Giornale di Brescia, 1 dicembre 1989
Due anni dopo il pauroso crollo del terzo Reich, Mario Bendiscioli faceva conoscere agli italiani La via tedesca (Der deutsche Weg), cioè la testimonianza diretta, estremamente sobria, di Friedriech Muckermann, il padre gesuita protagonista e animatore del più combattivo tra i movimenti di resistenza al nazismo, quello che precedette ogni altro e operò ininterrottamente dal 1930 al 1945. Lessi nel ’47 il prezioso volumetto. L’ho riletto nella recente riedizione, nei “Reprints Morcelliana”, e ora, come allora, sono stato colpito da un’affermazione. Muckermann ammoniva i lettori europei a non cadere in una “puerile ingenuità”, quella di credere il razzismo un problema esclusivamente tedesco, che sarebbe stato risolto solo con la vittoria militare su Hitler. “Noi siamo convinti – scriveva l’eroico combattente, che si spense nel ’46, al concludersi dell’impari lotta – che il razzismo non è morto con Hitler”. Poiché il male è assai diffuso, precisava Muckermann, potremmo guarirne soltanto per mezzo di una sanatio in radice. “Se questa guarigione non dovesse riuscire, questo male, sotto forme nuove, andrà di popolo in popolo ed il mondo dovrà ammettere a malincuore che si ingannava grossolanamente quando pensava si trattasse di un problema esclusivamente tedesco. Comprenderà allora di avere a che fare con un’epidemia per la quale, come l’esperienza ha dimostrato, esistono presso tutti i popoli certe disposizioni da ricollegarsi con cause più universali”.
A quasi mezzo secolo di distanza, quella lucida diagnosi si rivela quanto mai verace. Nel novembre dello scorso anno venne diffuso un testo che, nato per espresso volere del Papa, vuole offrire alcune riflessioni per illuminare le coscienze sulla questione divenuta nel mondo contemporaneo una vera e propria “sfida capitale”: la risposta da dare alle forme attuali di razzismo, i principi etici fondamentali che tutti gli uomini di buona volontà devono far propri nei modi di pensare e nei comportamenti, nelle decisioni da prendere ai più diversi livelli, per il reciproco rispetto dei gruppi etnici e razziali e per la loro convivenza fraterna.
Il testo di cui parlo ha per titolo La Chiesa di fronte al razzismo ed è firmato dal presidente della Pontificia commissione “Iustitia et Pax”, cardinale Roger Etchegaray, già ospite della nostra città nel 1987 in occasione del V Colloquio internazionale su “Pace, diritti dell’uomo, sviluppo dei popoli”. Il documento ricorda che il razzismo fu assunto a sistema, a ideologia e a concezione della vita solo con il nazismo, la cui follia omicida colpì in primo luogo, e in misura inaudita, il popolo ebreo. “La memoria dei crimini nazisti non dovrà mai essere cancellata”, afferma giustamente il documento. Anche se molti hanno dimenticato o non lo sanno, la Chiesa cattolica non mancò di far sentire la sua voce contro il neo-paganesimo razzista. Papa Pio XI criticò con fermezza le dottrine razziste con un’apposita enciclica, la Mit Brennender Sorge (Con viva ansia), che anticipa di cinque giorni la Divini redemptoris sul comunismo ateo, pubblicata in data 19 marzo 1937. Le due encicliche di dura condanna dei due totalitarismi del XX secolo vanno dunque lette insieme; e tuttavia la precedenza data al totalitarismo razzista nelle condanna ha un suo evidente significato.
Il documento di “Iustitia et pax” sul razzismo manifesta piena consapevolezza del fatto che talora gli stessi cristiani hanno tradito la sostanza del messaggio evangelico. Sa che “gli ebrei hanno spesso subito gravi umiliazioni, accuse e proscrizioni all’interno della cristianità” e non “intende dissimulare le debolezze e a volte le connivenze di alcuni uomini di Chiesa così come di semplici cristiani”.
Ma di tradimento appunto si tratta, cioè di qualcosa di ignobile che offende lo spirito e la lettera del Cristianesimo, che ha sempre proclamato con forza la dignità di ogni persona creata a immagine di Dio, l’unità del genere umano, la dinamica e la prassi della riconciliazione fraterna che Cristo esige da coloro che si pongono alla sua sequela, essendo egli venuto ad abbattere la barriera di odio che separa gli uomini in mondi contrapposti. Insomma deve essere chiaro a tutti, come ebbe a dire in modo inequivocabile Etchegaray nella presentazione del documento, che “non si può essere razzisti e cristiani nello stesso tempo”. La Chiesa giudica il razzismo una piaga che resta aperta nel fianco dell’umanità e ribadisce che la condanna è necessaria in un’epoca come la nostra in cui le evidenze più elementari hanno bisogno di essere di continuo riscoperte, conquistate e difese.
La Chiesa di fronte al razzismo ricorda che le forme di quel male sono molto diverse. C’è il razzismo antisemita, il razzismo istituzionalizzato (come nel caso dell’apartheid in Sudafrica), il razzismo che presiede alle manipolazioni genetiche e alle nuove tecniche di procreazione artificiale se volte a produrre esseri umani selezionati secondo criteri di razza. C’è il razzismo di cui sono vittime le minoranze religiose, soprattutto quando esse coincidono con etnie differenti da quella della maggioranza; e c’è anche – purtroppo serpeggiante pure da noi – una specie di razzismo sociale per cui si trattano da inferiori i concittadini provenienti da determinate zone del Paese o quelli che sono addetti alle mansioni più umili.
Ma il razzismo più diffuso, atmosferico, per così dire, è quello spontaneo. Quello di cui ci scopriamo affetti anche noi italiani. E qui la parola bisogna darla al documento, che affronta l’argomento con realismo e acutezza singolari. “Il razzismo spontaneo è un fenomeno universalmente diffuso nei Paesi con forte immigrazione… I pregiudizi con i quali spesso gli immigrati vengono visti rischiano d’innescare reazioni che vanno molto al di la di un superficiale sciovinismo e che possono degenerare in xenofobia o addirittura in odio razziale. Questi deprecabili atteggiamenti dipendono dalla paura irrazionale che spesso provoca la presenza dell’altro e il confronto con la differenza. Consciamente o inconsciamente, essi hanno quindi come scopo quello di negare all’altro il diritto ad essere ciò che è, e comunque di esserlo a casa nostra”.
Certamente esistono problemi seri di equilibrio tra le popolazioni, di identità culturale, di sicurezza, di disponibilità finanziarie per far fronte ai gravi oneri derivanti dai nuovi insediamenti. Tutti problemi che la demagogia considera di facile soluzione e, in tal modo, si inganna e inganna. Le difficoltà ci sono soprattutto in uno Stato come il nostro in cui si sovrappongono sviluppo post-industriale disservizi spaventosi, assenza di regole e aperta violazione di quelle esistenti, un’alta cultura dell’accoglienza e uno sfruttamento cinico della manodopera costituita dall’esercito degli immigrati e dei profughi. Non è forse il nostro un Paese di cui, di volta in volta, ora ci si deve vergognare ed ora si può essere onestamente fieri?
Riproponendo il suo universalismo – la sua “cattolicità” – la Chiesa dichiara che “la sua sublime vocazione è quella di realizzare l’unità del genere umano al di là delle differenze etniche, culturali, nazionali, sociali e di altro genere”. Essa fa, dunque, dell’umanesimo e dei diritti dell’uomo il punto centrale della dottrina e dell’azione cristiana. Nelle straordinarie pagine conclusive di quel libro appassionato che è Di là dalle porte di bronzo, Maria Antonietta Macciocchi aveva felicemente colto che lì sta “uno dei principi mai logorati del Cristianesimo”. “A me pare – scrive la Macciocchi – che ogni razzismo, ogni nuova destra all’assalto si troverà la strada sbarrata dalla Chiesa, e proprio da un pontificato come questo che detesta il totalitarismo”.