La più recente creazione della poetessa sirmionese Franca Grisoni, Medea, un monologo drammatico di grande forza espressiva e suggestione, messo in scena e diretto dall’attrice e drammaturga Patricia Zanco, ha avuto origine da un accurato lavoro sulle fonti classiche del mito, puntualmente documentato nella ricca nota bibliografica conclusiva (pag. 77). Così del resto è avvenuto per ogni rivisitazione dell’antico degna di iscriversi nella storia letteraria. È il caso, in particolare, di due riscritture novecentesche che con il dramma della poetessa sirmionese condividono per vari aspetti la modalità genetica: la Medea del poeta americano Robinson Jeffers, scritta dietro richiesta dell’attrice Judith Anderson, che dopo la prima rappresentazione a Broadway nel 1946 ha conosciuto una fortunata stagione di rappresentazioni e traduzioni in tutta Europa[2], e Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, commissionata dall’attrice russa Tatiana Pavlova, anch’ella come la Anderson desiderosa di recitare nel ruolo dell’eroina colchide, ma in una versione più vicina all’attualità[3]. E in tutte le tre riscritture, benché i modelli classici siano stati assimilati in una creazione interamente originale, qualche traccia cromosomica inevitabilmente s’intravede in filigrana. Talvolta si tratta di richiami consapevoli; in altri casi si dovrà piuttosto pensare a una sorta di poligenesi dei motivi, che la stessa fabula ha indipendentemente ispirato alla mente di ciascuno scrittore. In ogni caso, come per Alvaro e Jeffers, anche per questa nuova Medea di Franca Grisoni la lettura critica delle stratificazioni è in grado da un lato di dare ragione della portata culturale (e non solo poetica) dell’operazione, dall’altro di inquadrare questa originale creazione nel filone ormai ben consolidato della ‘Classical Reception’, in rapida espansione negli ultimi anni, soprattutto all’estero. Come di norma in questi casi, alla vivacità creativa di drammaturghi e poeti che sempre più spesso si ispirano all’antico per riuscire a leggere, con maggiore nitidezza, nel magmatico presente si unisce, inevitabile, l’interesse da parte della critica, che sta parallelamente crescendo in misura esponenziale in questi ultimi anni in Europa e in America. E merita di essere ricordato che all’inizio di questa straordinaria fioritura si colloca per l’appunto il mito di Medea, con la miscellanea curata da Edith Hall e Oliver Taplin, Medea in Performance 1500-2000 (Oxford 2000), la cui importanza, anche sul piano più propriamente metodologico, è un dato ben noto a tutti gli studiosi di Fortleben.
La nuova Medea di Franca Grisoni contempera in sé, in diversa dosatura, i tre volti che di questo personaggio mitico l’antichità ci ha consegnato. Uno è quello della donna innamorata, immortalato dalle Argonautiche di Apollonio Rodio: la principessa di Colchide che per amore del bello straniero venuto da lontano ha abbandonato la sua terra “senza voltarsi” (pag. 13). Schegge delle Argonautiche sono presenti nella rievocazione degli antefatti, soprattutto nel prologo. È il caso, in particolare, oltre al giuramento di Giasone (pag. 13),[4] anche della rievocazione del dio Eros “comperato con un regalo per ferirla d’amore“, Eros “che ha giocato con il suo cuore senza aspettare la palla d’oro che si è guadagnato col patto combinato” (pag. 10): una chiara allusione alla scena di Argonautiche III 135 ss., in cui Afrodite – assecondando la richiesta della dea Era che protegge Giasone – chiede al figlioletto Eros di colpire con la sua freccia il cuore di Medea, promettendogli come ricompensa una palla d’oro. Le fonti classiche riemergono anche, a p. 61, nella rievocazione eziologica della metamorfosi in massi dei pezzi del corpo di Absirto, gettati in mare da Medea per ritardare l’inseguimento dei Colchi: le isole Absirtidi, al largo della Croazia.
L’altro volto di Medea che i testi antichi ci hanno consegnato è quello della maga, esperta in venefici. Seneca nella sua Medea dedicava una lunga scena alla preparazione della pozione destinata ad avvelenare abito e diadema inviati da Medea come dono nuziale alla giovane sposa di Giasone. Franca Grisoni ci ha per fortuna risparmiato il calderone della fattucchiera di senecana memoria, ma molto più di quanto non si osservi in Euripide ha dato spazio nel suo dramma alla dimensione magica. Un esempio è nella suggestiva rievocazione dell’antefatto in Colchide, la lotta con il drago custode del vello d’oro: una lotta in cui Medea non uccide il suo avversario, come di norma fanno gli eroi maschili del mito uccisori di mostri (Eracle, Perseo, Bellerofonte, Teseo, Cadmo, ecc.), bensì lo rende inoffensivo “come donna / capace domare il male […] un grosso geco pauroso / nascosto nella sua tana / tra rami bruciati / incrostati di sangue / il mostro l’ho lasciato…” (pag. 15). Si tratta di un ulteriore punto di contatto con la narrazione di Apollonio .Rodio, in cui Medea addormentava il drago con i suoi filtri magici, consentendo così a Giasone di rubare il vello. Per contro, l’omonima eroina euripidea, femminista ante litteram, uccide senz’altro il drago, usurpando il ruolo maschile: κτείνασ(α) essa proclama di fronte Giasone al v. 432, a rimprovero della sua scarsa operatività di eroe.
L’altro volto di Medea che la tradizione antica ci ha trasmesso è quello della straniera e delle sue difficoltà a integrarsi nei falsi e ipocriti meccanismi che regolano il mondo occidentalizzato: un tema che, già introdotto da Euripide in questo mito, ha avuto nel Novecento grande fortuna, a partire dal drammaturgo austriaco Franz Grillparzer con la sua trilogia Il vello d’oro (L’ospite – Gli Argonauti – Medea, 1818-1820), e un secolo dopo con i drammi cosiddetti coloniali, che hanno fatto di Medea di volta in volta una principessa indocinese (come in Asie di Henri-René Lenormand, 1931) o malese (come in The Wingless Victory di Maxwell Anderson, 1936) oppure la figlia di un capo tribù africano (come in African Medea di Jim Magnuson, 1968), mentre Giasone ha assunto le vesti del colonizzatore europeo di turno che seduce la giovane principessa indigena, salvo poi abbandonarla per una moglie occidentale.
La Medea della Grisoni, pur senza identificarsi con nessuna delle altre Medee moderne, ha qualcosa in comune con l’eroina di Grillparzer per il tema romantico della contrapposizione fra il potere corrompente da un lato – di cui il vello d’oro è simbolo – e, dall’altro, la Colchide, con la sua positiva natura selvaggia di mondo aurorale, in cui Medea viveva in sintonia con la natura, in una sorta di primigenia età dell’oro: “e ferro e oro e rame / donava la terra / e pietre preziose / da sfoggiare insieme / nei giorni comandati. / Belli noi agli altari / e il vello di luce ci indorava la valle / e le mie mani pulite / che guarivano e i canti / e venti e piante e bestie / si tenevano intonati. / Santa natura / selve lontane / le mie compagne / come un dio l’eroe / lo avevano salutato” (p. 59). Il senso di questo eden perduto, anteriore alla rottura dell’armonioso rapporto fra uomo-Dio-natura è espresso in poetiche immagini: “Confine tra bene e male quand’è che è saltato? Ci stavo dentro nel cielo sceso da basso / tra fiori ed erbe che potevano sanare / liberi noi nel mondo come un altare / e pietra e cielo ed eroi / e morti e vivi nominati assieme” (p. 57). Tutto questo è stato definitivamente violato: e le parole conclusive di Medea “il vello d’oro non ha più niente di santo” (p. 73) esprimono la desacralizzazione del vello, degradato a mero simbolo di potere: un potere basato sulla violenza della guerra e sulla menzogna. Ma io ritrovo qui anche un po’ del mondo arcaico colchico rappresentato da Pasolini nel lungo prologo del suo film: un mondo rurale dedito ai culti della terra, ai suoi riti agrari, che vengono violati dall’arrivo di Giasone e dei suoi, introdotti come uno squadrone di conquistatori che saccheggiano villaggi e distruggono templi, depredandone le ricchezze: nel “mondo contrario da lui rovesciato” – dice Medea a p. 51 – “spade si faranno da vanghe e badili per seguirti ad uccidere”. E la terra “nel proprio catrame non darà più pane“.
Ed Euripide? Qualche suggestione dell’archetipo sembra emergere qua e là, come sottotraccia, soprattutto in riferimento al tema dell’infanticidio. Dei suoi figli, l’eroina sirmionese mette in rilievo due dettagli molto espressivi: lo sguardo degli occhi e il profumo della pelle (p. 23). Sullo sguardo dei suoi bambini e sulla dolcezza del loro respiro si soffermava l’eroina euripidea nel cosiddetto ‘grande monologo’, lacerata tra la volontà di portare a termine la vendetta contro Giasone e l’amore di madre: “Il cuore mi vien meno quando vedo lo sguardo lucente dei miei bambini (ὄμμα φαιδρόν Eur. Med. 1043), “o cara mano, amata bocca, e figura e bel volto dei miei bambini… O dolce contatto, tenera pelle, soavissimo respiro dei miei figli, andate, andate, non sono più capace di volgere lo sguardo verso di voi, ma vengo vinta dall’angoscia!” (v. 1071 ss.). La sensualità della Medea di Euripide rivive, addirittura intensificata, nelle parole di Franca Grisoni: “Sono carne nostra, hanno un buon odore / li annuso da cagna e monta il mio calore di madre che li curo, i miei piccoli due”. Dall’archetipo sembra anche provenire l’avvertimento di Medea a Giasone che nella vecchiaia la mancanza dei figli lo tormenterà ben più di ora: “Aspetta, aspetta. Sentirai da vecchio!” (p. 53). È un richiamo alla crudele ammonizione dell’eroina euripidea a Giasone nell’esodo: “Non piangi ancora veramente: aspetta quando sarai vecchio!” (Eur. Med. 1396). Anche Pasolini, del resto, aveva conservato questo stesso spunto nel finale del suo film.
Tra le passioni che animano questa moderna Medea, c’è – molto viva – l’indignazione per essere stata ingannata: un tradimento che mai avrebbe creduto (“Ma non finisce la meraviglia per ciò che lui ha potuto. Il non possibile davvero è accaduto, e a me – da dentro – tocca almeno dirlo“, p. 27). Il pensiero del lettore scivola inevitabilmente a Euripide, che per espandere l’indignazione di Medea non esitava a ricorrere alla funzione amplificante del Coro: nel primo stasimo le donne corinzie ricorrevano addirittura a un adúnaton per esprimere l’incredibile sovvertimento di valori operato dal tradimento di Giasone (“A ritroso si muovono le correnti dei fiumi, giustizia e ogni altra cosa a rovescio si volge: fraudolente sono le decisioni degli uomini – δόλιαι βουλαί – e i giuramenti fatti non sono più saldi“, Eur Med. 410 ss.).
In comune con Euripide c’è infine l’interesse per l’attualità. In più punti del dramma il tragediografo ateniese, attento scrutatore dei mutamenti della sua società, stabiliva uno stretto legame con l’Atene contemporanea, in particolare sui temi dell’emarginazione dello straniero, a cui abbiamo poco sopra accennato, oppure delle morti premature dei figli, un motivo adombrato dal Coro nell’intervento anapestico ai vv. 1108 ss. (la Medea fu rappresentata nella primavera del 431 a.C., poco prima dell’inizio della Guerra del Peloponneso, e le donne corinzie sembrano qui dare voce all’angoscia di tanti genitori per la sorte dei figli nelle guerre).
Ebbene, anche in Franca Grisoni il mito si fa chiave interpretativa dell’attualità, secondo una chiave di lettura simbolica che caratterizza l’approccio della cultura contemporanea al mito. E così, le morti innocenti dei bambini di Medea diventano il simbolo di tante morti innocenti del nostro secolo: “In loro piangono i bimbi morti sul lavoro e quelli strappati al vivo da donne sventrate in guerre sorelle, sempre le stesse le vostre guerre che abbiamo ereditato. Piangono i figli di donne ingravidate da soldati-cani….” (p. 65). E poco oltre: “Guarda, vengono a galla i corpi dei disperati partiti dalle loro terre per paradisi inventati… guardali: le facce gonfie / le bocche aperte / che non potranno più chiudere” (p. 67).
Tra i punti di maggiore suggestione è la rievocazione del pianto corale dei figli di Medea, che secondo una tradizione popolare locale sarebbero stati trasformati in scogli al largo di Santa Maria di Leuca, nel Leccese, mentre ad essi rispondono, da terra, “le madri di figli perduti” (pag. 65). È un recupero efficace, all’interno della forma monologica assunta da questo dramma, di una delle funzioni canoniche dell’antico coro greco: quella di slargare l’ambito della vicenda drammatizzata in scena, trasformandola in paradigma dell’attualità.
Testo pubblicato nel n. 108, dicembre 2012, della rivista Città & Dintorni.
[1] Si tratta della redazione scritta dell’intervento tenuto martedì 23 ottobre 2012 al Foyer del Teatro Sociale di Brescia in occasione della presentazione del dramma Medea di Franca Grisoni, illustrato dai disegni di Letizia Cariello, con nota del critico Franco Brevini, pubblicato a cura di Fondazione Etica, per i tipi de L’Obliquo (dalla traduzione italiana che accompagna il testo originale in dialetto sirmionese sono tratte le citazioni qui riportate). L’iniziativa è stata promossa da CCDC e CTB Teatro Stabile di Brescia.
[2] Sulla straordinaria fortuna di questo dramma già si soffermava Gino Calmi nella sua nota introduttiva alla traduzione italiana di Gigi Cane, pubblicata in “Il Dramma”, n.s. 87 del 15/06/1949 (p. 6).
[3] La genesi del dramma è stata illustrata dallo stesso Alvaro in La Pavlova e Medea, in A. Barbina (a cura di), Cronache e scritti teatrali, Roma, Edizioni Abete, pp. 283-286. Il dramma fu rappresentata la prima volta l’11 luglio del 1949 al Teatro Nuovo di Milano, diretto, oltre interpretato, dalla Pavlova, con scene ed i costumi di Giorgio De Chirico e musiche di Ildebrando Pizzetti.
[4] Le parole di Giasone (“Mia cara / se tu verrai in quei luoghi, nella mia terra / avrai onore e rispetto dagli uomini / e dalle donne […]. Dividerai con me il letto nuziale / legittimo; e niente mai potrà separare / il nostro amore, prima che ci avvolga la morte segnata“) richiamano da vicino quelle dell’archetipo (Apoll. Rhod. III 1120 ss.).