Innanzitutto, io vi ringrazio, perché per me tornare a Brescia è un po’ come tornare a casa. Ho lavorato tre anni a Brescia, dal 1983 al 1986, e tra l’altro nel periodo migliore, un periodo di costruzione in cui stavamo appena uscendo dal tunnel del terrorismo. Era il periodo che aveva visto come Ministro della Giustizia, come uno dei migliori Ministri della Giustizia, proprio un bresciano, Mino Martinazzoli che aveva portato avanti una serie di riforme importantissime per il sistema penale. Dalla legge Gozzini riguardante l’allargamento dei benefici penitenziari, alla carcerazione preventiva, poi diventata custodia cautelare. Appena fu varata questa legge, ricordo che i giornali titolarono: “Ecco la legge svuota-carceri, i magistrati se ne lavano le mani”. Ieri come oggi, nulla di nuovo sotto al sole,riforme invocate sino al giorno prima diventano occasione di critiche feroci il giorno dopo la loro approvazione, tant’è che il ministro Martinazzoli ebbe a dichiarare: «In Italia tutto è stato detto, tutto è stato scritto, c’è soltanto tutto da fare, ma in questo Paese le riforme si possono soltanto annunciare, non bisogna mai farle, perché poi alla fine c’è la resa dei conti». Perché dico questo? Perché se vado a leggere un po’ di leggi dal 1975 in poi, anno del varo della riforma penitenziaria con la legge 354, quindi l’ordinamento penitenziario, la riforma della custodia cautelare, la legge Goizzini, il Codice di Procedura Penale del 1989, la legge sugli stupefacenti, trovo nei lavori preparatori, scritto a caratteri cubitali, che il carcere fa male e va posto all’angolo della normativa sanzionatoria penale, utilizzato come extrema ratio e prevedendo diverse altre misure alternative alla detenzione, vuoi nella fase procedurale, quindi per l’imputato presunto non colpevole, vuoi per il definitivo, perché il condannato, secondo l’articolo 27 della Costituzione, deve essere sottoposto ad una attività trattamentale che lo accompagni verso il reinserimento sociale.
Questi principi sono rimasti, anche se poi altre leggi hanno affermato cose diverse da quelle che questi principi affermavano, ma,a es. l’articolo 275 del codice di procedura penale, quello che stabilisce le condizioni per l’utilizzo della custodia cautelare in carcere, è rimasto sostanzialmente uguale e ancora prevede, perché scattino le manette, la possibilità d’inquinamento delle prove, la pericolosità sociale oppure l’eventualità che l’imputato si dia alla fuga.
Analogamente, per i condannati ritrovo nell’ordinamento penitenziario, nonostante tutti i temperamenti introdotti, ancora la possibilità di concedere misure alternative per larga parte dei detenuti, specie per quelli con pene al di sotto dei tre anni.
Nell’esposizione del Prof. Romano mi ha colpito ( ma ovviamente lo conoscevo già) un dato statistico: le pene dei detenuti definitivi che arrivano a tre anni sono almeno il cinquanta per cento, su 9.500 detenuti lombardi sottraete il cinquanta per cento e calcolate quanto fa. Perché dico questo? Perché nel 1998 fu varata una legge, chiamata dal nome dei promotori Simeoni-Saraceni, che aveva posto grosso modo un discrimine tra pene brevi quelle sino a tre anni che avrebbero dovuto essere scontate, per quanto fosse possibile, all’esterno del carcere sotto forma di misura alternativa (affidamento in prova, semilibertà, detenzione domiciliare, mettiamoci anche il lavoro all’esterno – anche se il lavoro all’esterno non è una misura alternativa) e quelle oltre i tre anni che portavano, almeno in una prima fase sino a quando non maturavano le condizioni giuridiche e personali, all’utilizzo della detenzione. Per inciso anche in quella occasione, come sempre è stato (perché in Italia quello che manca credo che sia il ricordo, il saper citare ciò che è successo, e sembra sempre che inventiamo l’acqua calda e sembra sempre che come Sisifo facciamo uno sforzo immane per portare il masso in cima alla rupe per poi vederlo ricascare giù) ricordo che approvata la legge Saraceni-Simeoni, il giorno dopo, lo stesso Governo, che era un governo di sinistra, criticò la legge che aveva varato perché, si diceva, faceva uscire troppe persone. Ovviamente, non vi fu, come non vi è mai stato salvo che in occasione delle amnistie piene, un esodo dal carcere. Ma è giusto per fissare due punti fondamentali:
1) a parole tutti siamo liberali, democratici e garantisti
2) le leggi per decongestionare il carcere, esistono, seppure in parte non applicate non sono mai state abrogate, ma per poter reagire hanno necessità del contributo della gente.
In pratica l’eterno paradosso, tra quello che la legge dice e potrebbe realizzare, e nel nostro caso l’0esercizio di misure diverse dal carcere e il record negativo del massimo dei detenuti presenti dall’unità d’Italia ad oggi, giusto per darci un punto da cui iniziare. Tra l’altro, è un limite, è un record che ogni giorno superiamo, perché così come le autostrade – oggi venivamo da Milano e abbiamo visto una lunga coda che iniziava verso Brembate e che terminava a Piazzale Loreto – le carceri si intasano non perché ci sia stata chissà quale impennata degli arresti o delle entrate, bensì limiti, di diverso tipo, alle uscite. Peraltro abbiamo tutta una serie di istituti, tra cui Brescia, San Vittore, dove le permanenze sono nell’ordine di pochi giorni, sette al massimo, ma sono tra il quaranta e il cinquanta per cento degli ingressi.
La colpa di tutto ciò, in genere va riferito ai magistrati che non applicherebbero le leggi, ma penso che, tutto sommato, non sia esclusivamente la loro, seppure ricordo un vostro illustre concittadino, il dottor Zappa, il quale era uno che le leggi aveva il coraggio di interpretarle secondo la ratio che le ispirava e quando c’erano degli ostacoli e i principi stabiliti dall’art. 27 della Costituzione sembravano traditi le impugnava presso la Corte Costituzionale.
E torniamo a ripetere che il carcere oggi non è utilizzato avendo in mente l’articolo 27 della Costituzione, seppure, per inciso, credo che nel momento in cui i nostri padri costituzionalisti scrissero quell’articolo, se veramente credevano a ciò che era stato scritto da loro stessi, umanizzazione delle pene e reinserimento sociale, difficilmente poi potevano pensare a una punizione che fosse sempre e solo carcere, perché il carcere, anche il migliore dei carceri possibili, tende a mortificare la dignità umana, resta comunque una scelta innaturale, legittima quanto si vuole ma innaturale, perché si impadronisce dei corpi. Il carcere ontologicamente è una struttura chiusa, quattro mura di cinta, l’intercinta, i muri del cortile di passeggio, mura di cemento armato, sbarre d’acciaio. Ha scritto nel suo dna la necessità di creare una barriera, di rimanere isolato dal contesto sociale per cui una misura che si chiude alla società non può nel contempo svolgere una funzione di reinserimento nella società. La logica lo dice, è un ossimoro, come quella pubblicità che fa vedere una barca che attraversa un’autostrada: se voglio percorrere una strada ho necessità di un auto, se ho una barca al massimo potrò andare via mare. La metafora, ammetto un po’ artigianale, mi serve a dire che se veramente penso di voler reinserire qualche persona nel tessuto sociale, difficilmente dovrei pensare ad una misura che lo esclude dal contesto sociale. E non basta prevedere di aprire il carcere al mondo esterno. E’ una forzatura a cui il carcere si ribella, ma in ogni caso se il tentativo è quello di ricreare un ambiente “libero” all’interno, e torniamo agli ossimori, forse è meglio che utilizzi le misure alternative ovvero metto in esecuzione quelle attività tratta mentali nello stesso contesto in cui poi il soggetto dovrebbe andare a vivere.
Ritorno alla domanda di prima: perché le nostre carceri si riempiono di persone e ogni giorno aumentano il record di presenze? Quei 1.500 detenuti di cui si parlava prima, mi riferisco ai dati Lombardi, quelli che devono scontare pene inferiori all’anno forse non dovrebbero proprio stare in carcere, ma perché ci rimangono? Perché si utilizza il carcere, e non da oggi, non più come strumento che risponde al meccanismo reato-punizione-reinserimento, ma, in maniera molto più miope, guardando alla gestione dell’ordine pubblico, una risposta per tranquillizzare l’opinione pubblica. Mi spiego, il concetto di punizione credo contenga entro di sé l’idea pedagogica che questa serva a uno scopo correttivo della persona altrimenti rischia di tradursi in qualcosa fine a sé stesso con vago sapore di reazione/vendetta all’azione illecita. Ecco, quella prospettiva pedagogica nell’attuale punizione carceraria è stata persa, si guarda all’immediato piuttosto che al futuro reinserimento che, tra l’altro, sarebbe forma più utile ai fini della sicurezza sociale se è vero , come è vero, che ogni persona recuperata rappresenta un pericolo in meno per la società.
Il sessanta per cento dei nostri detenuti sono stranieri, il trenta per cento sono tossicodipendenti, anche lì con pene e con custodie cautelari bassissime (articolo 73 comma 5). Se, in qualche modo, noi riuscissimo a utilizzare per queste persone o per talune tipologie di reato ( e mi riferisco ai reati commessi da tossicodipendenti) misure alternative alla detenzione, che ci sono, avremmo risolto quasi del tutto il problema del sovraffollamento, fermo restando il fatto che nuove carceri, che vadano a sostituire le ultracentenarie come è Canton Mombello, devono essere costruite.
Ma oggi il discrimine per cui una persona rimane in carcere, in buona parte non è più il concetto di pericolosità attuale, quanto la mancanza di condizioni materiali o personali intorno alle quali costruire ipotesi di percorso. Mi spiego con un esempio banale perché degno di Lapalisse: non si può concedere la detenzione domiciliare a uno che il domicilio non ce l’ha né il lavoro all’esterno a un disoccupato, e ancor meno un’affidamento in comunità per un tossico se nessuno è disponibile a versare la retta di mantenimento.
Quindi, può avvenire che un soggetto tossico condannato a 6 anni ( e la legge sulle tossicodipendenze lo prevede) possa uscire dal carcere se sottoscrive un programma di trattamento e se trova l’ente disposto a trattarlo, all’inverso sarà trattenuto in carcere una persona che ha sì da scontare poco, e parlo di mesi, ma non ha casa, lavoro, famiglia né qualcuno che sia disposto a gestire il suo reinserimento sociale. Quindi, il carcere utilizzato per ordine pubblico si avvia diventare e in buona parte lo è già una grandissima comunità di accoglienza dove, pianeta strana, i diritti valgono di più e vengono maggiormente garantiti . Nei nostri istituti di pena, al di là delle cifre che dicevo prima, del turn over elevatissimo (13.000 in tutta la Lombardia, San Vittore vede 6.000 detenuti in ingresso e 6.000 detenuti in uscita in un anno, ma questi sono gli imputati), noi abbiamo visto e vediamo tuttora delle persone con condanna definitiva condannate magari a un giorno, che entrano a mezzogiorno e alle sedici vengono scarcerate, cioè vediamo persone che devono scontare delle pene di qualche mese se non addirittura di qualche giorno, perché non possono ottenere quelle famose misure alternative, vuoi in fase procedurale vuoi nella fase di condanna. Queste oggi sono in buona parte le nostre carceri, per cui si deve anche pensare ad estendere le misure e/o ad aumentare la ricettività degli istituti di pena, ma se quello descritto rappresenta è un problema, dev’essere risolto in qualche altra maniera. Tra l’altro, consideriamo poi che con questa popolazione detenuta le risorse che noi riusciamo a investire si sono ancora più ridotte per l’aumento esponenziale delle presenze: non bisogna infatti considerare solo il dato statico, quindi le 9.500 persone che sono oggi nelle carceri lombarde fotografate alla data di oggi, ma anche il turn over che assorbe ulteriori risorse ovvero, quelle 6.000 persone che entrano all’anno a Milano Tutto questo ha più di un costo: il costo individuale per chi sconta la pena, il costo che paga la società per la persona che tornerà ancora a delinquere, e si è persa un’occasione per depotenziare la pericolosità sociale del soggetto, e, infine, l’onere economico per il quale ogni detenuto costa allo Stato dai 100 ai 120, anche 130 euro a seconda del livello di sovraffollamento (il carcere di Canton Mombello, ad esempio, è sicuramente un carcere molto economico a causa del sovraffollamento). Allora, se i dati sulla recidiva sono veri, e lo sono dando nella criminalità all’80% delle persone che escono dal carcere, questo significa che noi si spende quasi per creare criminalità, comunque investiamo risorse e non riduciamo criminalità. O, nella migliore delle ipotesi, è che impieghiamo risorse senza investimento duraturo, per fare sempre un discorso di natura economica, nel senso che il detenuto che entra oggi ed esce tra tre giorni ha necessità comunque di una serie d’interventi che hanno un costo. Ci sono gli agenti che lo prelevano in matricola, gli psicologi che devono sentirlo per valutare il livello di pericolosità intrinseca o rivolta ad autolesionismo, ci sono gli educatori che fanno il colloquio di primo ingresso, i medici che devono eseguire una batteria di esami per accertare che la persona non sia portatore di malattie infettive (ad esempio, non solo l’aids ma anche e soprattutto l’epatite o la tbc) all’interno del carcere, con il rischio di far scoppiare una quarantena.
O, ancora, il rischio di contagi all’esterno, nel caso in cui la persona che entra in carcere e inizi una cura, trovando un focolaio attivo di tbc, ma poi esca prima che la terapia termini, bene questo significa aver creato ceppi resistenti che possono infettare chi si troverà a reagire con lui.
Allora, voglio dire, nonostante che si ergano muri di cinta si vede che per un verso o per l’altro il carcere non può essere confinato ai soli operatori, ma è un problema sociale non la soluzione con cui la società cerca di risolvere i problemi. E la società esterna, non solo attraverso i volontari, ma principalmente con gli enti locali, le regioni, i provveditorati all’istruzione, ha il dovere, prima che il diritto, di collaborare con l’amministrazione penitenziaria, altrimenti è inutile parlare di percorsi trattamentali. Con le altre istituzioni necessariamente il carcere deve fare i conti, ma anche le altre istituzioni li devono fare con il carcere.
Dobbiamo quindi chiederci che carcere vogliamo noi società e non io carceriere. Non è soltanto un problema di umanità in astratto, perché poi tutto questo ha delle risultanze a livello concreto, come il depauperamento delle risorse che, per definizione, non sono infinite e allora è necessario siano impiegate diversamente e meglio. Vi dico che per calmierare il carcere di Brescia o di San Vittore, noi operiamo degli sfollamenti e già questo è un problema, perché significa che ogni quindici giorni, ogni mese, prendi alcune decine di persone da un carcere e li trasferisci in altre regioni che in genere sono le regioni più lontane da quella di attuale detenzione. Vengono poi scelti detenuti già condannati e condannati a pene brevissime perché non puoi permetterti di trasferire ergastolani in un istituto che non ha sistemi di sicurezza elevati. Il trasferimento significa costi (gli agenti, l’aereo, ecc.) e anche rilevanti, però una buona metà delle persone che hai trasferito nel giro di un mese o due vengono scarcerate, ritornano in Lombardia e magari vengono riarrestate dalla questura in base all’articolo 14 della legge Bossi-Fini, riportati in carcere e così la storia ricomincia.
Sia ben chiaro che sto rendendo in maniera macroscopica una serie di disfunzioni, ma queste ci sono e poi sommandosi ci riducono a quella che potrebbe sembrare una situazione mai verificatasi, ma al di là delle presenze complessivamente intese c’è da dire che il sovraffollamento non è un fenomeno di oggi né il carcere una realtà dimenticata solo in questo periodo: il carcere è sempre stato un luogo di frontiera, rimosso dalla coscienza collettiva, nonostante che, magari, fosse in città (come a Canton Mombello di Brescia, a San Vittore di Milano, a Poggioreale di Napoli, all’Ucciardone di Palermo, a Le Nuove di Torino). Il problema però è se oggi vogliamo qualcosa di diverso dal carcere, come secondo me sarebbe meglio, se vogliamo un cambiamento, se vogliamo almeno applicare le norme ancora esistenti con la ratio che le ha ispirate.
Mi chiedo se il tossicodipendente è un “malato”, lo dico riferendomi alla legge che grosso modo tale lo considera se ritiene che per lui l’aspetto terapeutico debba essere prevalente. Se è un “malato”, dico, è proprio necessario prevedere che prima debba andare in carcere e poi possa optare per un percorso tratta mentale peraltro pure impedito dalla mancanza di comunità? E se si sta “curando” e dovesse avere una ricaduta è proprio necessario, e coerente, punirlo facendolo tornare in carcere? La logica di tutto questo mi sfugge, se è terapia ( e la legge usa questo termine) va compresa anche la possibilità della ricaduta, ma non si può nel momento in cui la persona ricade – e magari l’ultimo giorno rispetto ai sei anni di condanna – prenderla e ripristinare la punizione della detenzione. E’ vero, il carcere è il mondo dei paradossi, un po’ alla rovescia come nel mondo di Alice.
E noi che ci lavoriamo dobbiamo fare i conti con questi aspetti critici, ma credetemi c’è ancora rimasta la voglia di lavorare perché devi dare una risposta a quelle 9.500 persone che hai di fronte, come dobbiamo una risposta alla società e anche dare un senso al nostro lavoro di operatori penitenziari. Noi in Regione abbiamo detto: fermiamoci un attimo, non dobbiamo farci condizionare più di tanto dalla emergenza e andiamo a rimettere un po’ d’ordine prima in noi stessi, andiamo a rileggerci l’ordinamento penitenziario, l’ordinamento del corpo di polizia penitenziaria, tutte le leggi complementari che ci sono e troviamo quegli spazi ancora non percorsi completamente dentro si può lavorare; tentiamo di creare un circuito penitenziario regionale e non singole autarchie carcerarie verso cui, per tradizione e fisicità, il carcere ti attira.
Così abbiamo iniziato a differenziare gli istituti per tipologie giuridiche dei ristretti e dando obiettivi diversificati a ognuno, lavorare più sull’accoglienza, sull’evitare gesti di autolesionismo da parte delle Case Circondariali e più sul trattamento rieducativo per le case di reclusione come Opera,Bollate, Verziano. Tutto questo in una continuità che inizia con l’arresto, diciamo a Brescia, e finisce con l’ammissione al lavoro esterno o a una misura alternativa al carcere di Bollate o di Verziano. In un’ottica di questo genere, nonostante le sue indubbie peculiarità che in ogni caso sono volute dall’Amministrazione Penitenziaria e non bizzarrie del singolo direttore quantunque bravo, Bollate non è il fiore all’occhiello esibito, ma è il terminale del lavoro che si svolge in tutti gli istituti penitenziari, grazie a tutti gli operatori, dal direttore, agli assistenti sociali, agli educatori, alla polizia penitenziaria, che sta cercando di collaborare in una maniera diversa rispetto a prima, perché abbiamo detto alla polizia penitenziaria che se vogliamo continuare a essere io direttore il carcerieri e voi i secondini, non andiamo da nessuna parte. Se la legge ci chiama a un compito delicato e importante quale quello di determinare il trattamento, io voglio che tu lavori partecipando in maniera diretta e non limitandoti alla mera vigilanza e in questo, lentamente, stiamo avendo un’ottima rispondenza.
Quindi Bollate è il terminale, ma tanto per intendere la portata della “rivoluzione della normalità” (rileggiamoci le leggi e vediamo cosa è ancor oggi applicabile) a Bollate noi abbiamo operato rifacendoci quasi pedissequamente all’Ordinamento Penitenziario del 1975 e con ciò creando un sovvertimento degli schemi usuali, le prassi che incidono fortemente in maniera negativa nella vita delle carceri.
Noi, e intendo i Ministri che si sono succeduti, i capo dipartimento, i provveditori, i direttori, Bollate l’abbiamo voluto così e continuiamo a volerlo così, ma, ripeto, in una logica di terminale che si avvale del lavoro a monte degli altri istituti penitenziari. Bollate lo abbiamo strutturato così perché altrimenti le attività lavorative non reggono, perché entrare in un carcere e assecondare i ritmi e tutte le regole che impone per un imprenditore privato significa andare in fallimento in pochissimo tempo. Tra la mezz’ora di tempo in cui si devono controllare le borse, tra la mezz’ora di tempo per andare a cercare il detenuto che, magari, sta a colloquio con il suo avvocato o con il magistrato, ecc., si perdono ore e ore e a quel punto l’imprenditore dice: o porti i detenuti a casa mia o altrimenti non ne facciamo niente. Come amministrazione penitenziaria allora ci siamo detti che se volevamo qualcosa di diverso e rendere appetibile investire in carcere allora dovevamo rischiare abbassare i livelli di sicurezza, mettendo nel conto anche la possibilità di una evasione.
In qualche maniera ci siamo riusciti, ci siamo talmente riusciti che un anno fa la Regione ha investito due milioni di euro per crearci un capannone dove andrà a lavorare l’Amsa per la raccolta e lo stoccaggio dei rifiuti tecnologici. È, notizia dell’altro giorno, che un imprenditore privato, a cui abbiamo dato in comodato gratuito dei cortili di passeggio, ha investito quattro milioni di euro per costruire una palazzina dove impiantare un’attività produttiva di gelati e assumerà dai sessanta ai cento detenuti. Questo è possibile soltanto perché, ripeto, noi abbiamo applicato pedissequamente le norme. Voglio chiarire che detta così sembra semplice, non lo è e non già perché sia difficile rispettare le norme, ma perché devi poi avere la società esterna che “reagisce”, collabora con te, sostiene il progetto e ne è attore, senza questo non basterebbe nessun direttore o Ministro illuminato per rendere reale il dettato normativo.
E il concetto, concludendo, voglio esplicitarlo con un altro aneddoto che l’allora Ministro Martinazzoli amava raccontare parlando dello iato tra l’impalcatura di legge progettata e la sua realizzazione nel concreto. Dunque: un millepiedi soffriva di mal di schiena e si lamentava sempre con la moglie, finché la moglie stanca delle sue lamentele disse: «ti porto dal medico, perché non ce la faccio più ad sopportarti». Così, lo portò dal medico, il medico della foresta che era un gufo. Il medico lo visitò per diverse ore, poi uscì con una faccia abbastanza seria e la moglie preoccupatissima disse: «dottore è talmente grave?». «No, assolutamente», rispose il medico. E aggiunse: «guardi, il rimedio c’è». E la moglie: «se me lo può dire», e il medico: «suo marito dovrebbe camminare su due piedi». Allora la moglie osservò: «Lei forse non l’ha visto bene ma è un millepiedi, e gli altri 998?». Rispose il medico: «Ah, io le ho dato il parere tecnico, dal punto di vista concreto sono problemi suoi».
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 10.3.2011 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.