Portare il saluto

Salutare è un’esperienza quotidiana che accade nella vita di ognuno. Ma nell’essenza di questo atto pre-linguistico è contenuta buona parte del nostro essere uomini. Portare il saluto, come recita il titolo dell’agile volume firmato da Massimo Giuliani e Paolo De Benedetti (Morcelliana, Brescia 2012, p. 82, 10 ) contiene in sé una sfida molto alta: la possibilità di aprire o chiudere le relazioni. In una serrata fenomenologia su questo gesto che, erroneamente, parrebbe un mero automatismo, Giuliani porta a datità i modi attraverso i quali il saluto si porge a partire da un’etimologia del termine che va dal latino salus, da cui salute-salvezza al greco soterìa, che contiene l’idea di salvazione da ogni male fino ai nordici Heil, Hails e heilag, che rimandano allo star bene e ai semitici salaam e shalom, che indicano integrità, armonia, pienezza di bene e di beni. Salute e benessere sono i contenuti del messaggio che veicola il saluto e che lo assurge a rito propiziatorio, pur nella diversità delle modalità in cui universalmente si esplica. In apertura di tutte le liturgie cristiane il pax vobiscum si caratterizza come benedizione/augurio, che è la traduzione latina dello shalom ebraico: quell’augurare pace e bene, un’endiadi  poi ripresa da San Francesco. Di qui lo shalom come berakà (benedizione) un precetto minore, non perché poco importante, ma perché meno conosciuto: salutare per primi, come insegna Rabbi Jochanan,di cui si racconta che nessuno al mondo lo avesse mai anticipato nel saluto, neppure i gentili. Ecco perché il saluto si configura come ciò che inaugura una relazione –  come quello che si rinnova ogni mattina al giorno che viene, in una sorta di memoriale della creazione – , ma anche come ciò che colma una distanza quando si portano i saluti di un terzo. Il saluto – e lo si tocca quasi con mano quando esso perde la sua formalità e si fa porta per entrare nella salvazione altrui fino al syn-pathos, al soffrire-insieme –  si configura, in ultima analisi, come riconoscere, in ogni istante, il debito verso l’altro. Anche quando si tratta del penultimo saluto, persino nel congedo da chi non può più risponderti. In quella circostanza si fa l’esperienza della radicalità  dell’altro, del suo essere traccia dell’Illeità, che si traduce nella formula estrema dell’ad-Dieu levinasiano.Ma l’uomo, in quanto libero, è sempre tentato: ecco perché il contrario del saluto è il toglierlo, degradando il tu a-me-relato ad un esso che si fa cosa. Il libro si conclude con una mirabile analisi di De Benedetti sulle radici bibliche e rabbiniche del termine e con una sorta di “prontuario” sul buon uso dello shalom: se esso viene da Dio e l’uomo può fare solo delle “paci”, non è meno vero che Dio ha bisogno di essere pacificato dai pacifici. Egli, essendosi compromesso una volta per tutte creando l’uomo, chiama alla co-redenzione colui che plasmò a sua immagine e somiglianza. Proprio per questo, se l’uomo non è capace di fare shalom, può e dev’essere imitatore di Dio che fa shalom.

Giornale di Brescia, 27.8.2012

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