Giornale di Brescia, 14 febbraio 2002
La vita di Pascal fu breve come un lampo. Breve e ardente. Tra il 1623 e il 1662, in trentanove anni, Pascal dispiegò il suo genio ripartendo le sue forze e la sua appassionata attenzione in tre distinti ordini di realtà: quello della scienza; il mondo dell’esistenza umana, indagato nelle sue categorie più tipiche, nei suoi nodi nascosti, nella sua profondità vitale, nella sua miseria e grandezza; l’ordine sovrannaturale della grazia e della carità, del mistero e della vita mistica. Per la vastità del suo spirito, per l’importanza dei campi esplorati, per l’audacia delle sue proposte e delle sue conclusioni, Pascal è stato senza dubbio nell’età moderna il genio più completo che si conosca e tra i moderni rimane il più contemporaneo.
Le sue intuizioni sulla “geometria del caso”, le anticipazioni sul calcolo infinitesimale e sulla quantità discontinua sono al centro della scienza moderna, quella dei quanti e delle probabilità. Il fascio di conseguenze sull’equilibrio dei fluidi, tratte dal suo esperimento di Puy de Dôme, e gli studi sulla cicloide fanno di lui un grande fisico e un grande matematico. La sua macchina calcolatrice prefigura la nostra era elettronica. La sua visione dell’uomo e della condizione umana annuncia la filosofia dell’esistenza così come si configura nel Socrate danese, Kierkegaard, e la sua maniera di concepire il cristianesimo incentrato nel Vangelo e in Cristo prepara l’apologia di Newman e Blondel.
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Nella riflessione pascaliana l’uomo si fa problema a se stesso, problema in cui appaiono indisgiungibili, pur nella loro opposizione, la sua miseria e la sua grandezza. L’uomo è un nodo di contraddizioni: è degno d’amore e di disprezzo; aspira alla verità e la fugge; cerca il Bene assoluto, l’Infinito, e idolatra il finito; è gloria e rifiuto del mondo; è paradosso, è mistero ed è, in un certo senso, luce a se stesso. Quale spaventosa ampiezza di possibilità, e radicale divaricazione di esse, si apre dinanzi all’uomo? “Che cosa diventerà, dunque, l’uomo?”, si chiede Pascal nel frammento 388 (ed. Chevalier delle Oeuvres complètes, Paris, Gallimard 1954). “Sarà uguale a Dio o alle bestie?”. E qual è la sua posizione nello spazio e nella corsa del tempo? Sospeso fra i due abissi dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, l’uomo grida: “Je m’étonne, je m’effraie”. E che cos’è l’uomo, la sua singola vicenda umana racchiusa nel tempo di fronte alla serie dei secoli passati e di quelli che verranno?
L’esistenza sembra scivolare nella contingenza del che, dell’ora, del qui. Il tempo e lo spazio ci sommergono, c’inghiottono, ci schiacciano. Che cosa può fare l’uomo di fronte ad essi? Nulla, se si guarda alla fuggevole caducità e limitatezza delle sue forze; ma l’uomo può risollevarsi in virtù della dignità del suo spirito: “Canna pensante. Non è nello spazio che io devo cercare la mia dignità, ma nel retto esercizio del mio pensiero. Non avrei alcuna superiorità, possedendo della terra. Con lo spazio l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto; con il pensiero, io lo comprendo” (fr. 265). E ancora: “La grandezza dell’uomo è così manifesta, che la si inferisce perfino dalla sua miseria” (fr. 268). “Nonostante la vista di tutte le nostre miserie, che ci toccano, che ci serrano la gola, abbiamo un istinto che non possiamo reprimere, che ci eleva” (fr. 274).
Le filosofie perdono di vista questa contraddizione e si lasciano sfuggire la realtà dell’uomo, perché non ne vedono che un aspetto: le unilateralità opposte sono state tipizzate dagli scettici e dai razionalisti per quanto riguarda la ricerca del vero, dagli epicurei e dagli stoici per quel che riguarda la ricerca del bene. Lo stoicismo corregge l’illusione edonistica e lo scetticismo di Montaigne cura l’orgoglio stoico di Epitteto; la ragione, dal canto suo, basta a confutare l’assoluta negatività di ogni posizione scettica. Bisogna, però, aprire l’Antico e il Nuovo Testamento per stringere in unità le verità particolari degli opposti sistemi filosofici e per poter spiegare l’uomo così come è, nella sua drammatica duplicità.
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Lo stile di Pascal è netto, vigoroso, fiammeggiante; e alcuni hanno frainteso il suo pensiero suggestionati dall’incipit dell’una o dell’altra sua riflessione. Accenno brevemente ad un celebre caso: è accaduto che la frase “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto”, decapitata dal fr. 477 a cui appartiene, ha generato un focolaio di equivoci intorno alla personalità e al pensiero di Pascal. Basta infatti ricollocare la tanto celebre frase iniziale al frammento nella sua interezza per capire che le coeur per Pascal è la facoltà di scelta dell’oggetto da amare e null’altro. In altri passi, come nel fr. 479, esso è l’organo intuitivo dello spirito, l’organo per così dire dell’ésprit de finesse. Se c’è un pensatore in cui il più rigoroso abito scientifico e la serietà morale sono del tutto impermeabili alla sensiblerie romantica, questi è Pascal. Non si poteva, dunque, recargli offesa maggiore che interpretare le sue parole a giustificazione della incontrollabilità del sentimento e della soggettività emotiva.
La stessa cosa va ribadita a proposito del preteso irrazionalismo fideistico del Nostro. Colui che ha scritto: “La ragione ci comanda in modo molto più imperioso di un padrone; perché disobbedendo all’uno si è infelici, e disobbedendo all’altra si è sciocchi” (fr. 266) non era certamente uno sciocco. Pascal se la ride della superstizione razionalistica e della sua presunta infallibilità, ma ha profondo rispetto della ragione critica, che non può prescindere dalla ricognizione del proprio limite: “L’ultimo passo della ragione – cioè il culmine del suo cammino – sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano. Essa non è che debole cosa se non arriva a riconoscere questo” (fr. 466).