Corriere della Sera, 4 novembre 2012
Mi permetto intervenire nella discussione sulle pietre d’inciampo, non senza imbarazzo perché una del primo gruppo di quelle destinate a ricordare i deportati bresciani sarà collocata in via battaglie, in questa casa dove cerco di servire con mio nipote e due figli la giustizia, come appunto mio padre che qui venne arrestato.
Negli interventi che mi hanno preceduto non mancano ragionevoli perplessità: è proprio necessario seguire pedissequamente il progetto delle stolpersteine ideato e proposto in tante città italiane ed europee da Günter Demnig, senz’alcuna variante, quasi per rispettare un incredibile copyright sulla memoria?
Non sarebbe più esatto distinguere tra deportati ed internati, tra lavoratori coatti ed obbiettori contro il lavoro? tra deportati impegnati nella lotta per la libertà e per la patria, per fedeltà al giuramento e alla bandiera, e semplici vittime della barbarie?
Confesso il mio disagio di fronte a disquisizioni filologiche sulla barbarie, doverose forse ed apprezzabili in sede scientifica, ma non agevolmente comprensibili soprattutto da quanti quella stagione non l‘hanno vissuta: in questi giorni io accompagno i miei nipotini al cimitero del mio paese, alla tomba del bisnonno compagno a Tito Speri nelle X Giornate, ma si soffermano con me anche nel nostro bel Vantiniano, davanti al cippo dedicato dai suoi commilitoni al generale austroungarico Nugent, caduto nelle stesse Giornate combattendo contro i sollevati di Brescia: la sobrietà del cippo è arricchita, non turbata, da una massima che mi pare importante: oltre il rogo non vive ira nemica.
Così, a me pare importante che questa iniziativa sia fatta propria da istituzioni e da movimenti che non sempre sembrano condividere gli ideali e i valori che nei lager e nei gulag sono stati calpestati, così come so bene che in quell’orribile stagione sono caduti gli eroi di Cefalonia, ma anche, prima di finire a loro volta nei forni crematori, i delinquenti comuni utilizzati dalle SS come kapò, anche i poveri pazzi eliminati non in odio a qualche loro gesto patriottico, ma in cinico ossequio all’igiene della razza, anche la popolazione ebraica di Varsavia che per cinque anni sembrava adattarsi a convivere con l’occupazione, prima che l’eroico soprassalto di libertà venisse schiacciato nell’incredibile indifferenza di Russi ed Alleati che si fronteggiavano.
Molte lapidi, in molte città anche italiane, anche nella nostra, ricordano l’eroismo di singole persone: a me pare importante che camminando sulle nostre strade i cittadini inciampino (questo è il significato e il valore di questi segni) nella memoria di semplici vittime, vittime non soltanto ma anche e forse soprattutto del complice silenzio di chi preferisce stare alla finestra, e mi pare importante la coralità di questo richiamo che ci viene rivolto anche in altre città, italiane ed europee.