Le vittime bresciane dei Lager

Autori: Anni Rolando

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Da dove cominciare di fronte alla complessa vastità dell’universo della deportazione?
Anche riferite a una realtà territoriale più limitata, come quella di Brescia e della sua provincia, le difficoltà nel descriverlo non sono minori. Sembra, infatti, di essere di fronte a una realtà così sfuggente nei suoi aspetti da non riuscire mai a definirla completamente.
Forse è bene partire da una realtà dura e concreta, anche se apparentemente arida e fredda: i dati numerici. Se interpretati e fatti parlare si possono rivelare ricchi di informazioni e indicazioni.
Per quanto si è finora riusciti a ricostruire, tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, a Brescia e provincia furono deportate nei konzentrationslager tedeschi 376 persone. Altre 35, sulle quali mancano dati sicuri e completi (che andranno cercati ancora) ma erano probabilmente bresciane, portano la cifra a 411.
Di esse 185, cioè circa la metà, non tornarono a casa. Dei 26 ebrei deportati e residenti nel territorio bresciano sopravvissero al lager solo due.
E si tratta di dati ancora approssimati per difetto.
Le cifre non appaiono fredde se si pensa che ad esse corrispondono delle persone con un volto, che avevano genitori, moglie, figli, amici, che avevano speranze per il futuro. Molti di loro erano giovani uomini e giovani donne.
Sono numeri incerti, si diceva, e forse, data la incompletezza della documentazione (nonostante il ricchissimo Archivio dell’ITS, il Servizio internazionale di ricerca di Bad Arolsen) non si raggiungeranno mai dati certi e definitivi, così che molti uomini e donne, giovani e vecchi, resteranno senza identità e scomparirà il loro ricordo, come se fossero deportati per la seconda volta in un limbo senza memoria.

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Chi furono, dunque, al di là dei numeri quelle 411 persone?
Si può dire che a Brescia, come ovunque allora, a rischio di deportazione erano tutti: uomini e donne, giovani e vecchi, intellettuali e operai, civili, partigiani ed ebrei.
Mi limito a proporre alcune brevi osservazioni e riflessioni su chi erano coloro che furono deportati.

Gli ebrei in primo luogo, che furono arrestati e deportati non per quello che avevano fatto o avrebbero potuto fare, ma per quello che erano.
La loro deportazione avvenne nell’ambito di un’organizzazione, ormai perfezionata, finalizzata all’Endlosung, la soluzione finale del problema ebraico.
Sulla discriminazione, persecuzione e deportazione degli ebrei bresciani Marino Ruzzenenti ha pubblicato uno studio nel 2006.
Il numero degli ebrei residenti a Brescia era molto basso, tanto che non esisteva una comunità e una sinagoga.
Novanta, tra città e provincia, erano presenti in un elenco, che la Prefettura trasmise al Comando tedesco il 3 novembre 1943. Molti abitavano nella zona del lago di Garda e in buona parte erano stranieri emigrati in Italia nella speranza rivelatasi illusoria di sfuggire alla persecuzione e alla deportazione.
La Questura e le numerose polizie della RSI si avvalsero degli elenchi, stesi e aggiornati con molta precisione a partire dal 1938, per svolgere un ruolo cruciale nella ricerca, nell’arresto e nella deportazione degli ebrei bresciani: 26 di loro furono deportati prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, tra di loro anche Guido e Alberto dalla Volta, abitanti in città. Solo due sopravvissero.

I partigiani, che furono arrestati e deportati per ciò che avevano fatto o avevano in progetto di fare.
Fra di loro vi furono avvocati e operai, intellettuali e contadini, cattolici e comunisti, giovani studenti, casalinghe e sacerdoti: una sorta di sintesi della popolazione della città e della provincia.
Alcuni furono arrestati in città per la loro opposizione politica al fascismo e per il ruolo di organizzatori e dirigenti del movimento di liberazione, altri furono catturati in montagna tra le formazioni partigiane.
Per molti di loro la deportazione non fu altro che una condanna a morte solo dilazionata, eseguita nel lager attraverso maltrattamenti, denutrizione, malattie.

Gli operai
Rispetto a realtà industriali simili, gli operai bresciani furono deportati in Germania (moltissimi a Dachau e a Mauthausen), in numero relativamente basso, ma comunque molto alto (quasi un terzo di tutti i deportati) e la metà di loro morì nel lager.
Alla luce della documentazione disponibile, non mi pare si possa stabilire un rapporto causa-effetto tra gli scioperi effettuati nel 1944 (che non ebbero nel Bresciano una partecipazione particolarmente estesa) e deportazione, come avvenne, ad esempio, a Sesto S. Giovanni.
La produzione bellica dell’industria bresciana, che si avvaleva di lavoratori specializzati, era di estrema importanza per la Germania. Deportarli in gran numero significava limitare una produzione essenziale per lo sforzo bellico tedesco. Conveniva dunque tenere questi operai nelle fabbriche, rigidamente controllati e impauriti con alcuni arresti mirati o casuali, piuttosto che deportarli per svolgere lavori non qualificati.

Infine i civili, cioè gli uomini che non avevano obblighi militari, perché troppo giovani o troppo anziani, e le donne.
Il loro arresto e la deportazione non erano solo espressione di brutalità dell’occupante o dei fascisti di Salò. Rispondevano, invece, ad una logica razionale e coerente: quella di mantenere l’ordine nella città e nelle fabbriche attraverso l’arma del terrore. Si trattava di un mezzo per garantire la produzione bellica bresciana, essenziale per la Germania, e per impedire, per quanto possibile, che la popolazione stabilisse e mantenesse dei rapporti di aiuto e collaborazione con i ribelli. La deportazione serviva da deterrente ed era tanto più temibile in quanto poteva essere esercitata in modo indiscriminato e imprevedibile nei confronti di chiunque.
Per esempio a Cevo, in Valcamonica, furono deportati il mugnaio, Innocenzo Gozzi, di 67 anni, lo stradino Giovanni Battista Matti, di 51 anni, e lo scalpellino Francesco Vincenti, di 57 anni.

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Di fronte all’universo della deportazione agli storici spetta un compito molto difficile: quello, lo si è detto, di dare un volto a dei numeri e dei nomi.
Alcuni di questi, e le loro voci, si possono ritrovare nei biglietti che riuscirono ad inviare, anche clandestinamente, ai familiari.
Sono lettere, anche quelle più scarne, da cui emergono, con intensità e semplicità, i sentimenti più profondi, tanto più umani quanto meno proclamati.
Rolando Petrini, morto a Gusen a 24 anni, certo che ormai la guerra è al termine e che il ricongiungimento con i familiari è vicino, scrive:

Ora si va verso il Nord, ma ormai la partita è decisa per i nostri padroni e quindi spero di rivedervi presto. Di questo ne sono sicuro e vedo fiducioso l’avvenire come sempre.
[…] Ed io vi voglio rivedere, riuniti tutti intorno alla tavola, mentre dal vostro Mario che ormai ha perduto l’antica forma chiusa [sentirete] tante cose.

Nel suo ultimo biglietto, un mese prima di morire il 15 dicembre 1944 nel lager di Melk a 25 anni, Luigi Ercoli, di Bienno in Valcamonica, esprime la sua fede religiosa, che diviene più forte e salda nei giorni del dolore:

Io sono tanto fiducioso e conservo il morale alto. Così dovete averlo anche voi. Sempre alto quello, e sempre sperare in Dio. Mai come in questi momenti mi son sentito veramente creatura di Dio, mai come ora ho visto la grandezza di Dio e la onnipotenza e bontà della Provvidenza sua.

Infine Spartaco Belleri di Sarezzo in Valtrompia, morto a 25 anni a Mauthausen, esprime in modo delicato, come, pare di intuire, non sapeva fare prima, un amore pieno di tenerezza per la moglie e il figlioletto:

Iolanda, bacia per me tutte le sere e le mattine il mio piccolo e caro Adalberto e digli che il suo papà ritornerà presto da lui per vivergli sempre assieme.
Quanto a te, cara Iolanda, sappi solo una cosa: che tuo marito ti pensa continuamente e ti vuole tanto bene, anche se alle volte il mio burbero carattere ti faceva male e ti faceva soffrire, ora perdona tutto, poiché anch’io perdono a tutti; la festa prendi Adalberto e vai al cinema, e poi pensami di continuo.

Come si potrebbe esprimere, se non con queste parole, la fiducia nella continuità e nella forza della vita nel momento del dolore e della separazione?
E si potrebbe proseguire.

La serenità che traspare in queste lettere, che ancora oggi stupisce chi le legge, è senz’altro dovuta al desiderio di non turbare e addolorare i familiari più di quanto già lo siano.
Si avverte però in esse qualcosa d’altro. A me pare un atteggiamento per così dire profetico in senso biblico. È cioè presente in quelle parole la profonda convinzione che il mondo dell’ingiustizia e della violenza sia destinato a finire e che ad esso stia per sostituirsi un mondo diverso e più giusto. Un mondo che può essere soltanto intravisto da coloro che scrivono le loro ultime lettere e stanno affrontando i giorni più difficili e dolorosi della loro esistenza.

Esistono, credo, due modalità per conservare la memoria del passato.
Una è, per così dire, una memoria pervasiva, tale cioè da legare totalmente al passato gli individui e le comunità in modo paralizzante e opprimente.
L’altra è invece liberante, una memoria cioè che porta gli individui e le comunità a vivere nel presente e a guardare al futuro, nella consapevolezza che conservare e preservare le proprie radici renda l’albero del futuro più saldo e rigoglioso.
I nomi dei deportati e le pietre d’inciampo che li ricordano, con la loro presenza discreta ma visibile e dalle quali lo sguardo di chi passa non può fuggire, sono, credo, un modo silenzioso ma eloquente, perché le ferite della deportazione possano almeno in parte essere lenite e la memoria possa essere liberante.

NOTA: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 22.11.2012 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.