Il problema di Dio per Jacques Maritain

IL PROBLEMA DI DIO NEL PENSIERO DEL NOVECENTO. JACQUES MARITAIN[1]

 «Maritain, davvero un grande pensatore, maestro nell’arte di pensare, di vivere, di pregare. Muore solo e povero, associato ai “Petits Frères” di padre Foucauld. La sua voce, la sua figura resteranno nella tradizione del pensiero filosofico e della meditazione cattolica». Questo è il ritratto di Jacques Maritain proposto da Paolo VI, all’indomani della morte, avvenuta il 28 aprile 1973. Difficile immaginare che qualcosa nella vita e nel pensiero di questo grande filosofo francese sia rimasta estranea al “problema di Dio”. Altrettanto difficile è perciò immaginare un percorso in grado di dare conto di tutte le sfumature che questo “problema” ha assunto nell’arco della sua lunga parabola intellettuale: si finirebbe per ripercorrere una biografia o la genesi e lo sviluppo di un pensiero nel suo complesso.

Ciò che forse possiamo fare – rinviando ad altri contributi per un incontro più disteso con Maritain[2] – è provare a raccogliere alcune intuizioni e provocazioni che ancora oggi, con il Novecento alle spalle, vengono dalla sua riflessione.

Per dare un minimo di ordine al pensiero possiamo concentrarci su due questioni: la prima è in che senso Dio abbia costituito un “problema” esistenziale per Maritain; la seconda è in che modo il “problema di Dio” abbia rappresentato il perno attorno a cui è ruotata un po’ tutta la sua riflessione filosofica, ma certo anche politica (anche se su questo aspetto non potremo qui soffermarci).

Naturalmente le due questioni richiedono un approccio diverso, più biografico la prima, più teorico la seconda.

  1. Dio come problema esistenziale: lo snodo della “conversione”.

Jacques Maritain è ricordato talvolta come uno dei “grandi convertiti” del Novecento. La biografia racconta di un giovane universitario molto attento alle questioni sociali nella Parigi di inizio secolo, ricco di idealità, con alle spalle una educazione decisamente tesa a prendere le distanze dal “mondo cattolico”. Dio non è certo il problema da cui Maritain parte; possiamo anche aggiungere che non lo è nemmeno la Chiesa cattolica o la testimonianza dei cristiani: rispetto all’una e agli altri il giudizio negativo ben radicato in famiglia – nella madre in particolare – solleva da qualunque problematicità[3]. La Chiesa cattolica è l’emblema della conservazione sociale, i cristiani sono l’incarnazione di un moralismo borghese, sordo al grido di sofferenza dell’umanità.

Gli interessi del giovane Jacques vanno piuttosto alle scienze naturali e alla filosofia di Nietzsche, mentre matura in lui una spiccata sensibilità sociale. Fin dal 1901 gli troviamo accanto Raïssa, uno spirito altrettanto vivace e appassionato. È insieme a lei – si sposeranno pochi anni dopo, nel 1904 – che inizia un intenso lavoro di scavo, alla ricerca di un significato che consentisse loro di sostenere l’urto dei loro molteplici impegni e soprattutto degli interrogativi con cui iniziavano a misurarsi.

Sono due giovani straordinariamente coinvolti nei problemi del mondo, due giovani riflessivi, radicali nella loro esigenza di capire, di sfuggire da una parte ad un impegno cieco e dall’altra alla resa dinanzi al traboccare delle ingiustizie e delle sofferenze che stavano incontrando.

«La nostra perfetta intesa, la nostra felicità personale, tutta la dolcezza del mondo, tutta l’arte degli uomini non potevano farci ammettere senza ragione – in qualunque senso si prenda questa espressione – la miseria, l’infelicità, la cattiveria degli uomini. O la giustificazione del mondo era possibile, ed essa non poteva farsi senza una conoscenza veritiera, o la vita non valeva la pena di un istante di attenzione»[4].

Colpisce l’idea di due diciottenni che unendo impegno sociale e grande curiosità intellettuale guadagnano ben presto una percezione vibrante del mistero del male nel mondo. È una percezione per nulla teorica, che nasce da un’esperienza in cui si avverte lo scandalo dell’ingiustizia, in cui ci si adopera per porvi rimedio ma ci si scontra con l’insuccesso dei propri sforzi, con la resistenza di un sistema, e soprattutto con il sorriso di sufficienza di chi ci ha già provato ed ha da lungo concluso che “tanto non cambierà nulla”.

È sempre Raïssa, nei suoi ricordi, ad annotare che la loro risoluzione di allora, dinanzi a questo problema, fu quella di darsi ancora del tempo per provare a capire, per trovare una luce. Se ciò non fosse accaduto, se non si fosse disvelato il senso della vita, «la soluzione – scrive sempre Raïssa – sarebbe stata il suicidio, prima che gli anni avessero accumulato la loro polvere, prima che le nostre giovani forze si fossero consumate. Volevamo morire con un libero rifiuto, se non era possibile vivere secondo la verità»[5]4. Ripercorrendo quegli anni e la risoluzione drammatica che li stava orientando Raïssa ricorderà soprattutto il forte senso di angoscia dovuto ad un intenso desiderio di vita, sistematicamente privato di uno sbocco convincente e quasi deriso da maestri per nulla convincenti:

«Noi non appartenevamo affatto, con i nostri scarsi vent’anni, al gruppo dei seguaci dello scetticismo, che lanciano il loro “che ne so io?” come il fumo di una sigaretta e trovano d’altra parte la vita eccellente. Eravamo, con tutta la nostra generazione, le loro vittime. […] Questa angoscia metafisica [prodotta dallo scetticismo] che penetra alle sorgenti stesse del desiderio di vivere, è capace di divenire una disperazione totale e di sfociare nel suicidio. […] Credo che migliaia di morti oggi sono dovute alla delusione totale dell’anima, che si crede ingannata perché ha avuto fede nell’umanità, perché ha creduto nella forza trionfante della verità e della giustizia, della bontà e della pietà, di tutto ciò che noi sappiamo essere il bene. È un’angoscia di questa specie che ho vissuto allora. […] Non l’ho dimenticata: non si dimenticano le porte della morte»[6].

Non è dunque Dio il “problema” dei giovani Jacques e Raïssa, mentre lo sono “le porte della morte”. Questo problema angosciante, da cui era impossibile evadere, inizia ad essere affrontato in maniera diversa a partire da alcuni incontri: ecco comparire Henry Bergson, il professore della Sorbona che apre per loro il mondo della coscienza, ecco l’amicizia con Charles Peguy, in quegli anni alle prese con una riscoperta della carica rivoluzionaria dei Vangeli, ecco soprattutto stagliarsi la figura di Leon Bloy, che conviene avvicinare ancora nel ricordo dei Maritain:

«Bloy ci appariva il contrario degli altri uomini che nascondono lacune gravi nelle cose dello

spirito e tanti delitti invisibili sotto l’imbiancatura accurata delle virtù di socievolezza. […] Superata la porta della sua casa, tutti i valori erano spostati, come per una molla invisibile. Si sapeva o si indovinava, che non vi è che una tristezza, quella di non essere santi. E tutto il resto diventava crepuscolare»[7].

Bloy è una figura insolita per Jacques e Raïssa: per la prima volta il tipo cristiano non coincide più con il tipo borghese, con il ricco ostile ai richiami della giustizia sociale, con il conservatore. È piuttosto un uomo conquistato dall’Assoluto, ma non da un Assoluto vago, forse filosofico, è l’Assoluto il cui volto è quello del Dio dei Vangeli; e non basta: Bloy non procede nella solitudine di un percorso intimistico ma è curiosamente risoluto nel non muovere un passo al di fuori della Chiesa. Per Jacques si tratta di qualcosa di problematico tanto quanto affascinante:

«Ecco l’assillo che mi tormenta. I cristiani – scrive – hanno abbandonato i poveri e i poveri tra le nazioni: gli ebrei; come pure la Povertà dell’anima: la Ragione autentica. Mi fanno orrore. Bloy si trova nel popolo cristiano nella stessa posizione di un profeta del popolo ebraico: in furore contro il suo popolo (ma rimane pur sempre in questo popolo). In una situazione del genere bisogna incrementare la sottomissione interiore, l’attesa e l’amore verso la Chiesa. […] La ragione impone che si venga battezzati, perchè occorre che la vita abbia il suo centro nella fede e perché il fatto di chiedere il battesimo è il segno che si vuole vivere così. Ciò che succede dopo è affare di Dio. Per il momento non so se credo…»[8].

Questa lotta si consumerà nel 1906, anche attraverso un periodo di malattia di Raïssa: sarà l’anno del battesimo e l’inizio di una profonda rivisitazione dei punti di riferimento. Nel 1908 Jacques e Raïssa conosceranno il padre Humbert Clerissac, che li introdurrà alla teologia: di qui progressivamente sorgerà anche l’esigenza di “fare filosofia nella fede” – come dirà in seguito Maritain –, esigenza che troverà una guida potente nel pensiero di Tommaso d’Aquino.

Dio quindi non rappresenta un “problema” in Maritain, ma piuttosto la risposta ad una pluralità di provocazioni che la vita stessa gli aveva posto in quei primi anni del Novecento – una vita indubbiamente intensa ed impegnata in favore dell’umanità sofferente – e che certo continuerà a porgli in seguito.

Lo snodo della conversione è allora molto importante, perché fa comprendere che il lavoro

intellettuale di Maritain lungo il Novecento non può essere compreso come l’apologia di un sistema di pensiero. È invece un percorso di continuo confronto con le domande che salgono dall’esperienza, un percorso che riconosce – di fronte alla varietà delle situazioni ordinarie – la centralità dell’alternativa tra il radicarsi nella vita e l’arrendersi alla morte e alle sue logiche distruttive.

Attorno a questa alternativa, che si presenta appunto in ogni dimensione dell’esperienza, il pensiero sosta e poi si sviluppa. Sono le occasioni della vita, i movimenti della storia, a innescare la riflessione, sempre avendo come punto focale la ricerca delle vie più umane per “organizzare la resistenza” alle «porte della morte»[9]. Del resto la maggior parte degli scritti di Maritain ha un carattere occasionale, per quanto poi possa colpirci la densità dei testi: Antimoderno (1922) nasce riflettendo sulla scelta di appoggiarsi alla riflessione di Tommaso d’Aquino, Primato dello Spirituale (1927) segna la definitiva distanza da Charles Maurras e dal movimento monarchico dell’Action Française, Umanesimo integrale raccoglie un ciclo di lezioni tenute in Spagna nel 1934; scritti come Attraverso il disastro, del 1941 o Attraverso la vittoria, del 1945 chiariscono da sé la loro collocazione, ma poi nascono da conferenze anche La persona e il bene comune (1947), come pure Dio e la permissione del male. L’uomo e lo Stato (1951) matura nel contesto del decennio negli Stati Uniti, a valle del lavoro per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, La filosofia morale (1960) raccoglie le lezioni tenute all’Università di Princeton e Il contadino della Garonna saluta la chiusura del Concilio Vaticano II. Fa eccezione quasi solo Distinguere per Unire o I Gradi del Sapere, del 1932, certamente il lavoro più sistematico a cui si è potuto dedicare.

  1. Dio come “problema” per il pensiero: la «filosofia nella fede».

Come raccogliere sinteticamente la posizione intellettuale di Maritain rispetto al problema di Dio, come apprezzare il suo modo di affrontare la tematica teologica? Conviene qui concedersi alcuni semplici colpi di sonda, attraverso cui provare a suggerire il nesso tra lo snodo della conversione e il movimento di fondo del pensiero.

2.1 Il problema di Dio come problema antropologico.

Fin da Umanesimo integrale Maritain ha discusso la questione della possibilità dell’ateismo. Si tratta di un problema filosofico? Per certi aspetti, a livello di elaborazione, potremmo dire di sì[10]. Tuttavia è anzitutto un problema antropologico, e non a caso proprio in Umanesimo Integrale la distinzione principale è quella tra un umanesimo antropocentrico e un umanesimo teocentrico[11]. La questione di fondo è infatti quale sia il centro, quale sia il fondamento su cui l’uomo costruisce la propria stessa umanità, il fondamento a cui guarda per organizzare la propria resistenza alla morte ed alla logica distruttiva del male e per trovare risposta ai propri desideri di giustizia, di pace, di relazione con se stesso e con gli altri.

Il Maritain che, insieme a Raïssa, ha sperimentato l’angoscia esistenziale “alle porte della morte” pone il problema del dire a se stessi che cosa renderà sensato ed efficace ogni ulteriore passo, su che cosa si fonderà il rifiuto di arrendersi alla morte e il proprio impegno per la vita.

La risposta a questo problema non è una filosofia ma una decisione per la propria esistenza, che può assumere due volti: la resistenza al male e alla morte si organizza o facendo conto esclusivo su di sé – ecco l’umanesimo antropocentrico – o facendo conto su un Dio capace di donare vita e salvezza – ecco l’umanesimo teocentrico –. In entrambi i casi si tratta di una fede, cioè di una opzione esistenziale che non ha dalla sua alcuna evidenza, se non lo svolgersi della vita stessa e la testimonianza di coloro che ci precedono (ecco ancora l’importanza della figura di Bloy).

Maritain ha colto qui un punto molto chiaro per tutta la tradizione del pensiero cristiano, ma decisamente difficile da evidenziare in una stagione della cultura europea in cui pareva che il confronto radicale fosse ormai tra l’ateismo e la fede in Dio, tra il non-credere ed il credere. Ha espresso, in maniera originale, l’alternativa che gli antichi autori cristiani vedevano tra l’idolatria e la fede nel Dio che salva: il punto non è il credere o il non credere, ma se ciò in cui si crede, ciò su cui si fa conto, sia in grado di sostenere la vita.

È in questo quadro che Maritain può distinguere un ateismo pratico, uno pseudo-ateismo e un ateismo assoluto. Il primo è appunto una forma di idolatria: è quello «di coloro che credono di credere in Dio, ma che in realtà negano la sua esistenza in ogni loro azione: essi adorano il mondo, il potere o il denaro»[12]. È il profilo dell’uomo che confida in se stesso, cioè che risponde alla provocazione della morte cercando solidità e rifugio in risorse che spera di poter controllare e da cui confida di ottenere garanzie di vita.

Lo pseudo-ateismo è quello di coloro che «credono di non credere in Dio, ma che in realtà credono inconsciamente in Lui, perché il Dio di cui essi negano l’esistenza non è Dio ma qualcosa di diverso»[13]. Questa – forse – avrebbe potuto essere la posizione spirituale del giovane Maritain.

Infine l’ateismo assoluto è quello di quanti negano l’esistenza del Dio dei credenti e che si trovano «nell’obbligo di cambiare il loro intero sistema di valori e di distruggere in se stessi tutto ciò che potrebbe suggerire il nome rinnegato»: è la posizione cioè di chi prova ad impegnarsi su un punto particolare, cioè sul dire a se stesso che la morte non fa problema e che il desiderio di resisterle e di non svanire nel nulla è qualcosa di illegittimo, mentre ciò che è legittimo attendersi è un’esistenza lieta da conservare intatta il più a lungo possibile con ogni mezzo.

In tutti i casi l’alternativa rimane sempre la medesima, tra il fondare l’esistenza su se stessi e sulle proprie risorse – correndo il rischio dell’idolatria – o il fondare l’esistenza sulla relazione e sulla promessa di vita di Dio.

Il “problema di Dio” in Maritain, potremmo dire, non è tanto quello filosofico dell’“esistenza di Dio” (per quanto se ne sia occupato) quanto piuttosto quello del “volto di Dio”: la questione non è se la persona creda in dio/Dio, ma quale sia il volto del dio/Dio a cui si affida.

Ne La persona e il bene comune ritroviamo questo snodo, reso qui secondo le due possibilità di sviluppo dell’umano che Maritain intravede:

«[L’azione dell’uomo] può seguire il pendio della personalità, o il pendio dell’individualità materiale. Se lo sviluppo dell’essere umano ha luogo nel senso dell’individualità materiale, egli andrà nel senso dell’io odioso, la cui legge è di prendere, di assorbire per sé; e nello stesso istante la personalità come tale tenderà ad alterarsi, a dissolversi. Se, al contrario, lo sviluppo va nel senso della personalità spirituale, allora l’uomo si dirigerà nel senso dell’io generoso degli eroi e dei santi. L’uomo sarà veramente persona soltanto nella misura in cui la vita dello spirito e della libertà dominerà in lui su quella dei sensi e delle passioni»[14].

Anche in questo caso troviamo una alternativa, che ancora una volta è giocata sul contrasto tra l’autoreferenzialità di chi decide di provvedere da sé alla propria sete di vita e d’altra parte, la progressiva capacità di intessere relazioni e di donarsi di chi sperimenta la liberazione dalle diverse forme di schiavitù dell’idolatria. Una liberazione che viene dall’aver trovato riparo nella misericordia di un Dio che fa salva la vita e spezza le logiche di consumo che ci avvolgono quando immaginiamo di metterci al sicuro con le nostre forze.

Se poi andiamo a saggiare il fronte morale, troviamo ancora la medesima intuizione: la morale cristiana non è l’incarnazione di uno sforzo titanico dell’uomo che si adopera per il bene e per la giustizia in virtù delle proprie forze:

«Il santo cristiano non è un superuomo fatto dalla mano dell’uomo, un Ercole della virtù morale, come il saggio stoico; è un amico di Dio che vive della carità soprannaturale ed è fatto dalla mano divina, e che apre la debolezza umana alla pienezza divina discendente in lui. La superbia dell’Uomo è spodestata, e l’umiltà in cui abita la forza di Dio esaltata»[15].

2.2. Fede e ragione davanti al “problema di Dio”.

Ora, Maritain ha in un certo senso lottato tutta la vita per tenere insieme questa grande intuizione che pone la fede come punto di partenza esistenziale e la ragione come l’esigenza dell’uomo di addentrarsi sempre di più in una comprensione riflessiva della propria opzione fondamentale. Il rapporto tra fede e ragione che dunque propone non è quello che immagina una sorta di piattaforma costituita dalla ragione e dalle sue conquiste, a cui si aggiunge il “di più” della fede, che andrebbe a spiegare ciò che la ragione non può guadagnare, quasi abbracciando in questo modo l’ambito dell’irrazionale.

Il rapporto che il complesso del suo percorso suggerisce si direbbe profondamente diverso: di fronte alle domande che sorgono dall’esperienza, ed in particolare dinanzi al contrasto tra il desiderio di vita e di bene e la forza corrosiva del male e della morte, ciascun uomo prende esistenzialmente posizione. E questa posizione di resistenza alla morte o fa conto sulle possibilità dell’umano, o si affida alla promessa del divino. È a valle di questa decisione esistenziale che si sviluppa il pensiero filosofico, o meglio qualunque pensiero che non sia gioco intellettuale ma reale sforzo di comprensione del vivere.

Questo nesso, così concepito, tra la fede e il pensiero filosofico Maritain lo ha proposto anzitutto ai cristiani, ritornando negli anni Sessanta sul dibattito a proposito della “filosofia cristiana”, già animato negli anni Trenta:

«Questi diavoli di parole come “filosofia cristiana” o “politica cristiana”, sono davvero imbarazzanti: sembrano quasi – la gente capisce sempre male – clericaleggiare una cosa secolare per natura e imporle un’etichetta confessionale. “Filosofia nella fede” è forse meglio di “filosofia cristiana”, ma si presta ugualmente ad equivoci. In fin dei conti l’uso di qualsiasi vocabolo suppone sempre un po’ d’intelligenza nella persona a cui ci si rivolge. (…) Dopo tutto, un cristiano può essere filosofo. E se per filosofare, crede di dover chiudere la sua fede nella cassaforte, – cioè di cessare di essere cristiano mentre è filosofo – si mutila da sé, cosa davvero malsana (tanto più che il filosofare gli occupa la parte migliore del tempo) e s’inganna, giacché queste casseforti chiudono sempre male! Ma se, mentre filosofeggia, non chiude la sua fede nella cassaforte, filosofeggia comunque nella fede, per quanta sia quella che ha. È meglio rendersene conto»[16].

È meglio rendersi conto che il pensiero o riflette sulla vita, e quindi si impasta con l’opzione esistenziale di chi lo coltiva, impegnandosi ad esplorarla sempre più in profondità, oppure finisce per essere una costruzione astratta. La pretesa però di curvarsi sulle cose della vita e di leggerle esercitando una sorta di “epoché” rispetto alla propria opzione di fondamento è, secondo Maritain, un ingannarsi.

Certamente, da questo punto di vista, ogni pensiero sulla vita viene ad essere una “filosofia nella fede”, per cui la domanda che ritorna è in quale fede?

Ora, vorrei ancora osservare che questa domanda, “in quale fede?” è meno banale di quanto possa sembrare, se diamo ascolto alla lezione di Maritain. Occorre riconoscere in questo interrogativo almeno due livelli: il primo è appunto quello dell’opzione esistenziale per l’antropocentrismo o per il teocentrismo come risposta esistenziale al problema del male e soprattutto della morte. Il secondo è il livello della declinazione dell’una o dell’altra opzione in senso confessionale, culturale o di scuola filosofica. Nell’espressione “filosofia cristiana” – o meglio, “filosofia nella fede cristiana” – troviamo l’opzione teocentrica insieme alla declinazione nel senso della tradizione della Chiesa, che professa il Credo di Nicea-Costantinopoli. Nell’espressione “filosofia marxista” – che certo suonerebbe strano indicare come “filosofia nella fede marxiana” – troviamo l’opzione antropocentrica insieme alla struttura di pensiero elaborata da Hegel, da Marx, Feuerbach e altri insieme a loro.

Da questo punto di vista allora Maritain suggerisce che in fondo ogni prospettiva filosofica che voglia proporsi come un umanesimo – cioè come un pensiero a sostegno del vivere dell’uomo – è lo sviluppo riflessivo di una opzione di fede, è l’esplicitazione pensata di una fiducia riposta in qualcosa o in qualcuno. Detto altrimenti, nessun umanesimo può sottrarsi al “problema di Dio”.

2.3 Filosofia cristiana e teologia di fronte al “problema di Dio”.

L’ultimo snodo su cui può essere interessante entrare in dialogo con la proposta di Maritain, riguarda il rapporto tra la “filosofia nella fede (cristiana)” e la “teologia”. Il filosofo francese ha lasciato spunti a questo proposito negli lavori degli anni Settanta, specie nell’ultima raccolta, titolata Approches sans entraves – potremmo quasi tradurre “avvicinamenti sulla soglia” – suggerendo di intendere la antica “ancilla theologiae” come un moderno “research worker” in dialogo con la teologia:

«[La filosofia ha anche il compito] – almeno se nella testa del filosofo è anch’essa confortata dalla fede – di entrare, sì, nel terreno proprio della doctrina sacra per compiervi anch’essa uno sforzo di ragione e proporvi eventualmente ai competenti dottori nuove vedute, a titolo di research worker e di un research worker ancor più libero dello stesso teologo: poiché allora al filosofo basta avere una conveniente informazione delle questioni e delle controversie teologiche senza però portare in sé, come il teologo, la preoccupazione dei chiarimenti che l’esegesi storica dei testi della Scrittura può dare, e del peso di di tutta una lunga tradizione patristica e conciliare che deve essere minuziosa – mente conosciuta, scrutata e discussa, in modo che venga organicamente ordinato e fatto progredire il tesoro di verità che essa ci trasmette (non parlo del notevole numero di pseudoteologi che oggi si dedicano a distruggerlo)»[17].

Questa formulazione non è però all’altezza delle intuizioni di fondo di Maritain stesso. Qui la libertà di movimento della “filosofia nella fede” sembrerebbe più che altro simile alla creatività casuale di chi combina tra loro elementi eterogenei, semplicemente perché non si è preoccupato di averne anzitutto una buona comprensione. È pur vero che questa creatività si trova oggi anche tra i teologi, ma c’è da dubitare che si tratti di una risorsa e tantomeno di una virtù semplicemente se as segnata ai filosofi[18].

Qui incontriamo forse uno snodo epistemologico importante: in che cosa può consistere la differenza tra una “filosofia nella fede cristiana” e un “pensiero teo-logico cristiano”?

L’idea di una “filosofia nella fede” può esprimere il ritorno riflessivo sulla propria concezione di vita e sul proprio modo di vivere (proprio e della tradizione a cui si guarda) a partire dall’esigenza di resistere alla morte: è un ritorno che può mettere in luce l’alternativa tra antropocentrismo e teocentrismo. È un ritorno che può ulteriormente sollecitare a cercare maggiore profondità nella risposta data esistenzialmente al problema. Lì dove l’opzione fosse quella teocentrica, la “filosofia nella fede” non potrebbe che declinarsi ulteriormente: se si declinerà secondo la Rivelazione cristiana non potrà che essere una “filosofia nella fede cristiana”. Ma appunto è difficile che questo non sia già un “pensiero teo-logico cristiano”. È indubbiamente una questione aperta.

  1. Per concludere

C’è dunque qualcosa di molto provocatorio nel modo di porre il “problema di Dio” che ci consegna Maritain: certamente, come ho cercato di adombrare con queste ultime battute, emerge anche una questione epistemologica circa il rapporto tra filosofia nella fede cristiana e teologia cristiana.

Però la provocazione a mio parere più radicale sta nel fatto di porre in primo piano proprio il problema antropologico della nostra resistenza alla morte e al male che distrugge, intuendo che qui c’è molto di più che non il semplice istinto di sopravvivenza irriflesso degli altri viventi. Qui c’è una domanda a cui non possiamo non dare esistenzialmente – il che, ripeto, ancora non significa ancora riflessivamente né tantomeno filosoficamente – risposta, scegliendo quale strada imboccare “arruolandoci nella resistenza”, per così dire. Il “problema-Dio” attende qui, ed è molto più lacerante e ineludibile che non una riflessione metafisica sulle vie per la dimostrazione dell’esistenza di Dio (che pure conserva tutto il suo interesse speculativo).

Probabilmente è proprio l’esperienza di una conversione combattuta, accompagnata da una forte riflessività, che ha portato Maritain ad una visione d’insieme in cui si può dire che tutte le coppie concettuali più nobili del pensiero morale e politico – la coppia bene-male, come la coppia giusto-ingiusto –, a cui ha dedicato notevole attenzione, affondino consapevolmente le loro radici nella coppia vita-morte e proprio per questo nel “problema di Dio”. Si tratta di una prospettiva e di un modo di avvicinare una certa varietà di problemi che forse ha qualcosa da dire anche al XXI Secolo.

[1] Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia in data 19.4.2012.

[2] Si veda, tra l’altro, A. Pavan, La formazione del pensiero di J. Maritain, Gregoriana, Padova 1985, P. Viotto, Introduzione a Maritain, Laterza, Bari 2000, J.-L. Barré, Jacques e Raïssa Maritain, da intellettuali anarchici a testimoni di Dio, Paoline, Milano 2000. N. Possenti Ghiglia, I tre Maritain, Ancora, Milano 2000. Molto utili e importanti sono naturalmente i lavori di consultazione di P. Viotto, Dizionario delle opere (I-II), Città Nuova, Roma 2003 e 2005.

[3] Per una più distesa panoramica biografica sia consentito rinviare anche a G. Grandi, Jacques Maritain. Da laici nel mondo e nella Chiesa, Edizione In Dialogo, Milano 2007.

[4] R. Maritain, Les grandes amitiés, Desclée de Brouwer; tr. it.: I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano 19912, p. 75.

[5] Op. cit., p. 76.

[6] Op. cit., pp. 72-73.

[7] Op. cit., p. 103.

[8] J. Maritain, Carnet de Notes, Paris, Desclée de Brouwer 1965, pp. 40-41.

[9] In questo si può ritrovare la lezione chiara di Tommaso nella Prima Secundae della Summa Theologiae: la tensione dell’uomo è per la vita in Dio, per la vita fatta salva dalla morte e dal male; tutte le scelte si riorganizzano e trovano il loro senso nell’intento di riconoscere ciò che nella vita ordinaria è risorsa o viceversa ostacolo nel corrispondere a questa tensione. Cfr. S. Theol., I-II, q. 1 pr. Sia consentito rinviare, su questo tema, a G. Grandi, Felicità e Beatitudine. Il desiderio dell’uomo tra vita buona e salvezza nel “De Beatitudine” di Tommaso d’Aquino, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE) 2010.

[10] In Umanesimo integrale Maritain vi dedica brevi pensieri, osservando che «l’ateismo, se potesse essere vissuto sino alla radice del volere, disorganizzerebbe, ucciderebbe metafisicamente la volontà; e ogni esperienza assoluta dell’ateismo, non per accidente ma per un effetto strettamente necessario, inscritto nella natura delle cose, se è coscientemente e rigorosamente condotta, provoca alla fine la dissoluzione psichica». (J. Maritain, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté, Aubier, Paris 1936; tr. it.: Umanesimo Integrale, Borla, Roma 1980, p. 109).

[11] «Siamo così condotti a distinguere due specie di umanesimo: un umanesimo teocentrico o veramente cristiano, e un umanesimo antropocentrico, del quale sono principalmente responsabili lo spirito del Rinascimento e della Riforma. La prima specie di umanesimo riconosce che Dio è il centro dell’uomo, implica il concetto cristiano dell’uomo peccatore e redento, e il concetto cristiano della grazia e della libertà. La seconda crede che l’uomo stesso sia il centro dell’uomo, e quindi di tutte le cose, e implica un concetto naturalistico dell’uomo e della libertà». Maritain, Umanesimo Integrale, p. 81.

[12] Cfr. La signification de l’atheisme contemporaine, Desclée de Brouwer, Parigi 1949; tr. it.: Il significato dell’ateismo, Morcelliana, Brescia 1954; qui in Ateismo e ricerca di Dio, Massimo, Milano 1982, p. 206.

[13] Ibid.

[14] J. Maritain, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, 1946; tr. it.: La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 199510, p. 27.

[15] Maritain, La philosophie morale. Examen historique et critique des grands systèmes, Éditions Gallimard, Paris 1960; tr. it.: La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 19995, p. 107.

[16] J. Maritain, Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Bruger-Paris 1966; tr. it.: Il contadino della Garonna (1966), Morcelliana, Brescia 1969, pp. 214-215.

[17] J. Maritain, De l’Église du Christ. Le personne de l’Église et son personnel, Desclée de Brouwer, Paris 1970; tr. it.: La Chiesa

del Cristo, Morcelliana, Brescia 1971, p. 7.

[18] Non si può naturalmente dire che Maritain cercasse di accreditare un pensiero che facesse per così dire “sconti” sulla necessaria accuratezza nella conoscenza e nell’impiego della riflessione teologica (dogmatica in particolare). Andando a consultare i saggi raccolti in Approches sans entraves si troverà, ad esempio, una riflessione sulla condizione dei beati nella risurrezione dei corpi (Seguendo piccoli sentieri): non si tratta di una specie di teologia in minore o semplificata, ma dell’applicazione del pensiero a tematiche aperte, suscettibili di approfondimenti e secondo linee che non interferiscono con il deposito rivelato.