Vorrei proporvi un aperitivo, poi alcuni piatti più pesanti: come vivere la vita intellettuale sotto le condizioni della post-modernità, della nostra mentalità vigente e, successivamente, una lunga sequenza musicale sull’arte del leggere. Aperitivo o, meglio, ouverture divertente: la gioia di imparare è indispensabile agli studi quanto lo è la respirazione per i corridori: “L’intelligenza si accresce e dà frutti solo nella gioia”, così afferma Simone Weil nel suo saggio sull’utilità degli studi per favorire l’attenzione alla preghiera o Agostino: “Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra” e, ancora, il motto del libro di Roberta De Monticelli “L’allegria della mente”. Senza questa allegria , senza il divertimento, senza l’allargarsi dei polmoni, senza vitalità non si combina niente. C’è una musicalità, una colore, un ritmo, una melodia di fondo, una consonanza nelle cose che ci riescono; la prima parola dello studio, ma anche di ogni azione e passione umana, è questa. E da lì nascono tante cose, per esempio la gioia della con-creatività fra me e gli altri, un rapporto stimolante e incoraggiante che io cerco di vivere come insegnante e moderatore di tesi. C’è, in fondo, un diletto, un fascino: cosa mi affascina? cosa mi attira? dove il mio naso, il mio fiuto annusano qualcosa di fecondo di cui nutrirmi? Questo istinto quasi instinctus divinus ci pilota e ci fa trovare i campi, i giardini deliziosi delle “affinità elettive” dello spirito; tornerò a questo punto che qui ho soltanto intonato. Dunque, un invito a questo tipo di approccio dove tutte le falde dell’anima e della sensibilità collaborano: trovare qualcosa che mi attira, mi sostiene e mi apre nuove porte in questo senso. La vita intellettuale non è pensabile altrimenti, ma questo vale anche per la vita di un bottegaio o di un artigiano che sa fare il suo mestiere e lo ama; guai se non ha un pizzico di questo slancio vitale!
Sinfonia seria: la post-modernità come condizione del nostro lavoro intellettuale. C’è una strana contraddizione nel nostro stile di vita: da un lato ci sono un pathos ed ethos e una sensibilità della relatività del tutto (tutto è contingente, effimero, finito); dall’altro c’è un pathos del possibile: delle possibilità sconfinate di viaggiare, di comunicare, di navigare su internet, di trovare sempre nuovi nessi; ci perdiamo nella selva sterminata delle possibilità virtuali fittizie e anche reali. Come muoversi in questo ambito? Non meraviglia che oscilliamo fra isterismo (dunque sempre nuove possibilità, sempre nuove risorse, sempre nuove bibliografie) e depressività. Mi pare che questa sia l’oscillazione tipica dello studente ma anche dell’uomo di oggi: da un lato insaziabile e insoddisfatto perché si potrebbero sempre scoprire altri nessi, dall’altro depresso per la limitatezza di ogni ricerca, di ogni progetto. Tra questi due poli propongo, da un lato, la benedizione del limite: io sono soltanto io, con la mia piccola intelligenza e con la mia forma di stupidità; il 98% della realtà, perfino nel mio campo specifico, mi sfugge: così io passo per un conoscitore di Hegel o di Sant’Anselmo e il 99,58% della letteratura su Hegel non l’ho letta! Ma cosa vorrei leggere io? Torno a questo punto: quali sono i criteri? La frase che ripeto più spesso con i miei studenti è questa: questo lei non deve leggerlo… risparmiamoci tutta questa fatica! Quando mi portano biografie esagerate, fuori luogo, cancello il 90% perché non serve; non serve per il taglio di una determinata tesi o impresa. Dunque, definirsi, trovare il focus del mio lavoro: cosa voglio? Qual è il punto saliente della mia impresa? A volte mi domando, prima di una lezione o la sera prima di predicare: domani nella tua lezione e nella tua predica ci sarà almeno un pensiero vero? O sono soltanto dicerie, flatus voci, ripetizioni stantie? C’è almeno un pensiero vero attorno al quale si organizza tutto il resto? E quando lo trovo, appunto, lo vedo: è il baricentro del terremoto, è il fiore che anima tutto, è la luce che rischiara, la morena terminale del mio sapere. Dunque, abitare la propria finitezza benedicendola e accettandola come benedizione: questo vale per qualsiasi progetto di vita. Ho un partner, un progetto, solo uno. Eppure,ovviamente, lentamente la cosa si allarga , si crea una rete di associazioni; ogni libro, ogni lettura non aumenta soltanto quantitativamente ma anche dimensionalmente il mio sapere. Dunque, gestire la propria vita fra l’illuminismo, con senso critico per la finitezza e il piccolo progresso, e il nostro romanticismo illusionario: questa è, ovviamente, una navigazione non facile nella coltivazione del giardino della nostra cultura. Qui ci vuole una vera ascesi: rinunciare a tante informazioni, tanti eccessi e seguire una, due o tre linee per la mia ricerca; e ci vuole anche una mistica: la gioia di entrare dentro le viscere, dentro le intimità di un sapere, la gioia di entrare in amicizia con un autore e conoscerlo più dal di dentro.
Secondo punto: estetica. L’uomo post-moderno è estetico e in questo senso, mi pare, vale già per l’idealismo tedesco (per Kant nella Critica del giudizio, per Hegel nell’Estetica), e questo è un fulcro del pensiero e della sensibilità. Non c’è oggi vita intellettuale senza una scuola dei sensi, altrimenti perdiamo la bussola e ci perdiamo in astrattezze.
Scuola dell’udito: a che cosa presto il mio orecchio? Scuola dell’occhio: guardare per venti minuti una tela di Caravaggio, di Klimt, una scultura, un volto per trasformare la sembianza, lentamente, in un volto che mi riguarda, in un rapporto di rispetto. Questo esercizio dà moltissimo: accresce, approfondisce la nostra sensitività, è un atto intellettivo. Dunque leggere, guardare, sentire di modo che l’oggetto del mio sguardo rivesta uno statuto di soggetto, mi venga incontro, mi abbia da dire o da mostrare qualcosa finché una tela, appunto, non sia più un oggetto del mio sguardo ma mi riguardi.
Tatto squisito, la sfera di distanza e vicinanza, di stacco e coinvolgimento che ritma ogni rapporto decisivo tra uomini, tra uomini e testi; coinvolgimento e distacco e, possibilmente, più l’uno, più l’altro. Coltivare questo ritmo mi pare essenziale per la sapienza, per la conoscenza. Il gusto, infine (Kant ha scritto molto sul giudizio del gusto), che fa leva sulla libertà tua e mia è per questo, di per sé, democratico; ecco, vedete, qui ci vuole un’intera scuola, un tirocinio per la prassi della scienza: perché molto nasce dall’intuizione, dal fiuto, dal tatto. Ma qual è la pista giusta? Se l’intuizione non collabora, anche la scienza non può funzionare, per non parlare della prassi professionale: un medico che non abbia una sensibilità dell’occhio diagnostico ed empatico, che non abbia un orecchio musicale per l’andatura di una vita, non abbia un tatto, un tocco sicuro non merita il suo ruolo! E lo stesso vale per un filosofo, per un teologo ad esempio nella prassi della cura d’anime; e vale per tante materie, ovviamente anche per le scienze letterarie che vivono di questa sensibilità nell’approccio alla poesia, a un romanzo: non è soltanto un’ analisi del testo!
Terzo punto, xenologia: essere aperto, non per tutti: nessuna persona umana è aperta a tutti – questo non ci è dato – ma almeno essere aperto. Oggi perfino i vescovi affermano che dobbiamo essere aperti a tutti, ma questo è impossibile! Non abbiamo i nervi né la stoffa. Pensate che io non faccio nemmeno bene a tutti i miei studenti e per questo essi vanno a consultarsi anche con altri docenti: grazie a Dio non tutti alla Gregoriana fanno il dottorato con me! Io sono fatto soltanto per alcuni, non per tutti. Vedete, di nuovo, la benedizione del limite: per che cosa e per chi sono fatto io? Eppure dobbiamo tener conto del fatto che c’è l’estraneo che incrocia la mia strada: esporsi a un tale, esporsi a domande che mi sono scomode, guardarsi da fuori, leggere testi che non mi sono simpatici; leggere non tutti i testi ma almeno quelli che incrocio, che incontro; in più, non c’è un vero incontro senza un che di scontrosità che mi metta in forse, che mi inneschi delle domande, dei dubbi; leggere, dunque, testi non soltanto di conferma, ma testi ai quali devo espormi, che mi mettono in forse e in questo modo mi arricchiscono. Ecco, guardarsi da fuori. Se la Chiesa si guardasse con gli occhi degli illuministi, almeno a volte, e questi ultimi con la sapienza immemorabile dei santi: che incrocio, incontro felice! Io ho sviluppato un metodo, sotto questo titolo: “Rapporto di saluto tra mondi che non si parlano”; è ormai uno dei miei pochi diletti! Mistica ed illuminismo, illuminismo e romanticismo; per esempio autori come
Schleiermacher e Hegel, io amo ambedue, loro decisamente no, non si sono amati; sì, si sono scambiati gli indirizzi dei mercanti di vino, su questo il rapporto ha funzionato, ma per il resto… Dunque, stabilire rapporti di colloquialità, di conversazione sciolta e colta tra mondi che si sono scomunicati o non incontrati fa parte della gioia dello spirito!
Quarto punto, fenomenologia: c’è una sensibilità fenomenologica, cioè ogni disposizione dell’animo, ogni tipo di domanda dischiude un suo mondo, un suo estratto dell’universo; questo funziona, umanamente, in modo automatico: con la mamma parliamo un linguaggio particolare che non utilizzeremmo mai in presenza del vescovo o di un compagno di scuola o, anzi, di un amico. Si crea un’altra sfera, un altro linguaggio, un altro tipo di sensibilità, un altro squarcio del mondo. Siamo tutti fenomenologici, e descrivere questo, avere una consapevolezza di prospetticità del nostro approccio, definire la propria prospettiva – torno così al primo punto: finitezza – fa parte del nostro mestiere. Ed anche qui devo aprire una parentesi. È mia esperienza che ogni grande materia chiede e rende possibili almeno una decina di approcci: per comprendere ciò che il fascismo era ci vogliono, ad esempio, approcci diversi di tipo culturale, economico, politico, sociale, psicopatologico e quant’altro. Ma questo vale anche per la mariologia, bisogna cercare di capirla a partire dalla Grazia, da Cristo ma anche in relazione agli apostoli, al rapporto con la Chiesa; altrimenti non si capisce niente di ciò che è la mariologia e Maria stessa. E ancora: l’eucarestia è pasto fraterno, come si suole comunemente dire dopo il Concilio Vaticano II, sacrificio, oblazione, presenza reale ma è, allo stesso modo, anche parola di Dio rivolta a me, preghiera di lode. In tal modo siamo in grado di dare ogni volta un altro taglio longitudinale, trasversale ad un fenomeno e mettendo insieme molteplici aspetti comprendiamo di che cosa si tratta. Questo vale anche per gli autori: un autore come Küng, certamente un teologo liberale con il suo ethos mondiale… l’abbiamo etichettato e archiviato, ma che ricchezza in quest’uomo! Il suo libro su Karl Barth, su Hegel, sulla Chiesa, sull’essere cristiani; poi ovviamente il suo impegno per l’ethos mondiale, una così grande ricchezza di aspetti in un unico autore. Credo che la nostra scienza sia proprio questo: l’arte del dispiegarsi di più aspetti e poi dell’impiegarsi nel mettere insieme e soprattutto nel tenere insieme questa varietà. Per me è sempre un diletto straordinario assistere a questo dispiegarsi del ventaglio di approcci e al suo ricomporsi.
Quinto punto, ermeneutica: siamo oggi tutti artisti nel tradurre tra mondi – l’ho già detto sotto xenologia – siamo artisti del transfert, della trasposizione, del tradurre; per questo l’ermeneutica da Schleiermacher fino a Gadamer e Ricoeur e la scienza o, meglio, la sensibilità, il pathos e l’ethos della scienza, sono così importanti. Importantissimo è farsi mediatori tra mondi, saper cogliere il testo da diverse angolature. Siamo interpreti nella prassi della vita e, ovviamente, anche nella nostra scienza.Quale è il rapporto fra la nostra lettura e ciò che un testo, un sinonimo, un simbolo possono dirci? Forse potranno dirci tantissime cose. Umberto Eco ha portato tutto questo all’ennesima potenza: la scienza dell’ermeneutica infinita, per questo è divenuto anche un romanziere, perché la scienza non bastava per esprimere questo piatto succulento delle possibilità di interpretare (quasi il nuovo sacerdote di questa gran religione soft).
Sesto punto, ambivalenza: una categoria che, ahimè, nel Cristianesimo non ha la dovuta risonanza. Abbiamo tutti sentimenti misti quando vediamo una faccia e il nostro approccio ai genitori, ai figli, alla religione, alla nostra vita, a tante persone, ai politici è tutto segnato da sentimenti e valutazioni oscillanti, contraddittorie, da compromessi storici, da ambivalenze di frequenza, dal sovrapporsi di più voci. Gestire questo è un’arte e già confessarselo non è facile: le nostre valutazioni, intenzioni e sentimenti nei confronti di tutto, perfino di Dio, anzi, forse, soprattutto nei confronti di Dio, sono di un colore assolutamente variopinto e cangiante. Oggi mi sembra faccia parte dell’arte di vivere e dell’intellettualità avere un occhio molto acuto per questo.
A questo punto dobbiamo toccare un’altra corda: fa parte dell’ambivalenza che ogni cosa sebbene di per sé buona, non sia semplicemente sé stessa ma giunga, ad un certo punto, a un momento critico nel quale si ritorce contro se stessa. Quando si è troppo intellettualisti, l’emotività si vendica e implode o esplode. Quando faccio troppo sport mi ammalo o devo ricorrere al doping. Il progresso in campo medico ha prolungato vertiginosamente la nostra vita, ma a che prezzo: ormai sopravviviamo a noi stessi. Quando sono troppo devoto divento un dogmatico di ferro e pecco contro la pietas religiosa …e così via. Dunque, quando sono troppo madre trascuro il marito e schiaccio i pulcini. Chi non è integralmente prete, così come anche artista, scienziato, genitore, insegnante, non lo è ancora, ma chi lo è soltanto e troppo, non lo è più. Un crinale molto sottile sul quale si muove la nostra vocazione, ascesi e mistica dell’atteggiamento nel regno dell’ambivalenza.
Da tutto questo nasce uno stile, parola questa che amo. Lo stile è il connubio fra tradizione e spontaneità, fra ciò che fanno tutti e ciò che è la mia impronta individuale, fra le mie debolezze, perché anche quelle fanno parte della mia persona, e i miei pochi punti di forza. É fondamentale trovare lungo la vita uno stile, senza stilizzarsi, senza sposare un solo tratto della mia persona, senza enfatizzare un solo carattere. Spesso invece enfatizziamo la nostra infelicità, la nostra insoddisfazione e diventiamo così un “tipo”: è quasi inevitabile quando uno non si autocomprende nella propria multiformità. Alcuni aiuti ancora in questo, riguardo allo stile: prendete un foglio bianco, ogni settimana, e annotate venti trenta aspetti della vostra persona, della vostra vita ai quali non vorreste rinunciare (possono essere tratti importanti: la fede, l’intelligenza, l’affabilità, ma possono essere anche piccole cose di cui avete comunque bisogno nella vostra vita: la birra la sera, per esempio, se è importante per la vostra vita); poi fate, dopo circa una settimana, una gerarchia: forse la birra la sera è più importante della religione nell’economia della vostra anima; senza dogmatismi descrivete il paesaggio della vostra vivibilità, le componenti del vostro stile. Oppure scrivete i venti concetti o le venti espressioni che ricorrono nel vostro linguaggio, che ripetete continuamente nel vostro gergo politico, ecclesiale, scientifico e umano e le parole che non usate mai benché di per sé nel vostro ambito, magari, siano molto correnti. Io potrei prendermi come cavia ma otterremmo un risultato troppo vistoso; forse avete già intuito ciò che dico e ciò che non dico. Così uno stile deve subire una supervisione: cosa cito e cosa non cito, quali parole uso e quali no e così via; questo potrebbe aiutarci a trovare, a cogliere, almeno in parte, ciò che siamo.
Interrompo per dirvi qualcosa sull’arte del leggere. Perché leggere, quando e come, sono cose elementari di cui però quasi nessuno parla nel mondo accademico; tutto questo è dato per scontato, ma in verità non lo è. Perché leggere? La prima risposta è molto semplice: per avere qualche amico in più in camera, per popolare e irrorare la mia solitudine, per trovare amici che mi accompagnino; io ho libri in camera mia che mi accompagnano da cinquantacinque anni, per esempio le fiabe di Andersen, grazie alle quali ho imparato la pietas, ricordo il soldatino di stagno, la piccola fiammiferaia, davvero incantevoli fiabe. É la trasformazione delle cose toccate dalla Grazia, questo non l’ho imparato da bambino dalla Bibbia ma dalle fiabe di Andersen e me le ricordo ancora oggi. Poi potete scegliere a lungo andare venti, al limite anche trenta libri “da farmacia”, da conforto e consolazione da tenere vicino al vostro letto. Quali libri mi consolano, confortano, sollevano, fanno respirare? Per quanto mi riguarda non posso non citare i colloqui di Goethe, i Saggi di Montaigne, Paradosso e Mistero della Chiesa di De Lubac: libri di estrazione diversa. Tra libri di meditazione, forse anche qualche romanzo, per me anche Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann è di un epos inesauribile; spesso la sera ne leggo una pagina ad alta voce: pace, serenità, umorismo! Dunque fondamentale è questa piccola farmacia spirituale ed intellettuale, la ritengo davvero utile, anzi, salubre e salvifica. Sarebbe bello per ognuno di voi scrivere la propria “storia di lettura”: quali libri hanno lasciato un segno, hanno avuto un ascendente su di me, mi hanno fatto piacere, che libri importanti ci sono già nella mia camera e nella mia esistenza. Ceronetti, poeta e filosofo, ha affermato: “I libri importanti già ci sono!”. A questo riguardo ho un metodo che ho già usato due volte: il foglio bianco. Prima di leggere, prima di iniziare una ricerca, prima di accingermi a un lavoro, di conquistare un terreno, serve ciò che negli anni Sessanta si chiamava Brainstorm. Dobbiamo raccogliere ciò che sappiamo già, sappiamo molto più di quanto non crediamo: abbiamo già sentito tante cose, letto tante cose, tante cose ci sono frullate per la testa, raccogliere ciò che c’è già nel mio cervello, nella mia memoria prima di cercare, e poi dare un ordine a questo materiale. A partire da questo possiamo poi definire ciò che cerchiamo, ciò che ci manca ancora, altrimenti barcolliamo in una nebbia sconfinata.
Ultima risposta al perché leggere: perché la lettura favorisce la tensione ospitale. Simone Weil ha dedicato un intero saggio a questo, la tensione non è una contrazione dei muscoli, un aggrottare le sopracciglia, un usare la ruspa per conquistare un terreno, è, appunto, un qualcosa di ospitale: io ospito un libro, gli dedico attenzione, presto un orecchio, questo è un atto di libertà che poi suscita movimento. Vi è infatti un vero e proprio spostamento tra l’atto di coinvolgimento (la cosa ha un ascendente su di me) e, di nuovo, di distacco: questa è la gioia della lettura, questo movimento peristaltico dello smaltimento. Esistono anche le “budella intellettuali” ma che funzionano in modo meno meccanico delle altre, dunque distacco e coinvolgimento; l’attenzione ospitale si muove tra questi due momenti.
Quando? Abbiamo tutti noi tanto tempo, io almeno ce l’ho, basta trovarlo. Prima proposta: ridurre del venti se non trenta per cento internet, gli sms e i contatti telefonici, che sono almeno per il trenta per cento superflui se non controproducenti, e dedicare questo tempo,per esempio, alla lettura; o anche a un “periodo di maggese”, all’annoiarsi in modo fecondo. Lo faccio spesso la domenica pomeriggio: sto nella mia sedia a dondolo e mi annoio mortalmente, ah, così l’anima si rigenera. La lingua italiana sa tutto, si deve solo prestarle orecchio cogliendo il momento opportuno: per me è la mattina fra le 7 e le 10, per altri la sera; cogliere il momento in cui sono all’altezza di me e di questo tipo di ricettività. Queste poche ore della giornata, della settimana vanno valorizzate; per me il sabato è stato sempre la festa della lettura dei grandi testi: otto dieci ore di lettura persistente, accanita, accogliente e così mi si apriva un orizzonte. É così che si studia; almeno una giornata, il sabato nel mio caso, era sempre riservata a questo quando ero studente e anche come professore faccio spesso così. La gioia della scoperta di un grande autore, di un arcipelago di pensieri. Avere sempre quattro o cinque libri sulla scrivania che mi aspettano, che mi guardano e sarò poi io a scegliere.
Ecco un’altra questione importante: i tempi interiori, come leggere. Io ho un rapporto molto regolare tra la scrivania, la finestra e la sedia a dondolo perché quando si sta da soli al tavolo ci si contrae e si crea una forzatura. Dopo un’ora di lettura o di scrittura io mi metto alla finestra e comincio a sognare, guardo il cielo e farnetico, oppure mi metto nella sedia a dondolo e lascio che la questione si decanti; poi emergono le domande, i commenti, le idee e il terreno propizio dell’anima dà i suoi frutti. Dunque, i miei spostamenti nella ricerca, sembrano cose banali, ma non lo sono; perché quando si sta soli alla scrivania si crea una forzatura, quindi bisogna cambiare posizione, smaltire, abbandonarsi a un tempo di maggese per favorire la crescita del futuro grano. Questo è quello che ci insegna la sapienza benedettina. Può essere utile anche, a questo punto, la preghiera, come momento di raccoglimento, a volte vado anche in chiesa, perché la chiesa è uno spazio ampio, aperto, luminoso. Io mi metto nell’ultima panchina, io sono ahimè prete ma preferirei stare nell’ultima panchina e guardare lo spettacolo, la magnificenza: ah, si respira! Lì spesso mi faccio questa domanda: cosa dirò domani nella lezione, esprimerò un pensiero vero, c’è un punto saliente, c’ è una prospettiva che illumina tutto il resto o starò semplicemente lì e rivestirò un ruolo? Stupefacente è la spazialità del pensiero che deve espandersi e trovare la giusta collocazione, prospettiva e sedimentarsi. Sono piccoli metodi, anzi la parola metodo è già troppo aulica, sono piccoli trucchi del mestiere e della gioia dell’intellegĕre.
Sotto comma: ancora leggere, ma quali testi? Scrivere su un foglietto: cosa mi servirebbe, cosa mi piacerebbe, a cosa aspiro; così si crea un criterio di discernimento, ovviamente ognuno sviluppa anche un suo fiuto come fanno i cinghiali, sotto il fogliame, trovano i tartufi, li indicano e poi noi li mangiamo, è una delicatezza. I cinghiali trovano sotto il fogliame una cosa preziosa; figuriamoci noi con il nostro fiuto cosa possiamo trovare. Intellegĕre: la prima cosa che faccio con un libro è meditare l’indice per venti minuti: cogliere la dinamica, la linfa vitale, il ritmo, la struttura, la logica di un testo. L’autore ci ha messo anni per scrivere il libro e per strutturarlo in questo modo; è un atto di cortesia ma anche di primo orientamento. E così io noto già le prime tematiche, le prime suggestioni, i sospetti, le critiche, i pregiudizi e poi decido cosa leggere; poi leggo anche l’introduzione e la conclusione dei romanzi. Così facendo si legge il romanzo con “altezza”, non solo con l’attenzione a come andrà a finire, ma anche a come il romanzo è tessuto, si coglie maggiormente la raffinatezza, l’intricatezza del canovaccio ma anche della messa in scena del romanzo. Ogni volta poi che mi appresto a leggere un capitolo cerco di sorvolare l’argomento, di guardarlo come da un aereo, per avere il ritmo dell’insieme e per non inciampare sui dettagli, sugli errori, sui salti logici che ci potrebbero essere, perché ogni testo ha tante magagne, perfino in Hegel. Ci si imbatte in tantissime piccolezze che non quadrano; quando invece si coglie la linfa vitale, la dinamica di un capitolo ci si orienta meglio. Certo, poi si passa ad una lettura più attenta, quasi pedissequa e poi di nuovo si prende il volo, si deve “respirare” nel testo; così come si fa con una persona: si guarda il volto e si sa già tutto. Io ho lavorato per dieci anni in manicomio e con le persone in crisi la prima stretta di mano decideva quasi su tutto, la prima diagnosi era fatta. Questo vale per ogni professionista, ovviamente poi si deve elaborare la concezione, seguire le “faglie” della vicenda, del rispettivo caso, della rispettiva persona.
Chiudo con la lettura: raramente lascio un testo senza un mio piccolo commento su un foglietto di carta che poi metto nel libro e lascio tanti appunti nell’indice e nelle pagine importanti; soprattutto annoto la linea principale del libro, le argomentazioni. Scrivo se mi ha convinto: io inizio sempre con la positività, fa parte dell’ascesi, perché criticare è facile. Ma criticare il libro essendo all’altezza del libro stesso richiede una lunga fase di lettura empatica; criticare Hegel ad esempio è ormai diventato uno ”sport” della Chiesa cattolica, ma, solitamente, le critiche sono così al di sotto del livello di Hegel che non le leggo, non meritano. Mentre fondamentale è cogliere il punto critico, dove un grande pensiero o concetto si ritorce contro se stesso: ogni grande pensiero giunge a un punto critico dove si contraddice o dove diventa troppo trionfale e comincia a gettare ombre su se stesso. Questa scheda mi permette dopo cinque, dieci perfino trenta anni di rientrare in un testo in cinque dieci minuti, di essere di nuovo all’altezza, almeno, della mia lettura di allora; mi permette, come una rampa di lancio, una rilettura. Ormai ho raggiunto un’età in cui amo la rilettura, non compro più nuovi libri, rileggo quelli che già ho.
Termino ricordando che anche Gesù era un lettore: ha già stupito da dodicenne i dotti, in una crisi adolescenziale di rivolta ha fatto lo sputasentenze e sapeva già tutto, poi, commovente, nella sinagoga di Nazareth ha letto la Bibbia ed ha letto se stesso, ha letto con intensità il testo del profeta Isaia in cui ha capito il proprio destino, la propria missione, il mistero della sua vocazione. L’intensità della lettura di Gesù: archetipo di uno studioso e di una persona che trova nel leggere la sua vocazione e il suo destino.
RISPOSTE ALLE DOMANDE:
La concorrenza fa parte dell’affare, senza concorrenza, senza sfida non c’è torneo cavalleresco, dunque non parlerei male di questo. Compiacersi, convincersi, sfidarsi, concorrere sono cose normalissime eppure la scienza richiede anche l’arte della solitudine: una cosa che oggi sottovalutiamo. Parliamo continuamente di comunità, anche nel linguaggio ecclesiale, mentre in un matrimonio, in una famiglia c’è solitudine e non soltanto come cosa funesta. Poter stare da soli mi pare sia elementare per il semplice fatto che ogni persona umana è un solitaire, un gioiello, è incommensurabile e anche per certi versi incomprensibile, indecifrabile perfino per se stessa; dunque questa dimensione di ogni persona: per il suo stile, il suo sentire, valutare, guardare, per il rapporto con il suo Dio che è individualissima. Questa grandezza della solitudine nella nostra società non trova sbocco, è grave; la lettura è proprio un’esercitazione di questa solitudine feconda, c’è una gioia nello stare con noi stessi, abitare secum, prendere la propria anima, la propria sfera personale come una casa in cui trovarsi. Questa arte fa parte dello studio, altrimenti manca qualcosa; uno studioso deve avere non il culto, ma la cultura della solitudine e questo vale anche nella vita e anche in una famiglia; il rispetto della sfera dell’altro fa parte del contegno interumano.
Rapporto fra leggere e scrivere! In una conversazione di un’ora non si può fare tutto e qui troviamo veramente un punto critico del nostro lavoro. La maggior parte degli studenti legge troppo a lungo, raccoglie troppo a lungo materiale e non trova il punto di decollo della scrittura; perché ovviamente raccogliere materiale è più facile che non scrivere, scrivere è una faticaccia. Per questo io faccio fare, all’inizio della ricerca del materiale, già una griglia del futuro progetto e invito gli studenti a inserire tutto il materiale che trovano lì dentro; così le letture e la griglia si correggono a vicenda. Poi sono molto attento a incitare gli studenti a trovare il punto giusto per scrivere, io non posso scrivere senza avere un indice, una griglia, anche con titoli e sottotitoli appetibili. Già dopo la prima o seconda versione dell’indice parlo con lo studente del numero delle pagine che vorremmo dedicare ad ogni singolo capitolo, così si crea un senso delle proporzioni e si capisce quanto tempo investire sia nella ricerca, sia nella vera e propria stesura del testo. Si può fare anche come Thomas Mann: il pomeriggio leggeva il materiale e al mattino verso l’una scriveva; così la cosa si sedimentava durante la notte e poi rispuntava in modo maturo. I tempi e i modi di scrivere sono variegatissimi. Kierkegaard, ad esempio, era un grafomane, un pantografo, Kafka un nevrotico fino all’inverosimile con tutti gli pseudonimi eccetera. Ci sono poi quelli che sono ufficiali prussiani come Thomas Mann che si mettono alla scrivania e scrivono le loro due o tre pagine ogni giorno, ci sono quelli che devono aspettare il momento felice, l’ispirazione e poi scrivono per intere notti. Dunque in questo campo non ci sono leggi, io ho sempre raccolto tanto materiale e, solo quando materiale e struttura combaciavano, ho potuto iniziare a scrivere e ho scritto molto velocemente: giornate di scrittura, ogni giorno cinque o sei ore; ma mi ci voleva questa preparazione. Ci sono ovviamente anche tantissimi scrittori ai quali vengono le idee soltanto scrivendo; dunque lo scrivere è visto come un processo maieutico che tira fuori il “bimbo”. Ci sono studenti che non accompagno volentieri perché sono “selvaggi”, poco calcolabili, però non possono fare diversamente. Ovviamente questi ultimi devono intervenire molto di più su ciò che hanno rigurgitato, sull’eruzione vulcanica creativa e questo richiede una grande cura nella revisione del testo. Kierkegaard era uno scrittore e un teorico, un diarista, un artista, un uomo raffinatissimo nell’oscillare tra pseudonimo-anonimo, messa in scena di un testo in scatole cinesi ma questa ovviamente è una forma di scrittura particolarissima che io non raccomando; era ossessionato dal suo anti-idealismo, dalla sua avversità nei confronti del cristianesimo istituzionale, dalla sua immediatezza nell’impatto con la figura di Cristo.
Avete notato che io ho parlato con simpatia, con ovvietà, con naturalezza dei nostri tempi, questo è un tono che nella nostra Chiesa non è molto diffuso; noi siamo spesso a caccia di sintomi, parliamo “piagnucolosamente”, in modo aggressivo, dei nostri tempi: relativismo, nichilismo tutte queste sono etichette affibbiate al nostro tempo. Ovviamente anche a me molte cose non piacciono, spesso la vita di oggi mi dà sui nervi ma cerco comunque di avere un atteggiamento di apertura.
Sono giunto a due o tre convinzioni con le quali poi mi licenzio: ogni epoca è una porta in più e allo stesso tempo deve purificarsi, trovare il suo stile di rappresentare, di vivere il suo rapporto col divino e oggi su questo ci sarebbe da dire moltissimo: l’identità del cristianesimo sta per mutare, per trasformarsi in modo vertiginoso; ogni epoca ha il suo ingresso nel santuario e la sua forma di tormento e di sofferenza. Non ha senso vivere, seconda massima, nel risentimento perché il risentimento distrugge chi lo porta mentre gli altri se ne fregano; dunque il risentimento della Chiesa nei confronti della cultura attuale distrugge noi stessi, tutto lì. Terzo: accompagnare la propria vita con tutte le sue trasformazioni. Se guardo la mia vita: come sono stato quarant’anni fa da studente, da adolescente, da giovane sacerdote, da infermiere nella cura d’anime, da giovane professore…. quante stagioni, quante trasformazioni, quante nuove costellazioni e prospettive; eppure ci sono ancora,posso ancora parlare di me. Ecco il mistero dell’identità: tante vicissitudini,un abisso e una grazia.
Voglio dare questo consiglio a voi studenti e agli studenti di altri continenti. Ricordo tante cose dimenticate ma quasi mai con il pungolo del contro, dell’anti, del risentito, dell’offeso; sono ferito anche io da tante cose del nostro tempo, ferito sì, ma non risentito. Sono tre regole che potrebbero aiutare a navigare nel nostro tempo con un po’ della spigliatezza di Gesù che ha criticato anche i farisei e in questo atteggiamento io vedrei un’affinità remota, bella, fra le coordinate della sensibilità postmoderna e un cristianesimo amabile e vivibile; e io vorrei che il cristianesimo in Italia vivesse proprio in un tale clima.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 26.2.2010 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.