Ilario Bertoletti: Voglio raccontare perché il professor Reale è a Brescia. Egli è qui non solo per presentare questo libro (Invito al pensiero antico, La Scuola Editrice), ma anche per curare la nuova edizione del manuale Reale-Antiseri. Presentare il professor Reale è pleonastico, non solo perché egli rappresenta in Italia un rinnovamento radicale degli studi aristotelici e platonici, ma soprattutto perché ha davvero formato generazioni di studenti liceali e universitari con i suoi manuali e i suoi studi. Attualmente sta traducendo le Confessioni di Sant’Agostino. Il professore è filosofo, studioso e anche grande editore. Professore, come si è avvicinato alla filosofia?
Giovanni Reale: Dirò subito che la mia vita è stata tutta contro corrente. Vengo da una famiglia di contadini, proprietari di una piccolissima azienda agricola, in un paese della Lomellina dove lo studio era considerato assurdo. Io, invece, dopo la terza media dissi in famiglia che volevo fare il liceo classico. Mi risposero chiedendomi se fossi pazzo e dicendomi che al massimo mi avrebbero concesso gli studi di ragioneria. Esisteva ai tempi un pregiudizio di carattere sociale secondo cui il liceo poteva essere frequentato solo dal figlio di un borghese. Per un motivo misterioso riuscii però a iscrivermi al ginnasio ingannando tutti, e trovandomi subito tra i primi della classe, suscitando lo stupore di Casale Monferrato. Alla fine della seconda liceo mi fecero una proposta di viaggio intorno al mondo, iniziativa che riservavano a chi aveva ottimi voti. Al preside risposi di no, nonostante tutte le sue promesse di aiuto con lo studio e gli impegni scolastici. Mi tolse il saluto.
Al liceo ebbi subito un attrattiva forte per la filosofia, tanto che dopo la maturità dissi che a me interessava pensare, girare il mondo e vedere non come gli uomini avevano costruito le loro città ma come si differenziavano per il loro pensiero. Scelsi quindi la filosofia e mi iscrissi all’Università Cattolica, con la ferma intenzione di diventare professore di filosofia e insegnare nel liceo dove avevo studiato. Il giorno dopo la laurea il mio professore mi invitò a casa sua e mi disse che sarei dovuto andare in Germania quattro anni per imparare bene il metodo e portare la filosofia antica in Italia, nel modo in cui la studiavano i tedeschi. Chiesi perché non la filosofia contemporanea o quella moderna, che allora preferivo, ma lui rispose che volevano tornare ai classici, aggiungendo questa frase: “La divina Provvidenza ci propone delle cose che non sono quasi mai coincidenti con i nostri desideri, e in questo momento parla attraverso di me”. Quando accettai egli rincarò la dose, dicendo: “Riportaci in piazza Sant’Ambrogio quanta più Atene ti è possibile”. In questo modo imparai alcune lezioni particolari.
Erano gli anni dal ’54 in poi e i tedeschi allora ci odiavano, ma essendo laureato avevo l’onore di sedere al tavolo dei professori. Dopo qualche mese di cortese ostilità e dopo parecchi interrogatori di quarto grado, il professore capo mi diede le chiavi per entrare nella biblioteca anche di sera. Imparai così a trattare con i tedeschi. Francesco Olgiati mi disse un giorno che non mi avrebbe potuto aiutare ai concorsi universitari. Per vincere avrei dovuto fare il triplo o il quadruplo degli altri; soltanto allora le mie opere e la Provvidenza mi avrebbero potuto aiutare. A casa mia però il lavoro era sacro, così come l’amore dato al prossimo senza aspettarsi un ritorno. Questo mi aiutò moltissimo. Nonostante gli studi sulla filosofia antica, non dimenticai mai la moderna e la contemporanea, che amavo. Prima che mi recassi in Germania, per imparare quel metodo che mancava in Italia, sempre Olgiati mi fece un grande complimento dicendomi: “Quando tornerai, se ti faranno delle critiche, anche se sarò io a fartele, tu non ascoltare”.
Imparai in quegli anni di studio una cosa fondamentale per lo scienziato: l’onestà della ricerca. Quando si studia un autore bisogna prima cercare di capirlo: capire che cosa ha detto, come l’ha detto e perché l’ha detto. Soltanto dopo aver esaurito questi indispensabili punti ci si può schierare, dandogli ragione o torto. Gli antichisti a quel tempo erano quasi tutti marxisti e a causa della mia formazione cattolica e della mia fede, mi accusavano di non poter essere uno scienziato. Lo scienziato deve trattare le idee in vitro, in modo indifferente. Mi è sempre piaciuto avere avversari intelligenti perché mi insegnavano, dialetticamente, a trovare la verità. Sapete dove è stato il successo più grande del Reale-Antiseri? in Russia. E sapete chi ha dato il giudizio più entusiasta e positivo? La moglie di Gorbaciov, professoressa di filosofia. Il testo, che era vietato dal partito comunista, ebbe un enorme successo in Russia, tanto che insignirono me e Antiseri del titolo Professor honoris causa. Il complimento più bello fu quando ci dissero: “Ci avete insegnato cos’è la democrazia nel pensiero filosofico greco”. Essi infatti non potevano trattare altro che il pensiero filosofico di Marx.
Io ho fatto filosofia perché, imparando al liceo il pensiero dei grandi filosofi, mi ha molto interessato il fatto che l’uomo abbia un’intelligenza così grande, sia in positivo che in negativo. Nessuno può chiedere alla filosofia di dargli la verità assoluta, perché l’uomo è homo viator, uomo in viaggio, alla ricerca della Verità. Gli antichi infatti la chiamarono non σοφία, ma φιλοσοφία. Platone disse σοφός è Dio e io non sono σοφός, sono φιλοσοφός, ricercatore di verità. Se fossimo capaci di insegnare questo ai giovani sarebbe un’occasione di crescita non solo per loro, ma anche per noi. Molti oggi dicono: “Quello che penso io è la verità”. Invece non è così: essi ricercano la verità, non la possiedono.
Perché insegno ancora, a ottant’anni compiuti? Perché credo nei giovani. Il futuro non è il vecchio, ma il giovane. Il vecchio è per il giovane, in questo senso dinamico. La filosofia è questo: ricerca della verità, con tutte le fatiche che essa impone. Platone, il mio filosofo preferito, scrittore di capolavori assoluti, è tuttora il più venduto al mondo e mi ha insegnato la cosa più bella. Egli ha rivoluzionato il sapere umano, sostenendo che le verità si devono scrivere nella mente dell’uomo e non sui rotoli di carta. È questa l’idea di scuola. Alcuni anni fa il provveditore agli studi di Palermo mi invitò a un corso di aggiornamento dei presidi di tutte le scuole. Essi mi dissero questo: “Professore, se noi riuscissimo a far capire alla gente che l’insegnante scrive nell’animo degli uomini, ridaremmo a quella figura una dignità che la cultura contemporanea ha perso.”
Ilario Bertoletti: All’interno della comunità scientifica, lei è ricordato come il fondatore della Scuola di Milano-Tubinga, che ha rivoluzionato l’interpretazione di Platone. Ci può spiegare in breve il significato profondo della neocultura platonica tra Seconda Navigazione e dottrina non scritta, e perché questa immagine di Platone (lo scrivere nell’anima) ha una valenza attualissima, teoretica e morale?
Ho cominciato la mia vita da studioso traducendo e commentando la Metafisica di Aristotele, edizione che ebbe un grandissimo successo. Un giorno mi chiamò il segretario di papa Wojtyla, dicendo che il pontefice avrebbe gradito ricevere una copia del mio commento. Il segretario mi spiegò anche che il papa, quando tornava stanco dai suoi viaggi internazionali, si riposava leggendo, sottolineando e annotando la Metafisica di Aristotele. Da lì nacque un’amicizia profonda. Io stimo enormemente Aristotele, nonostante il più grande pensatore sia stato senza dubbio Platone. Di Platone ci sono arrivati tutti libri scritti, forse alcuni non autentici, ma sicuramente capolavori assoluti. Per la prima volta al mondo nessuno dei suoi libri è andato perduto. Quando di un autore abbiamo tutti gli scritti, da questi, considerati nella loro totalità, possiamo ricavare il suo pensiero; tutto ciò che ha pensato, infatti, si trova in quelle pagine. Tuttavia, Platone disse nelle sue lezioni in Accademia che non avrebbe mai messo per iscritto la cosa più importante, cioè il bene. Furono i suoi allievi, tra cui Aristotele, ad appuntare la dottrine che Platone diceva ma non scriveva. In quel tempo si stava imponendo a livello generale la scrittura ed egli ci ha lasciato il corpus, che ha cambiato in maniera determinante il modo di vedere e di pensare. Il suo maestro, però, era il maestro indiscusso dell’oralità: Socrate. Da quest’ultimo trasse questa idea: le cose si possono scrivere sulla carta e tutti le capiscono, ma altre cose no, spetta al maestro comunicarle all’alunno in un rapporto di natura didattica, dialettica e dialogica. Egli scrive nell’animo, seminando idee che porteranno poi frutti e che si riproporranno. È qui evidente l’analogia con Cristo, che non ha scritto ma ha seminato. Tuttavia è riscontrabile una differenza: Cristo disse che alcuni semi sarebbero andati perduti, altri mangiati dagli uccelli e altri ancora soffocati dalle piante; solo pochi avrebbero trovato il terreno giusto e sarebbero nati. Platone invece disse: “Io semino soltanto in quelle anime che scopro feconde”.
Si può affermare che Platone sosteneva la necessità di ristabilire l’unità. La cattiva politica, secondo la sua concezione, è quella che disgrega. La buona politica, invece, non è quella che cancella le differenze, ma quella che dalle differenze sa ricavare unità. Non c’è infatti un’unità feconda se non c’è differenza. Nel mondo contemporaneo un grave problema è la non accettazione del diverso, la pretesa che gli altri siano come li vogliamo noi. Già Platone sosteneva che è una pretesa infondata, fino a che anche noi riusciremo ad essere come ci vogliono gli altri e saremo quindi capaci di adattarci. Platone chiamava questa incapacità di capire il diverso díade, divisione. Platone ha cambiato la storia della filosofia perché per la prima volta ha spiegato con la sola ragione che si può dimostrare l’esistenza di un essere che non è quello che vedi, senti e tocchi: un essere trascendentale e intelligibile. Ha chiamato questo processo “seconda navigazione”. Per gli antichi la prima navigazione era quella tradizionale, a vela, la seconda era quella a remi, faticosa ma necessaria per uscire da quelle situazioni in cui il vento mancava del tutto e rischiava di trasformare il viaggio in tragedia. Per Platone la “prima navigazione” fu il processo conoscitivo con i sensi dei presocratici. Ci sono cose che si sanno ma che non si riescono a vedere, toccare e sentire. Con cosa si conoscono quindi? Con l’intelligenza. Entra in gioco quella che i greci chiamavano ψυχή. La seconda navigazione viene trattata in due parti: la prima è la teoria delle idee, la seconda deriva dalla consapevolezza che le idee hanno bisogno di qualcosa in più dei principi primi da cui derivano, e questo qualcosa sono l’uno e la diade. Platone parla anche all’uomo di oggi perché usa un linguaggio non tecnicistico, accademico e incomprensibile, ma parla a tutti. Gli antichi sostenevano che ci fossero due categorie di medici: il medico di medicina e il medico dell’anima. Platone disse ai numerosi medici che frequentavano l’Accademia: “I medici greci sono grandi, perché hanno capito che non si può curare un particolare, un organo, se non nell’intero.” Secondo questa massima, era necessario curare non solo il corpo ma anche l’anima, da cui nascevano i mali più grandi. Quando pubblicai Corpo, anima e salute, tenni una lezione ad alcuni medici psichiatri che me lo avevano chiesto. Essi obiettarono dicendo che queste considerazioni costituivano la loro teoria medica d’avanguardia e stentavano a credere che già Platone avesse avuto questa intuizione. Scrissi sul “Corriere della Sera” una massima di Platone, che diceva: “Lo Stato che io ti descrivo forse non si realizzerà mai sulla Terra. Lo Stato si costruisce nella tua anima, έν τή ψυχή. Lo Stato che esiste nel mondo reale è un ribaltamento di quello che hai dentro tu.” Se votiamo persone squallide, siamo squallidi anche noi, tali e quali. Platone scrisse la Repubblica, tra le altre cose, per capire bene cosa fosse l’anima, perché nel grande è possibile vedere il piccolo in maniera stupenda.
Ilario Bertoletti: Una caratteristica del libro del professor Reale è l’intrecciarsi delle sue vicende private con temi di stretta attualità. Che ne è dell’Europa oggi, in questo tempo di crisi? Qual è la risposta che la filosofia può dare a questa crisi dell’Europa? È una domanda ricorrente nella filosofia del Novecento. Qual’è la sua diagnosi dell’Europa, rivolta ai giovani e che tocchi il presente?
Giovanni Reale: La filosofia oggi vive un momento di crisi profonda. Il nichilismo ha portato molti professori a scegliere la filosofia di metodo: quella formale, analitica ecc., perché non vogliono entrare nei contenuti. Habermas scrive addirittura che la filosofia non ha più diritto di parlare di etica. Io penso che l’Europa si salverà se i giovani ritorneranno agli ideali e alla capacità di spendersi per essi. Molti obiettano dicendo che sempre meno persone credono negli ideali. A questo proposito, mi ha colpito molto una frase di Kierkegaard, grande filosofo dell’Ottocento, che diceva: “Cristo vive finché ci sarà anche uno solo sulla Terra che lo considera un contemporaneo. Scomparirà completamente quando questa condizione verrà meno”. In un’intervista ad un giornale dissi che i giovani ci hanno confutato in maniera stupenda quando, in Spagna, erano andati in due milioni ad ascoltare papa Benedetto XVI, nonostante si prevedesse un numero decisamente inferiore. Il mio augurio è che nei giovani rinasca l’amore per l’ideale. Non bisogna chiedersi che cosa si guadagna facendo ciò, secondo una logica utilitaristica, perché a noi spetta seminare e non raccogliere. Se saremo ancora capaci di dare ai giovani il senso di un ideale, potremo far rinascere l’Europa. Oggi molti vorrebbero introdurre il multiculturalismo, portando come esempio la storia recente degli Stati Uniti. Ebbene, essi sono cattivi storici perché non tengono conto che l’unità profonda che lo rende possibile, è dovuta al fatto che gli immigrati sono andati in America per costruire qualcosa. Qui in Europa, e soprattutto in Italia, vengono non per costruire ma per utilizzare quello che è già costruito. Il colloquio è quindi molto più complesso. Parlare di multiculturalismo è sbagliato, in quanto porta alla formazione di molti ghetti, con conseguenze spaventose. Ricordo di aver letto che in Germania un immigrato poligamo aveva richiesto e ottenuto che tutte le sue mogli ricevessero l’assicurazione sanitaria e la pensione. É una scelta folle, perché la spesa ricade non sul richiedente, ma sulla collettività. Quando arriva un immigrato è necessario spiegargli che oltre ai tanti diritti di cui può beneficiare, ci sono anche dei doveri. Sono i doveri infatti a dare senso ai diritti. Il problema è il buonismo dilagante che porta a credere che esistano soltanto diritti, senza parlare dell’impegno necessario ad adempiere ai propri doveri. L’Europa deve essere ricostruita su basi solide, ma essa non può rinascere se non rinasce l’uomo europeo. Così come la democrazia non può realizzarsi, se non esiste l’uomo democratico. Gli Stati Uniti commettono quindi un grande errore quando credono di poter impiantare di colpo la democrazia in qualsiasi Paese del mondo, non tenendo conto della storia politica dello stesso e non preparando il popolo ad un radicale cambiamento. Io insegno ancora perché credo nei giovani e perché ritengo che essi siano la luce del futuro. Puntare su di essi significa ridare ancora loro l’amore dell’ideale. Bisogna quindi ricostruire basandosi su questo. Nel mondo oltre un miliardo di persone soffre la fame. In una importante riunione per la progettazione dell’Expo 2015, si è parlato di questo grave problema e dell’importanza di portare aiuti. La mia tesi è che, oltre agli aiuti portati in loco, bisogna insegnare loro come produrre quello che non hanno, educare l’uomo e credere in lui, secondo i principi dell’Umanesimo. L’Europa rinascerà se crederà ancora nell’uomo.
Ilario Bertoletti: L’ultimo capitolo di questo libro è dedicato ad Agostino e alla Terza navigazione. Il professor Matteo Perrini, fondatore della CCDC, ha dedicato una vita allo studio di Agostino. Il professor Reale sta preparando una nuova edizione commentata delle Confessioni. Perché Agostino dice, che si sia credenti o non credenti, che la sua interpretazione della fede, la sua Terza navigazione, è ancora decisiva per capire l’uomo e perché crede nel suo rapporto con Dio?
Platone è il filosofo laico più venduto al mondo, al pari di Agostino. Una piccola casa editrice, qualche anno fa, fece una statistica, secondo la quale su Agostino si pubblica in Occidente un libro al giorno. Anni dopo il presidente della casa editrice Città Nuova mi disse che il libro religioso più venduto dopo la Bibbia erano le Confessioni. Io sono sempre stato un grande amante dell’opera, ma nonostante l’abbia letta e studiata per sessant’anni, la capisco solo adesso, perché è un libro talmente ricco e straordinario che richiede una serie di conoscenze che in passato non tutti avevano. Nel secondo trattato, commentario a Giovanni, egli introduce un concetto che io definisco Terza navigazione. Bisogna tenere presente che Agostino ha fatto due conversioni: la prima al platonismo, che gli ha insegnato l’esistenza di un essere che non è quello fisico, mentre prima concepiva Dio come un corpo infinito; la seconda invece è quella religiosa. Agostino ha inoltre spiegato molto bene la differenza tra i platonici e i credenti. I primi sono riusciti a vedere al di là del mare, la patria, e a descriverla in maniera esatta; però, non sono stati in grado di darci lo strumento per attraversare il mare della vita. Platone, in un bellissimo passo del Fedone, afferma che la filosofia è come una zattera, se la si governa bene tiene a galla, altrimenti fa affondare. Se però venisse una rivelazione, dice, avremmo una nave bella, comoda e sicura. Ebbene, Platone si sbagliava: la nave è venuta, ma è tutt’altro che comoda, è quella che Agostino individua nella croce. La croce aiuta ad attraversare il mare della vita anche se non si è riusciti a vedere, come i filosofi, al di là del mare. Essa salva chiunque, ma richiede umiltà, ed è perciò invisa ai filosofi, che per propria natura spesso peccano di superbia, quella che i Greci definivano ΰβρις. Agostino scrive che bisogna attraversare questo mare sul lignum crucis, con la guida di Cristo. È una rivelazione di grandissima importanza perché prima della venuta di Cristo bisognava andare a Dio, ma il percorso era difficile e pochissimi arrivavano. Così, Dio, vedendo queste difficoltà, ha mandato suo figlio, che con la croce insegna a risanare tutti i propri mali e con questo ad attraversare il mare della vita. Agostino fa parte delle filosofia tardo antica-cristiana, non medievale, come spesso si crede. Un’altra cosa che mi piace di Agostino è la sua fede forte, quasi rocciosa, che quando si legge pare di bere acqua purissima e dissetante. La confessione è il rivelare a Dio tutti i propri peccati, ma ha senso soltanto perché è Dio stesso che ci ha guarito da quelli. In quella guarigione Agostino gode ed elogia il Signore. Egli dice di scrivere quel libro affinché tutti i suoi fratelli conoscano il male che ha compiuto in vita e come è guarito, in modo che anch’essi possano guarire o ritenersi fortunati per non aver mai commesso il male. Dal libro decimo in poi Agostino non parla più di peccati ma di tentazioni, perché, come dice la Bibbia, tutta la vita dell’uomo è una continua tentazione. In questo colloquio uomo-Dio troviamo la rivoluzione più grande: nasce il concetto di persona, che non esisteva nell’antichità. La persona è quella che instaura un rapporto dell’Io con il Tu. Questo rapporto con il tu può avere due valenze. Il rapporto con il tu minuscolo, ovvero con l’altro, e con il Tu maiuscolo. Il vero rapporto con l’altro lo si può instaurare e rendere saldo soltanto se si arriva triangolarmente al vertice, all’altro Tu. Qualcuno ha notato che mentre i Greci parlavano con la natura e non ottenevano risposta, noi parliamo con Dio e ci risponde sempre. In Platone ho trovato anche una spiegazione stupenda al concetto di amore. In principio esistevano gli androgini, creature simili all’uomo ma con quattro gambe, quattro braccia, due volti, organi sia maschili che femminili. La loro forza e la loro superbia li portarono a decidere di assalire l’Olimpo e togliere il potere agli dei. Così Zeus, fatto un consiglio e dopo aver lungamente pensato, chiamò con sé Apollo e li divise tutti a metà, in modo che fossero tutti più deboli ma che sopravvivessero. In questo modo le due metà sarebbero sempre andate alla ricerca l’una dell’altra: è questo il concetto di amore. Platone, all’interno del suo dialogo fece dire ad Aristofane che se gli uomini fossero stati ancora malvagi, Zeus li avrebbe divisi ancora a metà, costringendoli a saltellare. Il singolo è quindi il risultato di questo taglio.
NOTA: testo, non rivisto dagli Autori, della conversazione tenuta a Brescia il 5.10.2011 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.