Come cittadini e come cattolici

 «Perché l’infausto 1969 non dovrebbe diventare il punto di partenza per qualcosa di serio e di nuovo?». Ecco l’interrogativo che, più o meno esplicitamente, dal profondo dell’anima sale in questi giorni di sgomento. E l’interrogativo ha un aspetto etico-politico e ne ha pure uno più schiettamente religioso.

Per quanto riguarda il problema etico-politico, il Paese fa il suo esame di coscienza, dopo la tragedia di Milano, e riscopre l’essenziale, barbara disumanità della violenza,, il vuoto morale e intellettuale di coloro che se ne fanno apologisti, la loro radicale estraneità al corpo sociale.

La lotta politica e sociale è necessaria ed è, anzi, strumento di progresso se condotta con coraggio morale e con lucida intelligenza, perché nulla veramente matura nelle coscienze se non è conquistato attraverso un duro confronto di idee e di forze. La crescita umana e civile degli strati più umili e dell’intera comunità, nel suo insieme, esige di per sé tensioni, momenti difficili; ma la lotta, per quanto grande sia la posta in gioco, tende a farsi sempre più civile, più umana, approdando a metodi e a criteri razionali. La lotta democratica per l’avanzamento sociale e politico dei lavoratori, la lotta contro ogni forma di ingiustizia e di insensibilità sociale, contro l’immobilismo che fa incancrenire i problemi invece di risolverli in una visione rigorosa, contro lo sperpero del denaro pubblico, contro i privilegi che prosperano al coperto sono segni di raggiunta consapevolezza civile e politica.

In un Paese, che ha spazzato la dittatura fascista e che affronta i suoi difficili problemi di tumultuoso sviluppo e di plurisecolare arretratezza col metodo della libertà, il dibattito politico e la stessa battaglia sindacale comportano una tensione morale ed una carica polemica assai vivaci, ma tutto ciò non può, non deve avere nulla a che fare con la mitologia della contestazione globale e con i crimini del terrorismo. Chi confonde la lotta per l’avanzata della democrazia e per una più profonda giustizia sociale in un Paese che – grazie al suo assetto politico – ha raggiunto il sesto posto tra le nazioni a più alto sviluppo industriale, con una situazione di tipo sud-americano, ha una fantasia malata ed è privo di capacità di analisi storica: proprio come gli «enfants gatés» della borghesia straricca e consumistica e gli «intellettuali» del dualismo manicheo, ossessionati dalla pretesa di esercitare una miserevole leadership tra pecore belanti l’ultimo slogan che scavalchi a sinistra ogni possibile sinistra.

Ebbene, a tutti i nuovi missionari del servaggio eretto a sistema, ai frustrati che vogliono «esportare» la repressione di cui è impastata la loro psiche, ai fanatici zelatori di ideologie distruttive di ogni libertà, ai killers addottrinati e no, ai neo-nazisti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra il popolo italiano, unito nei suoi valori più propri, dinanzi alle quattordici vittime del 12 dicembre, ha detto no nel modo più solenne.

Tocca ora alla classe politica – e in modo particolare alla classe politica che gestisce i consensi dei democratici – sapere aver fiducia in se stessa e nella sanità m orale del popolo di cui è l’espressione più diretta e più legittima, riprendere il cammino delle riforme, superare il frazionismo e l’attendismo, operare al servizio del bene comune con coraggio e lungimiranza. Occorre fronteggiare questo mondo esigente con un rigore finora sconosciuto. «Non si tratta di essere solo più efficienti, ma anche più capaci di comprensione e più impegnati, con un impegno di tutta la vita, perché siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno più le stesse» (Moro).

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 Dal punto di vista religioso, in quanto cattolici, noi sentiamo tutta l’angoscia e tutta la speranza di questo momento storico, così difficile e così fervido della vita della Chiesa.

Da troppe parti, dopo lo slancio creativo del Concilio, è ricominciato il riflusso. E il riflusso ha due volti: l’integrismo, la tentazione cioè di imbalsamare il passato, proprio nei suoi aspetti più discutibili e caduchi, e il progressismo caotico, «nouvelle vague», relativista, per cui non c’è principio che valga e verità che tenga e tutto viene travolto e assorbito nel gran fiume della storia e della cultura moderna. Qui, evidentemente, non si rimette tutto in discussione per meglio sceverare l’autentico e l’inautentico, ma si dissolve l’integrità e l’intelligibilità stessa del messaggio evangelico e del cattolicesimo come suo ininterrotto prolungamento nella storia.

Se prima del Concilio, la minaccia alla Chiesa veniva dall’integrismo, oggi è in primo luogo il progressismo scriteriato che insidia la Chiesa di Cristo con la sua mancanza di realismo, con il verbalismo vuoto e violento, con le nuove forme di politicismo oltranzista (ed è il nuovo volto del clericalismo!) di cui si fa assertore, spesso in nome di una religione «mondana» tanto affine alla mitologia rivoluzionaria dei più recenti sfruttatori della miseria umana.

Un acuto, geniale toscano del secolo scorso, Gino Capponi, scelse a sua divisa il motto «quando non piango, rido»: in realtà quando non si piange, si prova un effetto invincibile di non-senso, che sconfina nella pura ridicolaggine, quando si presta orecchio ai «ruminanti della Santa Alleanza» e ai loro diretti antagonisti, i maestri del radicalismo antistorico e della sofistica avveniristica, i pedagoghi dell’inginocchiamento dinanzi al mondo e della servile soggezione alle sue illusioni narcotizzanti, gli inventori della «salvezza senza Vangelo», della «teologia della morte di Dio», del «cristianesimo senza Cristo», gli annunciatori di un Cristo del possibile e del conveniente di contro al Cristo della storia e della fede, della Sacra Scrittura e della Chiesa.

Gli integristi di ieri erano incapaci di raccogliere dal mondo alcuna lezione; i progressisti caotici di oggi sono persuasi che il mondo ha sempre ragione e dimenticano che le forze più lucide del mondo si pongono interrogativi via via più angosciosi e non sanno che farsene «di questa banda di isterici caduti in uno stato di delirio alla sola idea stolta che non vi sono più problemi che il mondo non abbia risolto o che non stia risolvendo» (Bouyer).

Se la Chiesa può avere un senso per il mondo di oggi, deve avere la capacità di dargli delle risposte o, ciò che può essere ancora più importante, di aiutarlo a porsi finalmente delle vere domande.

«Dopo la Riforma protestante ogni protestante divenne papa con una Bibbia in mano. Ma dopo che il papa ha deposto la sua tiara in Concilio – scrive un ex-protestante divenuto cattolico – sono innumerevoli coloro che sembrano convinti che essa sia finita sulla loro testa». Ognuno sembra essersi scoperto la vocazione di Dottore della Chiesa, e non soltanto va discutendo a gara su tutti gli argomenti, ma pretende di dettare la fede con una autorità inversamente proporzionale alla sua competenza. Questo pseudo-modernista e babelico non opera un ritorno alle sorgenti, una riscoperta della Chiesa nella sua più autentica tradizione, sposata ad un’apertura coraggiosa verso i problemi scientifici, culturali, sociali del mondo contemporaneo, non fa camminare l’ecumenismo: consegue solo l’effetto di far proliferare le «chiesuole» da clan al posto della Chiesa universale e rende vana la parola stessa di Dio, la redenzione di Cristo.

La promessa fatta a Pietro non è a pro di una Chiesa deformata, ma a quella una, santa, cattolica, apostolica che crediamo, per cui preghiamo e a cui cerchiamo, malgrado le nostre deficienze e ingenerosità, di rendere testimonianza. Quella Chiesa è più forte di ogni deformazione. Non è essa, forse, a dirci semplicemente la verità semplice e meravigliosa che il giorno di Natale ha da dirci?

Il Cittadino, 4 gennaio 1970.