ricordato che Bergson nel dopoguerra, testimoniò con l’impegno personale queste convinzioni, ponendosi tra il 1921 e il 1925 al servizio della Società delle Nazioni, e lavorò con appassionata lungimiranza alla riconciliazione internazionale nel campo della cultura. Si ritirò solo per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Le due morali, della pressione sociale e dell’aspirazione, e le due religioni, la statica e la dinamica, sono radicalmente opposte. La morale dell’aspirazione e la religione dinamica non sono, quindi, il prolungamento perfettivo o la sublimazione dell’obbligazione sociale nel suo complesso e della religione statica. Tuttavia nella realtà concreta esse inevitabilmente si incontrano e si mescolano, perché lo slancio verso la vita più alta, se vuol permeare di sé le coscienze, deve comunicarsi ad esse anche attraverso le istituzioni e le credenze esistenti in una data società. La religione statica è associata ai nostri sensi, alla nostra immaginazione, alla nostra vita di tutti i giorni; il misticismo viene a inserirsi, di quando in quando, originale e ineffabile, in essa e allora nasce una religione mista: «chiusa» per l’insieme delle credenze, degli obblighi e dei sistemi concettuali che ne tentano la giustificazione; ma «aperta» nella misura in cui accoglie l’appello dei mistici e l’esempio dei santi. «La religione mista implicherà un orientamento nuovo dell’antica, un’aspirazione più o meno pronunciata del dio antico, uscito dalla funzione fabulatrice, a perdersi in quello che si rivela effettivamente, che illumina e riscalda con la sua presenza nelle anime privilegiate» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1157). Che succede allora se coloro che hanno delle credenze non vogliono, o non possono, staccarsi da esse? «Si convinceranno a trasformarle e le modificheranno realmente; di esse sussisteranno gli elementi, però magnetizzati e rivolti in un’altra direzione» (ibid., 1058).

In quali termini si pone il problema di una «religione mista» per il mistico cristiano che si rivolga ai credenti della sua stessa fede? Il mistico annuncia una rivelazione interiore, ma non sopraggiunge in un’umanità che ignora tutto di essa, come uno straniero in terra straniera. Si comprende, allora, perché il compito del mistico cristiano è in primo luogo quello di farsi «intensificatore della fede religiosa» (ibid., 1178). La fede cristiana, quali che siano i condizionamenti storici negativi, derivanti dal prevalere di una mentalità angusta e deformante, continua pur sempre, attraverso le istituzioni che le fanno da tramite, ad annunciare il Vangelo – e dunque il Discorso della Montagna e «altre divine parole» di Cristo – e a proporre a modello di vita i testimoni dell’amore di Dio. In ambito cristiano la religione può essere definita «la cristallizzazione, operata da un raffreddamento sapiente, di ciò che di incandescente il misticismo depone nell’anima dell’umanità» (ibid., 1177); così intesa, essa si porta dentro qualcosa di quella rivelazione interiore, che l’ha attraversata «per opera di altri mistici, nascosti e non di meno presenti» (ibid., 1178). Sono costoro che hanno preparato l’avvento dei grandi mistici, la cui missione è di diritto universale, dal momento che il loro slancio d’amore li porta ad elevare tutta l’umanità sino a Dio. Le conclusioni di Bergson ci sembrano essere due. La prima è che «una religione esiste solo in funzione del misticismo» (ibid., 1177); la seconda è che «il misticismo trae vantaggio dalla religione, in attesa che la religione si arricchisca del misticismo» (ibid., 1178). Certamente il misticismo ha dovuto accettare molte cose per farsi, a sua volta, accettare. Ma è un pedaggio da pagare comunque perché in ogni campo l’umanità non comprende il nuovo se non come continuazione dell’antico (4).

La trasposizione del dinamico nello statico è sempre difficile e precaria, ma indispensabile: «Se il misticismo deve trasformare l’umanità, ciò non potrà avvenire che trasmettendo una parte di se stesso per gradi, lentamente. I mistici lo sanno perfettamente» (ibid., 1175). Bergson ha sintetizzato in una frase il senso di questa transizione: «Tra l’anima chiusa e l’anima aperta c’è un’anima che si apre» (ibid., 1025). Di qui l’importanza della «religione mista», e così pure della «morale mista», della «società mista». Il metodo dell’incarnazione del valore più alto nella realtà storica, quale essa è effettivamente e non quale noi vorremmo che fosse per deciderci ad agire, rimane la sola via percorribile. L’atto col quale l’anima si apre a ciò che la supera ha l’effetto di allargare e innalzare alla pura spiritualità una morale e una religione che diversamente sarebbero rimaste imprigionate e materializzate in formule. L’inserimento del sovra-morale e del mistico nel sociale e nell’inframorale trova un’esemplificazione di eccezionale importanza nel modo in cui Gesù si rapporta alla religione ebraica. Gesù si rifiuta in modo esplicito di costringere la novità del suo messaggio entro le antiche formule (Lc 5, 36-39): è inesorabile il suo «no» al formalismo religioso, ai tabù alimentari, a una pietà e a un ascetismo fini a se stessi e separati dall’amore, all’ossequio servile alla lettera che uccide lo spirito. Ma egli, nello stesso tempo, non cessa di ricordare ai suoi discepoli di essere venuto «non per abolire, ma per dare compimento alla Legge e ai Profeti» (Mt 5, 17). Bergson lo dice nel suo linguaggio: «Da una parte c’è il chiuso, dall’altra l’aperto. La morale corrente non è abolita; ma essa si presenta come una tappa di un cammino che non si arresta. Non si rinuncia all’antico metodo, malo si integra con uno più ampio e profondo, come accade quando l’elemento dinamico riassorbe in sé quello statico, divenuto un aspetto o un caso particolare del cammino umano» (ibid. , 1025).

Ciò non toglie che, fin dal suo apparire, la religione dinamica si ponga come radicalmente distinta dalla religione statica. Si potrebbe dire – ma il paragone è nostro, non di Bergson – che la prima stia alla seconda come l’anima al corpo, come il pensiero al cervello: rapporto in cui la solidarietà non significa in nessun caso equivalenza. Non si sale dalle analisi, dai concetti e dalle immagini all’intuizione, male analisi, i concetti e le immagini servono a esprimere l’intuizione; allo stesso modo non si passa dalla religione statica alla religione dinamica, ma è necessario al diffondersi del misticismo l’assunzione pragmatica di non pochi aspetti della religione statica. La religione dinamica ha, però, la forza di ricondurli nel movimento spirituale da cui avevano tratto origine e di liberarli da ciò che in seguito li aveva resi, appunto, statici. Il superiore buon senso dei grandi mistici valorizza al massimo quanto di vero e di giusto il dato storico reca con sé, proprio nell’atto di conferirgli una dimensione molto più alta.

In breve: l’importanza riconosciuta da Bergson alla religione mista non cancella il taglio assoluto che le Due fonti stabiliscono fra religione statica e religione dinamica. L’opposizione deve rimanere inconciliata, sia perché è strutturale, sia perché è da essa che può venire la potenza inimmaginabile di conversione dell’autentico misticismo. A Jean Guitton, che tendeva a conciliare le due religioni sino a fonderle in una, Bergson ribadì che tra esse vi è una «differenza di direzione» (La vocation de Bergson, Gallimard, Parigi, 1960, p. 160).

  1. IL PROGRESSO TECNICO-SCIENTIFICO E LE SUE AMBIVALENZE – TECNICA E MISTICA

Il quarto capitolo delle Due fonti è un epilogo nel quale si leggono considerazioni sullo stato attuale dell’umanità e sulla disciplina ch’essa deve imporsi se non vuol divenire vittima del suo progresso (5). Assumono in esso un forte rilievo il giudizio sullo sviluppo tecnico-scientifico e la speranza di un’umanità che si decida a coniugare macchinismo e misticismo. Molti pensano che vi sia fra i due termini una reciproca incompatibilità; Bergson è, invece, uno dei pochi spiriti del XX secolo che, pur essendo ben consapevole dell’ambivalenza del macchinismo, non ha mai messo sotto accusa la macchina in quanto tale, cedendo a suggestioni ora manichee, ora moralistiche o apocalittiche (6).

L’uomo ha sempre inventato delle macchine; queste, però, hanno cominciato a manifestare le loro immense potenzialità solo a partire dal giorno in cui hanno potuto utilizzare non più lo sforzo muscolare, la forza del vento o di una cascata d’acqua, ma alcune delle energie immagazzinate sul nostro pianeta durante milioni di anni. L’invenzione meccanica procede per conto suo, con una sua propria spontaneità, ma si è allargata indefinitamente dopo che si è messa al seguito della scienza, da cui pure rimane distinta. Da più parti si fa il processo al macchinismo, ma prima di individuare il suo «torto essenziale», conviene smantellare le accuse inconsistenti e ricordare i suoi meriti. Non è forse per mezzo della macchina che l’uomo è stato alleggerito di tanti fardelli, che sin dalle origini gravavano sulle sue spalle, fino a schiacciarlo? Si accusa il progresso tecnico-scientifico di ridurre l’operaio ad una macchina e di metter capo a una produzione uniforme che offende il senso artistico. Ma se la macchina procura all’operaio un maggior numero di ore di riposo, e se l’operaio impiega il tempo libero in qualche altro modo piuttosto che nei divertimenti, che un industrialismo mal diretto gli pone dinanzi, egli potrà dare alla sua intelligenza lo sviluppo da lui stesso scelto, invece di attenersi a quello che gli imporrebbe, in limiti molto ristretti, il ritorno, peraltro impossibile, a un tipo di esistenza da cui sia stata soppressa la macchina. «Per quanto poi riguarda l’uniformità del prodotto, l’inconveniente sarebbe trascurabile se l’economia di tempo e di lavoro, realizzata in questo modo da tutto il complesso produttivo di una nazione, permettesse di spingere più lontano la cultura intellettuale e di sviluppare la vera originalità. Si è rimproverato agli americani di avere tutti lo stesso cappello, mala testa viene prima del cappello. Fate che io possa arricchire la mia testa secondo il mio gusto e accetterò per essa il cappello degli altri» (ibid., 1236).

Non è poi un caso se i primi lineamenti di ciò che più tardi doveva essere la civiltà delle macchine hanno preso forma contemporaneamente alle prime aspirazioni alla democrazia, sì che tra l’una e l’altra tendenza è lecito scorgere un nesso reale. L’obiettivo preliminare della democrazia, cioè quello che rende possibili successivi traguardi nel processo di liberazione dell’uomo, in realtà non poteva essere raggiunto senza l’aiuto della macchina che, moltiplicando i beni necessari alla vita, li rende accessibili al maggior numero possibile. «Non si pensava certamente al lusso per tutti, e neppure al benessere per tutti, ma per tutti si poteva augurare un’esistenza materiale assicurata, la dignità nella sicurezza» (ibid., 1237). Né si può negare che un ideale del genere è pur sempre l’eco della visione cristiana del mondo, per cui ogni persona è un valore ed è chiamata a creare una vita più alta.

L’imputazione più seria alla rivoluzione tecnico-scientifica sembra venire, però, proprio dall’interno della filosofia bergsoniana. Per tre secoli la scienza non ha avuto altro oggetto che la materia, tanto che ancora oggi, quando non si aggiunge un aggettivo qualificativo a quel nome, si parla senz’altro di scienza della materia.

Quando poi ad essa si è unita la genialità inventiva, e si sono costruite macchine prima inimmaginabili, che hanno cambiato il modo di vivere, allora «l’abitudine di vedere tutto nello spazio e di spiegare tutto per mezzo della materia» (ibid., 1242) è divenuta un’ossessione: l’ossessione spazializzatrice, che costituisce il sottofondo permanente di ogni materialismo e che porta a cancellare la dimensione spirituale della realtà. Bergson sa bene che «non è stato senza danno che la scienza dello spirito si sia costituita così tardi», ma è proprio lui a chiarire, con fine senso storico, le ragioni per cui le scienze della materia hanno preceduto quelle dello spirito. «Bisognava prendere la via più corta. La geometria esisteva già ed era stata spinta abbastanza avanti dagli antichi; occorreva, dunque, cominciare con il trarre dalla matematica tutto ciò che essa poteva fornire per la spiegazione del mondo in cui viviamo. Del resto, non era neppure augurabile che si cominciasse dalla scienza dello spirito, la quale non sarebbe arrivata da sé alla precisione, al rigore, al metodo scientifico che sono stati trasmessi dalla geometria alla fisica, alla biologia, in attesa di ricadere su di essa» (ibid.).

Anche Bergson critica il macchinismo, ma con ben altre argomentazioni. «Senza contestare i servizi resi all’uomo dall’enorme sviluppo dei mezzi richiesti per soddisfare i bisogni reali, noi gli rimproveriamo di aver incoraggiato quelli troppo artificiali, di aver spinto al lusso, di aver favorito la città a detrimento della campagna, infine di aver allargato la distanza nei rapporti tra padrone e operaio, capitale e lavoro» (ibid., 1236-37). Si dirà: se questo è il risultato globale dello sviluppo tecnico-scientifico, come evitare di emettere nei suoi confronti un giudizio di condanna? Bergson replica con forza: «Non è la scienza, come si sarebbe portati a credere, a imporre agli uomini, per il solo fatto del suo sviluppo, dei bisogni sempre più artificiali. Se così fosse, l’umanità sarebbe condannata ad un sempre crescente materialismo, poiché il progresso della scienza non è destinato ad arrestarsi. La verità è che la scienza ha dato ciò che le si chiedeva e non ha preso l’iniziativa in questo campo; è lo spirito d’invenzione che non ha sempre servito al meglio gli interessi dell’umanità. Esso ha creato una folla di nuove esigenze e non si è abbastanza preoccupato di assicurare alla maggior parte degli uomini, o meglio a tutti, la soddisfazione degli antichi bisogni. Più semplicemente: senza trascurare il necessario, ha pensato troppo al superfluo» (ibid., 1235). Ma «la colpa» è della tecnica in quanto tale, o di chi orienta in un senso piuttosto che nell’altro le sue invenzioni, e anche delle invenzioni più socialmente provvide fa un uso perverso? «Occorre prima di tutto domandarsi se lo spirito inventivo susciti necessariamente dei bisogni artificiali o se non sia stato piuttosto il bisogno artificiale ad orientare in questo senso lo spirito inventivo. La seconda ipotesi appare di gran lunga più probabile» (ibid., 1234).

In ultima analisi, è dentro l’uomo che va cercata la radice anche di quegli atteggiamenti devianti che, a forza di propagarsi, diventano abitudini sociali interiorizzate e, dunque, bisogni. «L’iniziativa non può venire che dall’umanità, poiché è lei, e non la pretesa forza delle cose, ancor meno la presunta fatalità inerente alla macchina, che ha lanciato su di una certa pista lo spirito d’invenzione. Ma l’umanità ha mai voluto un simile risultato? L’impulso che l’umanità ha dato inizialmente all’invenzione tecnologica andava proprio nella direzione presa poi dall’industrialismo, o piuttosto le cose sono andate diversamente? In realtà, ciò che al punto di partenza non è che una deviazione impercettibile, diviene, in progresso di tempo, uno scarto considerevole, se si è camminato con decisione e se la via percorsa è stata lunga» (ibid., 1237). Spetta all’umanità correggere gli effetti perversi di un macchinismo che di per sé non è affatto perverso e fare della macchina quello che all’origine si voleva che fosse, uno strumento di liberazione per l’uomo. «Bisognerebbe, però, che l’umanità si mettesse a semplificare la sua esistenza con la stessa frenesia con cui si è messa a complicarla» (ibid.). La conquista di una vita semplice possibile per tutti è un’impresa degna dell’umanità contemporanea. Per avviare una tale impresa, in una società in cui il danaro e il piacere mercificano tutto, il richiamo alla responsabilità e all’ascetismo è assolutamente indispensabile; ma un impegno così forte e vasto esige che la coscienza dell’umanità compia un rinnovato, audace balzo in avanti, aprendosi allo slancio della morale dell’aspirazione e della religione dinamica.

L’uomo, però, è corpo e coscienza, per cui ci si deve chiedere come il misticismo vero, completo, attivo, potrebbe diffondersi, pur diluito e attenuato come inevitabilmente accade, in un’umanità che fosse assorbita dal timore di non avere da mangiare. Bergson su questo punto è di un realismo inequivocabile: «L’uomo non si solleverà al di sopra della terra, se una potente attrezzatura non gli fornirà il punto d’appoggio. Dovrà ben poggiare sulla materia, se vorrà staccarsene. In altre parole, la mistica chiamala meccanica. Questo non è stato abbastanza messo in evidenza, perché la meccanica, per un incidente di scambio, è stata lanciata su una via, al termine della quale stavano il benessere esagerato e il lusso per un certo numero, piuttosto che la liberazione per tutti. Colpiti come siamo dal risultato accidentale di una siffatta deviazione, oggi non riusciamo più a vedere nel macchinismo ciò che dovrebbe essere, ciò che ne costituisce l’essenza» (ibid., 1238).

L’uomo, Bergson lo ha ripetuto più volte, è «la grande riuscita della vita sul nostro pianeta». Dotandoci di intelligenza, la natura ha preparato per noi un certo ampliamento del campo d’azione; di questa virtualità partecipa a pieno titolo anche il nostro corpo. Il corpo, essendo coestensivo alla coscienza, comprende tutto ciò che percepiamo e, dunque, «arriva fino alle stelle» (ibid., 1194). Ma c’è dell’altro. Se i nostri organi sono strumenti naturali, gli strumenti che fabbrichiamo con la mente e la mano sono altrettanti organi, questa volta artificiali, che aggiungono ai corpi dei prolungamenti sempre più ampi. Con il sorgere della grande industria e della tecnologia moderna non si può parlare solo dell’accrescimento dei corpi degli individui; in realtà si deve parlare dell’accrescimento del corpo dell’umanità. «Ora, in questo corpo smisuratamente ingrandito nei suoi poteri, l’anima resta ciò che era: troppo piccola per riempirlo, troppo debole per guidarlo. Di qui il vuoto tra l’uno e l’altra. Di qui i formidabili problemi sociali, politici, internazionali che sono altrettanti modi per definire questo vuoto e che, nel tentativo di colmarlo, provocano oggi tanti sforzi disordinati e inefficaci: ci vorrebbero nuove riserve di energia potenziale, ma questa volta di ordine morale. Non basta, quindi, dire, come abbiamo fatto prima, che la mistica chiama la meccanica, occorre aggiungere che il corpo cresciuto attende un supplemento di anima e che la meccanica esigerebbe una mistica. La meccanica ritroverà la sua vera direzione solo se l’umanità, che essa ha piegato ancor più verso terra, arriverà per mezzo suo a raddrizzarsi e a guardare il cielo» (ibid., 1238-39).

Bergson ci ha aiutato a capire la possibilità, e difficoltà insieme, di fare degli strumenti tecnici un «corpo» sottomesso all’«anima», in luogo di un corpo che soffoca l’anima. «È il risultato più importante – ha scritto Vittorio Mathieu – dell’intera ricerca di Bergson, e non della sua ultima opera soltanto, sul piano dell’indagine sociale»; ma è anche, e su un punto decisivo, «un approfondimento che non può non riconoscersi come genuinamente religioso» (Saggi bergsoniani in Bergson – Il profondo e la sua espressione, Guida, Napoli, 1971, pp. 408 e 343). Saper far uso della tecnica non è mai, infatti, un problema puramente tecnico, perché qualsiasi strumento di cui si serve la libertà rischia, al tempo stesso, di invischiarla e sopprimerla. È e rimarrà sempre, invece, un problema spirituale, ed è perciò in quel campo che va cercata la soluzione.

  1. LA SEMPLICITÀ NEL PENSIERO E NELLA VITA – LA GIOIA

Cerchiamo ora di guadagnare una visione panoramica delle Due fonti e di ricollegare ad essa gli acquisti precedenti della filosofia bergsoniana. La morale della pressione e la religione statica funzionano fin troppo bene come supporti a ogni società chiusa, ma ci si deve chiedere se non vi siano un’altra morale e un’altra religione. La risposta non può venire che dall’esperienza morale e religiosa dell’umanità. Ebbene, la storia attesta in modo irrefutabile che sotto ogni cielo e, molto spesso senza conoscersi tra loro, nei contesti culturali più diversi, vi sono stati e vi sono uomini e donne che, invertendo la china naturale dell’istinto e dell’intelligenza, si sono impegnati in uno sforzo generoso per oltrepassare la condizione umana e costruire una società aperta. Essi sono animati dalla volontà comune di lavorare alla «creazione di continuo rinnovata di un’umanità più completa» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1046). Con loro siano essi geni della santità e della vita mistica, che danno il loro nome ai nuovi incominciamenti della storia, o «eroi oscuri, che noi abbiamo potuto incontrare sul nostro cammino e che ai nostri occhi eguagliano i più grandi» (ibid., 1017) – è effettivamente «una vita nuova che si annuncia» e che cammina tra gli uomini. La morale come sistema di ordini dettati da esigenze sociali cede qui il posto alla morale dell’aspirazione, cioè dello slancio interiore di ognuno di noi e degli «appelli lanciati alla coscienza di ciascuno di noi da persone che rappresentano ciò che di meglio vi è nell’umanità» (ibid.). Questa storia, di cui ognuno è chiamato a far parte, ha le sue avanguardie e i suoi modelli negli eroi della vita morale, nei grandi santi, nei mistici autentici. Può la filosofia continuare a non prendere in considerazione una realtà così straordinaria? E che cosa sta a significare tutto ciò sul piano filosofico? Quali conclusioni metafisiche bisognerà trarre dall’effettiva realtà e dall’efficacia storica di quest’altra dimensione religiosa, che Bergson designa con l’espressione religione dinamica?

Lo slancio vitale non si arresta alla natura e, trionfando di essa, riprende il cammino attraverso quegli uomini che spezzano il cerchio in cui la nostra specie rischiava di essere rinchiusa. Costoro ritrovano, e ci insegnano a ritrovare, l’attività suprema di cui noi siamo partecipi, la Sorgente stessa dello slancio e della nostra realtà spirituale. L’emozione sovra-intellettuale (7), prima sconosciuta, che essi comunicano ai loro simili, nasce dall’esperienza personale di un Dio il cui nome è Amore. Allora il cerchio si riapre perché gli uomini possano rendersi liberi nei confronti di tutti i fini particolari che incatenavano le loro volontà, nei confronti delle ricchezze, del benessere, del piacere. La morale dell’aspirazione è un’inversione rispetto alla morale naturale e il passaggio dall’una all’altra è propriamente ciò che in termini kierkegaardiani diremmo un salto, cioè un mutamento di prospettiva analogo a quello che i matematici indicano nel passaggio da ciò che è misurabile a ciò che non lo è e, in tutti gli altri campi, nel passaggio dal finito all’infinito.

Il principio metodologico, a cui Bergson rimane rigorosamente fedele, è il seguente: «un’esistenza non può essere data che in un’esperienza» (La pensée et le mouvant, Oeuvres 1292), che si chiama percezione se si tratta di un oggetto materiale, intuizione se si tratta di una realtà spirituale. L’intuizione della nostra durata reale ci obbliga già a pensare, al limite estremo verso l’alto, la durata assoluta della «eternità di vita». D’altra parte, c’è pure un’intuizione morale e religiosa, quella su cui si fonda la morale dell’aspirazione e la religione dinamica. Alla sua base vi è un’esperienza reale, comunicabile nel suo significato profondo e che può essere personalmente rivissuta da quanti si aprono al soffio dello Spirito. Vi è, dunque, la possibilità di un collegamento tra la prima e la seconda forma di intuizione? Se la risposta è positiva, «l’esperienza metafisica si legherà a quella dei grandi mistici», scrive il filosofo in un testo del 1922, a cui nel luglio del ‘33 aggiunge: «Per quanto ci riguarda, noi crediamo di constatare che la verità è là» (La pensée et le mouvant, Oeuvres 1292).

Per il nostro filosofo la vera saggezza, sia nella ricerca metafisica che nella vita autenticamente morale, la quale evoca la religione dinamica e si compie in essa, è lo spirito di semplicità. Nella ricerca teoretica il primo modo in cui la semplicità si manifesta è la serietà, ed essere seri significa innanzi tutto avere il coraggio di spazzar via i fantasmi della pseudo-filosofia, che ci fanno scambiare l’inesauribile ricchezza dello spirito con le interminabili complicazioni dei simboli e delle analisi che vorrebbero ridurlo a cosa e a spazio. Lo spirito di semplicità esige, invece, che ci si collochi nella durata reale, nel cuore di un’esperienza vissuta personalmente, in cui il tutto rivive in ogni parte, il passato continua nel presente che liberamente si rapporta ad esso e il presente si apre a un futuro ancora da determinare.

Oltrepassando gli oggetti ai quali si applica e lo spettacolo che ha sotto gli occhi, lo spirito fa la scoperta di sé, della sorgente di vita che sgorga dal fondo del proprio essere e alla quale non cessa di attingere. È questa un’opera di denudamento e insieme di conversione, in cui la critica del lavoro dell’intelligenza si accompagna all’esercizio dell’intuizione sul terreno per noi più sicuro, quello dell’esperienza interiore. Bergson cercò di far riscoprire una visione genuina della vita dello spirito nel Saggio e in Materia e memoria, «opere che al loro apparire scossero la sensibilità filosofica dell’epoca, come se si fosse in presenza di una nuova rivelazione» (L. Lavelle, La pensée religieuse d’Henri Bergson, in «Études bergsoniennes», PUF, 1942, p. 19). Nella morale dell’aspirazione, soprattutto attraverso l’esperienza dei mistici, il denudamento e la conversione acquistano un più alto significato, pervengono a un’altezza inaudita. Con l’avvertenza che nell’unione profonda con Dio ogni attività libera e degna, ogni nostro nobile sforzo non diventa inutile, non va cancellato, trovando anzi in essa la sua elevazione a potenza, e a potenza infinita. A una mistica come Giovanna d’Arco, ad esempio, toccò compiere addirittura una missione patriottica.

Lo spirito di semplicità si fa allora manifestazione, prolungamento dell’amore di Dio per le sue creature. Amore che infonde nei suoi testimoni un’intrepida forza redentrice che non conosce ostacoli dinanzi a cui fermarsi, né frontiere naturali e storiche; amore che rende capaci quelle grandi personalità, e quanti ne accolgono il messaggio, di vivere in profonda comunione con la natura, che è il nostro mondo, quello di cui facciamo parte, perché – è il motivo dominante dell’Evoluzione creatrice – la materia e la vita che lo costituiscono sono anche in noi, sì che «l’uomo non deve mettersi in un angolo della natura come un bambino in castigo» (L’intuizione filosofica in La pensée et le mouvant, , 1361); amore che rende i «collaboratori di Dio» gli esseri più liberi in senso assoluto, perché in essi la libertà nasce da una sorta di grazia per la quale cessano di ostacolare in sé l’azione esercitata dal Creatore.

Nel brano conclusivo delle Due fonti Bergson sintetizza in poche frasi il senso del suo itinerario e indica ciò che gli sta più a cuore, rivolgendo anche un pressante appello a tutti gli uomini. Il tempo stringe e l’umanità è chiamata a decidersi, ma essa non sa abbastanza – osserva il Nostro – che il suo futuro dipende da lei: «È ad essa, infatti, che spetta decidere prima di tutto se vuol continuare a vivere. All’umanità tocca poi domandarsi se vuol soltanto vivere, o anche produrre lo sforzo necessario perché, persino sul nostro pianeta refrattario, si compia la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dei» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1245). La semplicità di vita, che irraggerebbero nel mondo un moto di approfondimento della nostra vita interiore e un’intuizione mistica diffusa, recherebbe in dono all’umanità la gioia (la joie). In un testo che risale al 1911 Bergson aveva scritto: «Ovunque c’è gioia, c’è creazione; più ricca è la creazione, più profonda è la gioia» (L’énergie spirituelle, Oeuvres 832).

NOTE

1- Già nel modo di descrivere l’estasi, Bergson si differenzia nettamente da Plotino. «Ogni termine bergsoniano si oppone alle espressioni plotiniane. Invece di dire che “l’anima non ha bisogno di niente”, si parla di “un’impercettibile inquietudine”; in luogo di vedersi “nello splendore della luce”, il mistico sente “discendere un’ombra”; al posto di arrivare “alla fine del viaggio, all’assoluto riposo”, Bergson parla di “sosta” prima di una nuova partenza» (M.R. Mossé-Bastide, Bergson et Plotin, PUF, Parigi, 1959, pp. 379-80; nel testo p. 236).

2- I passi delle Due fonti, che riguardano direttamente il cristianesimo, sono nel primo e nel quarto capitolo (Les deux sources de la morale et de la religion, 1024-25 e 1178-79; nel testo pp. 162-163 e 242-246). Il testo fondamentale su cui Bergson incentra la sua interpretazione del Cristo dei Vangeli e del misticismo completo è il Discorso della Montagna.

3- Bergson ha definito in poche, splendide pagine (Les deux sources de la morale et de la religion, 1213-16; nel testo pp. 266-269) un vero e proprio schizzo filosofico della democrazia, su cui bisogna soffermarsi per comprendere l’espressione, a prima vista sconcertante: «la democrazia è di essenza evangelica». Bergson, che ha dedicato una particolare attenzione alle oscillazioni periodiche che caratterizzano anche l’andamento della politica (la cosiddetta «legge della duplice frenesia»), mette in guardia contro alcuni pericoli che minacciano dal di dentro i regimi democratici. Il primo è di cedere agli interessi di parte e agli egoismi meglio organizzati. Il secondo è di pensare che la democrazia riesca automaticamente, grazie ai suoi meccanismi, a guarire dei suoi mali. Nulla di più falso. Occorre tener conto, dice Bergson con molto realismo, del «sussistere nella società che si apre di tendenze proprie, e non sradicabili, della società chiusa» (ibid., 1220). Il terzo pericolo sta nel degradare la democrazia a sistema di pubblicità politica, a una tecnica per procurarsi il consenso e vincere le elezioni. Ogni società, e in primissimo luogo ogni società democratica, ha invece assoluto bisogno di veder garantito, negli ordinamenti e da ogni forza politica in campo, alcune cose che hanno valore prioritario: ad esempio il riconoscimento, anche attraverso la presenza determinante nelle più alte istituzioni, dell’aristocrazia del talento, della competenza e soprattutto dell’autorità morale. «Tutto il problema della organizzazione della democrazia è lì: noi non l’abbiamo risolto» – diceva Bergson il 24 febbraio 1918 nel discorso di reception all’Accademia francese (Écrits et paroles III, 468).

4- In che cosa consisteva «l’antico», che il cristianesimo doveva vagliare e assumere, almeno in parte, per trasmettere la novità di cui era portatore? La risposta di Bergson è molto chiara. «L’antico era, da un lato, ciò che i filosofi greci avevano costruito, dall’altro, ciò che le religioni antiche avevano immaginato. Non vi è dubbio che il cristianesimo abbia ricevuto molto, o piuttosto derivato molto dagli uni e dalle altre… Era nel suo interesse, perché la parziale adozione del neoplatonismo aristotelico gli permetteva di avvicinare a sé il pensiero filosofico e, nello stesso tempo, i prestiti ricevuti dalle antiche credenze dovevano essere di aiuto a far diventare popolare una religione nuova, volta ad una direzione opposta… Ma nulla di tutto questo era essenziale» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1177-78).

5- Nel quarto capitolo delle Due fonti Bergson s’interroga, e ci interroga, su alcune grandi questioni da cui dipende il futuro dell’umanità. Qual è il fondamento della democrazia e quali sono le sue riserve spirituali? Che senso può avere oggi il ricorso alle armi per risolvere questioni che vedono contrapporsi gruppi etnici, sistemi economici e ideologie? Può l’umanità rassegnarsi a pagare gli altissimi costi di un’economia incentrata sulla moltiplicazione di bisogni artificiali, alimentati a loro volta dal dilagare della pseudo-cultura del consumismo? In che direzione deve cambiare la forma di esistenza della donna, affinché cambi veramente la condizione femminile? Le Due fonti accentuano in particolare due questioni: la necessità di organismi internazionali, imperfetti ma perfettibili, per ridare certezza al diritto internazionale; e la confutazione di quel luogo retorico che fa della scienza e della tecnica il veleno dell’Occidente.

6- Alla confutazione della tesi, secondo la quale il progresso tecnico-scientifico sarebbe il cancro della nostra civiltà, il filosofo del personalismo, Emmanuel Mounier, dedicò nel 1949 uno scritto: La piccola paura del XX secolo (Oeuvres III, Ed. du Seuil, Parigi, 1962, pp. 341-425).

7- La pressione sociale, con i suoi imperativi e i suoi riti, e l’egoismo dell’individuo, con le sue pretese e le sue contestazioni, provocano in noi delle emozioni. L’emozione gioca un ruolo non secondario anche nel campo dell’intelligenza: essa è «curiosità, desiderio, gioia anticipata di risolvere un determinato problema»; «l’emozione spinge l’intelligenza in avanti, malgrado gli ostacoli» (Les deux sources de la morale et de la religion, 1013-14). Fin qui, però, si è sempre in presenza di un’idea, di una rappresentazione seguita dall’emozione, che ne è l’effetto e che vi si sovrappone. L’emozione pura, invece, precede la rappresentazione, la contiene virtualmente e, fino a un certo punto, ne è la causa. Essa è all’origine di ogni grande creazione, di ogni autentica intuizione nell’arte, nella scienza e nella filosofia. C’è, poi, un’emozione che si sperimenta quando ciò che rimane ancora indeterminato o inattingibile all’interno dell’intuizione metafisica riceve una nuova determinazione, attraverso un altro ordine di intuizione, quella dell’eroismo morale, della santità e dell’unione profonda con Dio. Allora siamo «come dei passanti spinti in una danza» (ibid., 1008) da una musica sublime. «Questa musica sublime esprime l’amore qualificato dalla sua stessa essenza» (ibid., 1191-92). Secondo Deleuze «la teoria dell’emozione creatrice [svolta nelle Due fonti] è tanto più importante in quanto dà all’affettività lo statuto che le mancava nelle opere precedenti» (op. cit., p. 104).

Testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.