Annachiara Valle:
Abbiamo avuto, la settimana scorsa, Benedetta Tobagi che ha presentato il suo libro; c’era anche Mario Calabresi. C’è tutta una generazione di figli che prende la parola per ridarla ai padri. E anche Umberto Ambrosoli scrive la vicenda di suo padre, la racconta, come lui stesso dichiara, per descrivere, per raccontare il nonno ai suoi figli che non l’hanno conosciuto. Questo libro, però, racconta anche la storia del’Italia, e il tratto personale, più che negli aneddoti familiari, che pure non mancano, credo che sia tratteggiato molto bene dall’uso costante della parola “papà”: anche quando si raccontano le vicende più ufficiali c’è sempre questo chiamare Ambrosoli “papà”, per nome. E suo padre è stata una persona lasciata anche molto sola. Staiano lo chiamava un “eroe borghese”: è stato un eroe, un eroe solitario con ancora qualcosa da dirci? E, soprattutto, pensa che sia valsa la pena agire come lui ha agito, guardando quello che sta succedendo oggi?
Umberto Ambrosoli:
Intanto vorrei ringraziare tutti voi che siete intervenuti, chi ha voluto organizzare questo incontro, le persone che sono presenti oggi per condividere anche da questa parte, con voi, le cose che stiamo raccontando. Partirei da una considerazione sulla solitudine per poi arrivare alla conclusione. Noi, se prendiamo la storia di mio padre, quei cinque anni della sua attività come commissario liquidatore subito prima e, comunque, di preparazione di quell’attività, ci rendiamo conto che effettivamente è legittimo parlare di solitudine: è legittimo parlare di solitudine dal punto di vista istituzionale, ovviamente con delle eccezioni (l’eccezione della Banca d’Italia, dei magistrati che con lui hanno collaborato, l’eccezione del suo nucleo di collaboratori, l’eccezione importantissima di un suo collaboratore, che pur proveniva da una funzione diversa, che è il maresciallo Silvio Novembre), solitudine fatta dalle altre istituzioni dello Stato, in particolar modo dalle istituzioni politiche che davano nettamente la sensazione di preferire interloquire con un soggetto che, secondo il nostro ordinamento, era latitante all’estero, incriminato (all’estero) per dei fatti analoghi a quelli posti in essere in Italia, eppure era maggiormente meritevole di ascolto da parte delle istituzioni rispetto a chi, le stesse istituzioni, l’avevano preposto alla funzione di commissario liquidatore, quindi alla tutela degli interessi della collettività, lesa dai crimini posti in essere da Sindona con la bancarotta. E questa è una solitudine che ha tante manifestazioni in quegli anni. Poi c’è un’altra solitudine che è quella, se vogliamo, della gente, ovvero la collettività non raccolta sotto le istituzioni. E se guardiamo all’Italia di quegli anni, se guardiamo l’attenzione dal punto di vista mediatico o le manifestazioni di solidarietà attraverso comportamenti concreti intorno alla vicenda della liquidazione della banca privata italiana, ci rendiamo conto che, effettivamente, si può parlare di solitudine anche da quel punto di vista. Possiamo arrivare all’immagine della solitudine, che tanto, giustamente, colpisce molti, del funerale di mio padre, fatto più di assenze, salvo gli amici e pochi rappresentanti di quelle due istituzioni positive che dicevo prima (i magistrati che collaboravano con mio padre, il governatore onorario della Banca d’Italia Baffi): la solitudine è lì. Lo Stato, secondo molti, non c’è in quelle immagini, e questa non è un’affermazione sbagliata: possiamo dire “come è sbagliato!”, possiamo indignarci, o possiamo fare una cosa diversa e chiederci: oggi noi, con i nostri comportamenti concreti, che solitudini stiamo evitando? Perché la memoria, la storia, questa e tante altre, hanno un senso nel momento in cui le utilizziamo per il nostro presente, perché altrimenti siamo soltanto degli appassionati: così come possiamo dipingere dei soldatini per rifarli uguali a come erano, possiamo anche studiare la storia, se non la usiamo poi per la nostra vita quotidiana; con comportamenti concreti, però, dobbiamo manifestare la nostra solidarietà! Con la nostra vicinanza, dobbiamo evitare la solitudine. Questo vale oggi per il magistrato scomodo piuttosto che per il giornalista che si espone particolarmente o per lo scrittore che fa la sua battaglia o per l’uomo di teatro che va in giro per l’ Italia a spiegare dai palchi come la mafia sia una brutta cosa. Dobbiamo esprimere la vicinanza con i nostri comportamenti concreti. Dobbiamo rappresentare, cioè, con la nostra vita che, per noi, i soggetti che credono nel primato della legge sono meritevoli della nostra solidarietà; e quindi noi per primi dobbiamo credere nel primato della legge e dobbiamo comportarci in maniera coerente, anche quando si tratta di leggi che possiamo non comprendere nel loro significato o finalità. Perché è facile dire: non bisogna corrompere e ancora più facile dire: non bisogna uccidere, però ci sono tante norme che a chi non vuole uccidere e corrompere stanno strette. E sono le norme che noi incontriamo tutti i giorni, da quelle che toccano gli ambiti più semplici, come la circolazione stradale, a quelle più importanti o, per lo meno, più evidenti nella tutela di un interesse altrui, come le normative fiscali. Noi ci incontriamo con quelle leggi: le incontriamo tutte le volte che dobbiamo parcheggiare la macchina da qualche parte, abbiamo fretta, dobbiamo entrare tre minuti in tabaccheria per comprare un pacchetto di sigarette, in quel momento noi non troviamo parcheggio e lasciamo bellamente la macchina in doppia fila e non ci poniamo la domanda: “Sto pensando ai diritti degli altri?”. E quando dobbiamo fare la dichiarazione dei redditi, o quando viene (mi dispiace, l’esempio è sempre lo stesso) l’idraulico a casa a fare una riparazione o quando andiamo da un avvocato, un dentista, un medico, un consulente professionale ed è il momento di regolare la prestazione che è stata realizzata e ci passa per la testa (vuoi perché la proponiamo noi, vuoi perché viene proposta dall’altra parte), l’elusione dell’IVA, ci stiamo ponendo la domanda “quali sono i diritti degli altri”? Questo è proprio il punto di incontro tra tutte le norme: la tutela degli interessi di tutti. E allora, se noi vogliamo rappresentare la nostra solidarietà, cioè evitare la solitudine per quei soggetti che vivono dei momenti di particolare responsabilità, in ordine all’interesse collettivo, e che a fronte di questa responsabilità si trovano in conflitto addirittura, talvolta, con delle istituzioni, il modo che abbiamo per farlo è rappresentare con la nostra vita, con le nostre scelte, nel nostro livello di responsabilità che per noi le norme sono importanti e che, quindi, è importante chi tutela le norme, non solo in termini di repressione: è importante anche chi le interpreta, chi ne vive gli effetti e il potere.
Io dovrei parlare del mio libro ma in realtà la storia di mio padre (che poi sono convinto la gran parte di voi conosce nel dettaglio) stimola tutta una serie di considerazioni da rapportare all’attualità: perché anche io sono preso dalla domanda: “É peggiorata la situazione?” e sono molto affascinato dalla domanda di Manlio Milani: “Che cosa spinge un uomo a impegnarsi per il Paese a sacrificarsi per gli altri?”. Che cosa lo spinge? L’onestà? Il senso dello Stato? Il senso del dovere? L’integrità? Forse c’è qualcosa prima che unisce tutti questi aspetti che, in una parola, è la consapevolezza. La consapevolezza delle proprie potenzialità, dei propri limiti, del proprio potere, del proprio tempo, inteso come il fatto che c’è un prima e un dopo rispetto a noi, del contesto nel quale viviamo, del rapporto fra tutti questi elementi messi assieme. E penso che ci siano persone (e mio padre con la sua vita dimostra di essere uno di questi) che ascoltano la propria consapevolezza. Perché ce l’abbiamo: possiamo fare finta di niente, possiamo divertirci o chiudere gli occhi o abbatterci, ma essa c’è in noi. Possiamo investirci e svilupparla meglio. Penso che l’onestà, il senso dello Stato ecc. siano manifestazioni di questa consapevolezza. Così come, in un certo senso, è manifestazione di questa consapevolezza un’altra caratteristica della storia di mio padre: l’amore per il Paese. Mi appello all’esperienza di ciascuno: l’amore per il Paese, cioè l’amore, nella vita di ognuno, è qualcosa che non può che essere disinteressato. Se c’è dietro un interesse, è qualcosa di diverso: non dico un interesse nel senso economico materiale, anche un’aspettativa, un’ambizione: allora non è più amore. E la consapevolezza anche di questo amore è la base. A cosa ci serve però una considerazione di questo genere (ammesso che sia giusta, è semplicemente la mia opinione)? Ci serve nella prospettiva che dicevamo prima: analizziamola per usarla. Ma uno dice: “Come lo creo l’amore? Come creo negli altri la consapevolezza?”. Non è facile, assolutamente non lo è! Gli esempi, però, ci rappresentano almeno che è possibile essere così. E l’esempio di mio padre ci consente di vedere come queste caratteristiche nella sua vita siano state declinate in maniera tale da rappresentare con evidenza la negazione di alcuni luoghi comuni, tipo: non è possibile, quando ci si scontra con il sistema, non omologarsi; non è possibile, quando si arriva a un certo livello di potere, non accettare i compromessi (poi qua lascio alla fantasia di ciascuno scegliere gli altri “non è possibile”, ce ne sono tanti: alcuni servono per assecondare un sentimento di rassegnazione che talvolta è legittimo che ci colga; altri per giustificarci quando noi accettiamo il compromesso come regola o accettiamo di considerare il potere come qualcosa cui è meglio appartenere piuttosto che come un esercizio da realizzare per il bene di tutti). È invece possibile, e quando noi sappiamo che una cosa è possibile (chiunque di voi faccia uso di videogame – e dico “faccia uso”, perché alla fine si tratta di una specie di droga – sa sempre che c’è uno schermo dopo e che, quindi, è possibile superare quegli ostacoli veramente incredibili che talvolta ci capita di incontrare in quei contesti) lo sappiamo sulla base di una esperienza realizzata, tra l’altro realizzata da qualcuno che non era niente di diverso da noi: mio padre non è cresciuto né si è formato per arrivare ad essere un uomo delle istituzioni; era un libero professionista, un avvocato: pochi lavori più di questo, nell’immaginario collettivo, rappresentano un interesse privato; non si è formato per affrontare il contrasto alla criminalità, addirittura mafiosa, che invece poi ha incontrato nella sua vita. Allora quando noi incontriamo gli esempi di persone così normali ci possiamo fortificare nella nostra legittima ambizione (quando la scopriamo o quando ci accorgiamo di averne più di quella che pensavamo),di poter continuare a essere gli uomini che vogliamo essere, di poterci non piegare né omologare, di poter credere nell’uomo. E gli esempi fanno cultura e la cultura cambia. Ora, è proprio a ragione di questo percorso che cerco di rispondere, magari erroneamente, al quesito seè peggiorata l’Italia di oggi rispetto all’Italia di allora?. Secondo me il problema non è se è peggiorata o meno, il dramma è che non è migliorata di molto. Non lo è in maniera e misura direttamente proporzionale alla quantità di esempi positivi che ci potevano consentire di migliorare. Non penso che sia peggiorata di tantissimo. Io la storia degli anni ’70 l’ho studiata (non con l’approccio propriamente da storico, poiché non è il mio mestiere) per scrivere questo libro, per cercare di ricostruire la cornice nell’ambito della quale mio padre ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, per cercare di vedere come le sue scelte forse siano state condizionate un po’ anche da ciò che succedeva intorno, e non solamente in Italia; e devo dire che era un’ Italia con molte differenze rispetto a quella attuale: un esempio tutte le problematiche legate alla violenza politica che hanno molto condizionato tante persone che hanno agito in quegli anni, anche in ruoli di responsabilità, che hanno a loro volta condizionato in termini incredibili la storia del nostro Paese. Ma vedete: la cosa che più mi ha colpito, guardando quei segmenti dell’ Italia di allora, questo di cui sto parlando adesso, è che è passato, che è stato sconfitto; e non è stato sconfitto perché è stata fatta la legge che funzionava bene, ma perché il Paese, a fatica, nei suoi diversi settori, ha dato il suo contributo perché quel fenomeno venisse sconfitto.
Allora sono state fatte delle norme che potessero consentire la realizzazione di processi con determinate caratteristiche, per esempio che potessero incentivare il pentitismo, anche se quelle norme poi (come si può vedere un esempio in Benedetta Tobagi) hanno anche delle rappresentazioni, degli effetti non tutti positivi; però per sconfiggere quel fenomeno ci sono stati. Poi ci sono stati uomini che hanno vissuto la propria responsabilità nella repressione di quel fenomeno, e l’hanno represso; ci sono stati politici che al di là delle norme hanno saputo dialogare, cogliere e consentire che certi temi venissero affrontati in maniera tale da togliere loro quella dimensione che per alcuni era d’emergenza o di rivoluzione, e farli invece diventare temi del dibattito, temi in relazione ai quali cercare soluzioni.
Poi ho visto un’ Italia dilaniata da un sistema di corruzione, e la storia nella quale si sviluppano gli ultimi anni di vita di mio padre ci presenta corruzione allo stato brado, soldi pubblici utilizzati per soddisfare interessi privati, gente che abdica, cambiando totalmente, alla propria responsabilità pubblica per assolvere alla propria ambizione privata (propria o del proprio clan, gruppo) in una maniera meno trasversale di adesso perché riguardava principalmente gli schieramenti di maggioranze e, soprattutto, di certo, il partito di maggioranza di allora;dall’altra parte l’opposizione era, per l’osservazione che ne ho tratto io, cieca, incapace di vedere in storie come quelle ( mi riferisco a prima dell’omicidio di mio padre) gli argomenti con cui marcare la differenza: di qua stanno le persone che credono nella legge, nel significato delle istituzioni, e di là ci stanno quelli che parlano con Sindona! No, incapaci, incapaci…
E mi sembra che il tema della corruzione, non nella prospettiva che dicevo adesso,non sia stato oggetto di grandi metabolizzazioni da parte del Paese al punto tale da poterlo considerare superato, risolto, anzi! E sono tanti i temi dove il miglioramento c’è stato molto meno di quello che poteva esserci; poi ci sono più che altro dei lampi, delle isole. E torniamo al discorso della cultura perché io nel discorso pronunciato recentemente dal Presidente di Confindustria e, due anni fa, dal Presidente della Confindustria siciliana, con il quale veniva annunciato l’allontanamento da Confindustria degli associati che pagano il pizzo, vedo l’effetto di quell’approccio culturale che dicevo prima: trent’anni fa o poco più nel nostro Parlamento si discuteva se avesse senso o meno l’istituzione di una commissione antimafia; gli argomenti per il no erano i seguenti, molto sintetizzati: la mafia non è un fenomeno unitario, è un insieme di bande ciascuna delle quali ha il proprio fine, non possiamo fare una commissione antimafia per tutte le bande che ci sono. A distanza di poco più di trent’anni da allora, oggi cosa sia la mafia lo sappiamo tutti, cosa sia viene insegnato nelle scuole insieme con gli esempi di tutte quelle persone che hanno dimostrato con la loro vita quanto il contrasto alla criminalità organizzata mafiosa sia necessario. I loro esempi, che sono esempi di responsabilità, esempi di uomini, sono insegnati ai bambini delle elementari e più su fino alle università: l’effetto è quello di produrre una consapevolezza migliore, anche di come ciascuno possa dare un contributo per opporsi a quel fenomeno; e quella consapevolezza maggiore viene vissuta da chi ricopre i ruoli di responsabilità all’interno di Confindustria, producendo una norma buona. Allora, è meglio l’Italia di oggi o è meglio l’Italia di allora? Siamo al novantesimo minuto e siamo ancora zero a zero. Qualcuno ha detto: secondo me sarebbe meglio un altro esempio: il boxeur che torna all’angolo e chiede al suo aiuto: “Come sto andando?”, e l’altro gli risponde: “Se lo ammazzi, siete pari”. Però non ho la sensazione che siamo peggiorati di molto, ho piuttosto la sensazione che oggi abbiamo meno alibi; lo scenario internazionale, le grandi divisioni che allora hanno consentito, pure a livello locale, grandi spaccature da utilizzare come alibi per far passare tante cose, oggi non ci sono, oggi è tutto molto più alla portata di ciascuno di noi. Dobbiamo forse fare uno sforzo in più per rendere possibile un’affermazione più diffusa della consapevolezza e, quindi, della responsabilità e del fatto che tutti abbiamo un ruolo. Lo possiamo fare a partire dal concetto di eroi: Giorgio Ambrosoli è un eroe? No, a me verrebbe da dire di no, se questo “no” serve per far riflettere sul fatto che alcune delle persone che hanno sacrificato la loro vita per il nostro Paese sono, prima che persone straordinarie, degli uomini che non avevano niente di diverso da tutti noi: mio padre aveva il suo studio, la sua famiglia, ha vissuto la propria vita di uomo, di cittadino, di professionista in un determinato modo; è stato chiamato a delle responsabilità maggiori, ed ha continuato a viverle in quel modo. Gli eroi non sono persone straordinarie (mi riferisco alla tipologia di eroismo del quale stiamo parlando), sono persone che hanno saputo essere normali in un contesto sociale che aveva fatto un passo indietro. Questo per dire che tutti noi abbiamo un pochino di responsabilità nel momento in cui consentiamo che la nostra società stia un passo indietro, lasciando avanti solo persone che si trovano a quel punto necessariamente isolate.
Se oggi, a trent’anni di distanza, siamo qui a ricordare mio padre è perché il suo esempio ancora ci può essere utile, per ricordarci che genere di cittadini possiamo essere prima ancora che per ricordarci quanto brutto sia il contesto dove le ambizioni personali accettano di affermarsi attraverso le violenze, il crimine, l’illegalità; prima di tutto ci ricorda che genere di cittadini possiamo essere.
Testo non rivisto dall’Autore