Città & Dintorni, aprile 2013.
L’ultima volta che ho visto Dario è stato sabato 7 dicembre, 10 giorni prima che morisse in quel modo assurdo e sfortunato, assolutamente incomprensibile.
Ci siamo incontrati sotto la neve alle ore 23. Dario aveva appena terminato una conferenza, invitato dalle Acli di San Polo, e io gli avevo consegnato il CD con le fotografie per il numero 108 di Città & Dintorni, l’ultimo che ha impaginato con la solita efficacia e precisione.
La passione per la grafica me l’aveva fatto incontrare nel 1990, quando avevo iniziato a lavorare in Confcooperative e seguivo il notiziario. Dario, che era dipendente del Consorzio edilizio, mi propose di curarne l’edizione grafica e da allora sfruttai la sua abilità anche per numerose altre pubblicazioni, tra cui Città & Dintorni.
In vent’anni di frequentazione ho avuto modo di conoscerlo non superficialmente, e vorrei soffermarmi, con poche parole, su alcuni aspetti della sua personalità.
Il primo che mi viene in mente è la coerenza. Nulla lo infastidiva di più dello scarto tra quanto professato a parole e attuato nella pratica, di chi parla in nome di nobili principi e agisce per interessi personali. Nei confronti dei tanti opportunisti che si trovano in ogni strato della società usava parole di sarcasmo al vetriolo. La sua stessa scelta professionale, che ci prese di sorpresa – andare a lavorare all’Associazione Mamre con don Pierino Ferrari –, è stata dettata dal desiderio di impegnare le sue abilità e capacità per una realtà cui si trovava in profonda sintonia.
Dopo la sua morte molti articoli hanno sottolineato la concretezza che caratterizzava il suo operare e la tenacia davvero non ordinaria, che in effetti erano tratti specifici del suo carattere. Ho però notato negli anni un cambio di atteggiamento: mentre per molto tempo, quando si discuteva su temi di natura più generale, ad un certo punto (non necessariamente breve) chiudeva la conversazione con una frase del tipo: “sono un ragazzo di paese che va sul pratico, lascia perdere”, negli ultimi anni aveva trovato il gusto per discutere di politica partendo dall’esperienza dell’Associazione Comuni Virtuosi. Aveva cioè individuato una chiave di lettura che gli permettesse di uscire da formule abusate che fondamentalmente non lo interessavano (destra-sinistra ecc.) per esprimere le idee che gli stavano a cuore.
I nostri politici, così poco apprezzati dalla gente, dovrebbero perdere un po’ di tempo e studiare un caso come quello di Dario Ciapetti, che riscosse il 77% dei consensi alle comunali di Berlingo. Ma, ahimè, lo studio basterebbe a poco, senza l’integrità di una vita che si fa esempio.
Porto qui due esempi, che mi sembrano significativi. Per nove anni il Comune di Berlingo ha chiesto alla Ccdc di organizzare insieme un incontro pubblico per il 25 aprile. In quelle occasioni Dario voleva che gli immigrati che avevano ottenuto la cittadinanza effettuassero il giuramento davanti alla comunità, affinché l’atto non fosse una sciatta formalità, ma un’assunzione reciproca di impegno e di responsabilità. Il 23 aprile 2012 ha consegnato il testo della Costituzione in forma solenne anche ai giovani di Berlingo che compivano 18 anni, in una cerimonia che ha colpito tutti i presenti per il suo carattere simbolico.
Proprio in quel giorno, mentre mi accennava alla sciagurata legislazione della Regione Lombardia che permetteva la distruzione del territorio, mi aveva confessato che per due notti aveva fatto la posta in una zona dove aveva avuto notizia della presenza di sbancamenti illeciti, aveva preso nota delle targhe dei camion e sporto denuncia in Procura.
Un altro aspetto che è rimasto impresso in quanti, anche occasionalmente, hanno incontrato Dario, era l’atteggiamento di speranza che traspariva dal suo essere, come se ci fosse sempre la possibilità di fare qualcosa di utile e di buono e la negatività non fosse l’ultima parola.
Questo suo modo di essere è difficile da spiegare, ma appariva nei momenti ufficiali e meno ufficiali, come pure in quelli impegnativi in cui la vita lo ha posto, come la perdita dell’amata figlia Sara. Credo che scaturisse dalla sua fede genuina e profonda, per la quale aveva il riserbo di chi si sente sempre un aspirante cristiano.
Dario era un uomo semplice, quasi dimesso nel vestire. Sono sicuro che avrebbe fatto propria l’affermazione di Vincenzo Gioberti: «(Il lusso) è tutto ciò che è superfluo a rendere l’uomo felice».