Giornale di Brescia, 16 marzo 1993
La biografia di Alessandro Manzoni scritta da Umberto Colombo (Edizioni Paoline, 1985) comincia con un’acuta osservazione di Carlo Dossi: “Manzoni nacque rivoluzionario”. Se quel giudizio fosse stato assunto dalla critica come ipotesi di lettura, non avremmo avuto quel grave, diffuso equivoco che per motivi ideologici dava e dà una mortificante interpretazione dei giorni e delle opere di Manzoni. È vero, la misura di Manzoni è alta ed il suo slancio al rinnovamento è profondo, sì che l’una e l’altro possono facilmente essere esposti al fraintendimento e a riduzioni strumentali. Tra i cattolici italiani, per esempio, non sono mai mancati coloro che hanno colto la grandezza di Manzoni; e tuttavia gli strumenti culturali e l’elaborazione teologica per comprenderla appieno quando sono stati loro offerti se non con il Concilio Vaticano II, iniziato e concluso dai due Papi lombardi Roncalli e Montini?
A Manzoni stavano a cuore due realtà: la Chiesa e l’Italia. La sua conversione è del 1810, cioè quando aveva appena venticinque anni ed era nel colmo della gioventù, e fu conversione al Cristo dei Vangeli ed al cattolicesimo non certo al clericalismo imperante, che in nome della fede pretendeva l’allineamento dei credenti alla politica dello Stato pontificio ed agli orientamenti politici della Santa Sede. Manzoni è tanto più grande in quanto aderì con tutta l’anima ad una Chiesa, di cui peraltro non approvava affatto il favore concesso alle idee conservatrici, e persino reazionarie, della restaurazione. L’antinomia, quindi, che è sottesa alla professione di fede nel Manzoni – del Manzoni venticinquenne e dell’ottantottenne – è quella fra la piena, convinta, appassionata accettazione del depositum fidei affidato da Cristo alla Chiesa universale e la sofferenza per quegli aspetti della Chiesa che non concordavano con l’eredità evangelica e che comunque non ne discendevano per nulla. Voleva anch’egli il potenziamento del papato per una più incisiva, vasta circolazione del messaggio cristiano nel mondo moderno, ma lo vedeva nella distinzione – che avrebbe dato più libertà ed autorevolezza alla Chiesa – tra potere spirituale e potere politico, tra Chiesa e Stato e nella fine del potere temporale dei Papi.
Per Manzoni era un progresso che l’intelligenza dei popoli cristiani aveva compiuto, grazie anche alla Rivoluzione francese, il ravvisare come opportuna non solo, ma necessaria la separazione sia della Chiesa dal potere laicale, sia del Sommo Pontefice dal principato civile. Per quanto riguarda il primo punto, la concordanza tra Manzoni ed il suo grande amico, Antonio Rosmini, l’autore delle “Cinque piaghe” e della “Costituzione secondo la giustizia sociale”, era totale. Rosmini scriveva: “La religione cattolica non ha bisogno di protezioni politiche, ma di libertà, e soltanto la sua libertà deve essere protetta dalla potestà politica, che ha per ufficio appunto il rispetto e la tutela di tutti i diritti”. Manzoni, dal canto suo, pensava che “alla diffusione della religione tra le masse il contributo più alto che potesse venire dal Governo era unicamente quello di non incepparla nel suo regolare andamento”. L’uno e l’altro sono i due spiriti più religiosi del nostro Risorgimento e, benché alieni dal passare dal giudizio sui fatti della storia ad una “lettura” dei fini della storia, erano talmente persuasi dell’urgenza di collocare su una nuova base il rapporto tra religione e Stato che vedevano nella separazione rispettosa e non ostile tra la Chiesa e lo Stato la via per purificare l’una e l’altro da una “servitù infame”, ora imposta ora subita, e dunque una via additata alla ragione religiosa ed a quella civile dalla Provvidenza.
Sull’altro problema, la critica del principato civile del Pontefice Romano, Manzoni fu fin dall’inizio assai più chiaro e deciso rispetto a Rosmini. A causa del potere temporale – questo è il giudizio di Manzoni – la Chiesa esercitava funzioni che non sono del sacerdozio ma del laicato; peggio, quelle funzioni estranee al suo mandato divino le esercitava in veste sacrale, è così inevitabilmente mondanizzava se stessa. Se in determinate, tragiche situazioni storiche – si pensi all’Italia nell’età di Gregorio Magno – fu persino ragionevole e giusta la provvisoria unione dei due poteri, da ciò non si deve trarre la conclusione indebita che quell’unione fosse divenuta indispensabile per tutti i secoli alla missione religiosa della Chiesa. Tuttavia, e non solo nella restaurazione, era proprio questa la posizione ufficiale della Chiesa. Pio IX, infatti, nell’appendice della celebre enciclica “Quanta cura” condannò come errore il fatto stesso che tra cattolici si ritenesse questione su cui fosse possibile disputare la compatibilità o meno tra regno temporale e regno spirituale. Di più: la seconda proposizione dello stesso documento condannava persino lo “sperare” che dall’abrogazione del temporalismo potessero derivare libertà e prosperità alla Chiesa (abrogatio civilis imperii, quo Apostolica Sedes potitur, ad Ecclesiae libertatem felicitatemque vel maxime conduceret).
Per Manzoni, invece, il potere temporale della Chiesa in Italia era il caso più cospicuo e più drammatico della improrogabile separazione fra la potestà civile e quella religiosa. E quel dramma egli presentì, aspettò, vide compiuto sotto i suoi occhi. Al Rosmini scriveva: “La perpetuità del potere spirituale è di fede: non può dunque confondersi con il potere temporale, che è contingente. Questo un tempo non ci fu: crebbe, scemò, potrebbe cessare, né per questo la Chiesa verrebbe meno”. È questa una delle più alte e coraggiose pagine che Manzoni cattolico ed italiano scrisse con le scelte che operò e per lo spirito con cui le operò, presbite geniale qual era, tenace nel suo ardimento ed insieme sempre collocato nel cuore della più limpida ortodossia; sì che egli costituisce per l’età contemporanea uno dei modelli di quella parrhesìa a cui i cristiani sono chiamati da Paolo e dai Padri, ma di cui nell’età moderna si è quasi perduta traccia. Rivelativo a tal proposito ed estremamente attuale questo passo della lettera inviata dal Manzoni a mons. Luigi Tosi: “Malgrado gli sforzi di alcuni buoni ed illuminati cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo, malgrado la disposizione di molti increduli stessi a riconoscere questa separazione, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi hanno aggiunto al Simbolo. Quando la Fede si presenta al popolo così accompagnata, si può mai sperare che questa si darà la pena di distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è immaginazione degli uomini?”.
Manzoni ribadiva con forza il suo intimo convincimento nella lettera dell’8 settembre 1828 ad Antonio Cesari: “E che vi sia un campo, entro il quale si possa opinar diversamente, e disputare, salva la Fede, è cosa pure manifesta; dei Santi ne hanno disputato fra loro; se ne è disputato ne’ Concili, senza che sempre, né su ogni punto, intervenisse diffinizione; Dottori, Santi, Papi, hanno dichiarato potersi sul tale e sul tal altro punto tenere opinioni diverse. Ma non l’intendono così tutti quelli che ne tengono una, o che sotto una denominazione comune ricevono un complesso di opinioni, più o meno conosciuto da loro; v’ha di quelli che della Fede e delle loro opinioni fanno una cosa sola: chi non ne riceve una, chi mostri appena dubitarne, non solo dicono che non è con loro (nel che, fino ad un certo segno, ed in un certo senso, hanno ragione); ma dicono che è con altri, gli attribuiscono addirittura un corpo di dottrine, del quale, ad un bisogno, egli non ha pure un’idea distinta; e questo con la maggior sicurezza”.
Manzoni coglie la specificità della politica ed il suo ambito proprio, ma rifiuta energicamente ogni pretesa sua estraneità alla morale, com’è dimostrato magistralmente nell’Appendice al cap. III delle “Osservazioni sulla morale cattolica” (1855); così come, coerentemente con la sua fede, pur difendendo la possibilità di una morale distinta dalla religione, vede nel Vangelo la verità più alta che dà fondamento e certezza alla stessa morale. Molte idee morali, del resto, sono “figlie” dell’educazione del genere umano avviata dal Cristianesimo. Ma dalle necessarie relazioni della politica con la morale e dal dovere per un cristiano di far politica con alto senso di responsabilità morale, aprendosi di continuo al dinamismo dell’ispirazione evangelica, non si devono trarre conclusioni indebite. Commenta Giuseppe Belotti: “Il Manzoni mette in guardia dalla conclusione illegittima che il fanatismo teocratico e la degenerazione sanfedistica hanno voluto desumere dalle necessarie relazioni di subordinazione della politica alla morale ed alla religione, ultima e suprema regola della morale. Tali relazioni – egli avverte – non debbono e non possono mai essere convertite in una “subordinazione organica” o istituzionale della politica alla religione, come se la religione potesse politicizzarsi e la politica sacralizzarsi”. Il Maritain migliore è, come si vede, anticipato un secolo prima dal nostro migliore scrittore.