“L’ös” nell’opera poetica di Franca Grisoni
Franca Grisoni è una delle voci più alte della poesia contemporanea. Lo hanno detto, in questi anni, i più grandi critici letterari, ad esempio Enzo Siciliano, Franco Fortini, Franco Loi, Franco Brevini, Giovanni Tesio, Giuseppe Langella, per citare solo alcuni dei non bresciani. Ce lo dicono anche i numerosissimi premi nazionali che questa autrice ha vinto, dal Bagutta Opera prima, al Premio Viareggio, al Biagio Marin, fino al più recente Pontedilegnopoesia.
La Grisoni ha al suo attivo nove raccolte di poesie (“L’ös” è la nona) e due opere per il teatro, la più recente, “Medea”, è stata presentata al Festivaletteratura 2013 di Mantova.
La sua opera – che si avvicina ormai al migliaio di pagine (circa 500 sono state raccolte nel 2009 nel volume “Poesie” edito da Morcelliana) – è studiata nelle università italiane e anche all’estero. La cosa straordinaria e quasi incredibile è che tutto questo accade nel dialetto di Sirmione.
La Grisoni è nota come poetessa dell’amore coniugale, del dialogo e dell’alterità tra femminile e maschile. Ma le sue poesie nel tempo hanno trattato molti altri temi: ad esempio il dialogo tra se stessi e il proprio corpo, il rapporto con la natura e in particolare con i paesaggi di lago della sua Sirmione – e, in particolare negli ultimi anni, da “La giardiniera” in avanti – il dolore per la perdita della persona amata, la scoperta della spiritualità e della fede, il farsi preghiera della poesia, sempre vissute come esperienza. E non mancano, nella sua produzione, poesie di impegno civile.
Come si colloca questa nuova raccolta nel percorso poetico di Franca Grisoni? Vi è da notare che per la prima volta non c’è una sola voce poetica, ma molte voci, molte identità, anonime però – intuiamo, ma non sappiamo di preciso chi sono -, donne e uomini di età diverse, che prendono la parola e dicono qualcosa dentro il flusso del comune destino umano.
La poetessa ci avvisa di questa particolarità mettendo in esergo questi versi di Baudelaire:
Sono la piaga e il coltello, / la guancia e la percossa! / Sono la vittima e il boia, / lo slogatore e le ossa!
Come accade a chi osserva il complesso dell’opera di Franca Grisoni, ogni raccolta riprende e sviluppa temi e immagini già presenti nella lirica precedente. Faccio solo alcuni esempi che, in questa raccolta, ci rimandano a opere della stessa autrice pubblicate in passato: l’immagine della “putina” e il dialogo interno fra la donna adulta e la bambina che lei è stata, ci porta subito alla raccolta d’esordio “La böba”, e a una delle poesie più note e più citate della Grisoni, “Se gh’es de ncontram mé” (“Poesie”, cit., p. 49). Ma a ben vedere queste parole-immagini punteggiano un po’ tutte le raccolte. Le penne e gli Angeli sono un chiaro riferimento a “La giardiniera” e a “L’ala”; la Tommasa ci fa balzare davanti agli occhi la Ladruna della “Passiù”; la parola “sigil” è il titolo della prima sezione de “La giardiniera”; così come “La giardiniera” (raccolta sorella di questo “L’ös” ) è richiamata nell’immagine del “cielo rovesciato”, che qui non è il prato del giardino ma il pavimento; l’atto del pulire evoca i “mister sura penser” de “La böba”; e via dicendo.
Non è un gioco estetico: queste ed altre parole-chiave sono le spie di una poetica che si fa, in quella inspiegabile manifestazione umana che chiamiamo poesia. Dico “inspiegabile” a ragion veduta: nelle scorse settimane, grazie al prof. Paolo Ferliga, mi è passato fra le mani un breve ma prezioso saggio di Carla Stroppa, “Fantasmi all’opera”, dedicato al rapporto fra letteratura e psicanalisi, dove ad un certo punto ho trovato questa considerazione:
“… la natura stessa della parola poetica esige una radicale sospensione di giudizio (…) la sua affascinante ed evocante eccedenza, il suo volo sciamanico, sguscia via da tutte le parti e tutto oltrepassa donando all’Io una scossa estetica, un che di vivo e vitale, nonché indicibile” (Carla Stroppa, Fantasmi all’opera – L’imperiosa realtà dell’illusione, Moretti & Vitali, 2013, pag. 161).
Ogni volta, e sono ormai tante, che mi capita di dover dire qualcosa sulla poesia di Franca Grisoni, vorrei dare conto anzitutto di quella “scossa estetica”, che è quella cosa che, alla fine della lettura de “L’ös” , mi faceva un po’ girare la testa, e mi dava la sensazione di atterrare dopo un volo. Se penso alla poesia di Franca, e in particolare a questa raccolta, l’immagine che mi viene alla mente è quella della tuffatrice di Eugenio Montale, “Esterina”, che qualcuno forse avrà in mente: Esterina, i vent’anni ti minacciano, / grigiorosea nube…
Cito solo gli ultimi versi di Montale, quelli in cui è descritta la tuffatrice:
T’alzi e t’avanzi sul ponticello (…) / Esiti a sommo del tremulo asse, / poi ridi, e come spiccata da un vento / t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra. / Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra.
È proprio un volo altissimo, questo de “L’ös”, da togliere il fiato.
La raccolta è divisa in quattro sezioni.
ös – La prima si chiama “ös” . Ci si presenta una “lei” che, avendo varcato un “uscio”, si trova in una dimensione mai esplorata prima, e non sa dove andare e si è persa. Vede se stessa “rovistare per fame”, segno di vite passate o di possibilità future, possibilità che magari non si avvereranno, ma che sono contenute, tutte, nella nostra umanità. Ecco dunque una fratellanza nuova con i dimenticati, e con l’anziana che, con le sue borse piene, cammina senza fretta perché la sua giornata è vuota e fare la spesa è un momento da far durare, e che dopo la fatica si concede “e ‘l so cafè. Ma al bar” (il suo caffè. Ma al bar). Ecco – in un vivace affresco – due vecchie che ridono in treno, la voce che racconta le ha sentite ma non le ha viste, e una dice della dentiera lasciata nel bicchiere. C’è poi quella che lustra la casa, e il suo lustrare è un andare contro il tempo che la cancella (“sota la goma / chì a scancelam / sensa pudì pö giöstam?” (sotto la gomma / qui a cancellarmi / senza potermi più correggere?). Il pavimento lustrato è come un cielo.
Non è un libro che emani la tristezza per il tempo che se ne va, è un libro pieno di vita, che esalta la vita come dono anche quando è ridotta al lumicino, e che accoglie l’umanità anche quando è sfigurata dalla malattia.
Mi è capitato di sostare qualche volta sotto le finestre di un Nucleo Alzheimer. Mi sedevo e ascoltavo le voci, qualche volta le urla, i lamenti che uscivano da quella finestra così vicina. Sembravano voci da un aldilà che ho ritrovato raccolte e cantate nelle poesie de “L’ös”.
Lo svanire della mente fa paura a tutti. Ma la poetessa ci aiuta a sopportare questa condizione, scrivendo: cosa importa dei nomi perduti? C’è un canto corale, anche stonato, che è una promessa per tutti.
Ci sono vecchi che si credono capaci di nascondersi e non sapranno mai da quanto non li cercano più; che tentano di sfuggire a tutto, anche alla morte che viene, chiudendosi in casa al buio; che, con la mente confusa, avvertono presenze misteriose nella casa, ed essa, vuota, pare loro affollata. Stanze vuote, giornate vuote, e un “da fare” inventato per questi vecchi bravi come bambini nel gioco dell’autoinganno.
In più di una poesia a parlare è invece chi sta vicino alla persona morente, e non può risparmiargli il dolore.
Da questo coro di voci esce il lamento del mondo, “lamento suo e non suo”, dolore di vite sue e non sue, e la poetessa (nella poesia “La se i a cata tra le ma”) si rimette dentro le viscere che si è trovata tra le mani, sue e non sue (la poesia è stata pubblicata sulla “Domenica” del Sole 24 ore del 6 ottobre 2013 e commentata positivamente da Paolo Febbraro).
putina – La seconda sezione si intitola “putina” e inizia con un flash back: il dolore di una bambina di sei anni che ha dentro il “male” che portò un uomo ad annegare nel ’51. C’è un gioco continuo fra la bambina che pettina “la grande”, la bambina rimasta dentro “col fuori / che le è cresciuto”. E c’è l’incontro della “grande” con quella bambina spaventata, che non aveva niente (un incontro impossibile fra le diverse età di una donna, ma la poesia può), mentre, in una simultaneità che la pittura ci rende nei quadri sulle “Età dell’uomo”, vede più avanti la vecchia sdentata che lei diventerà, una vecchia che ride e che la aspetta. È una vecchiaia ridente, liberata da pesi, la visione che qui si prospetta.
Il dimenticare diventa un fatto positivo, se fa svanire i dolori mai cancellati della bambina, se la sua stessa mano nel letto di ospedale si fa carezza, ed è mano del Signore che viene a consolarla e se le ossa slogate (richiamo al Baudelaire citato) cantano di gioia, perché sanno che stanno per essere aggiustate.
büs – La terza sezione si intitola “büs”. È la sezione più densa di rimandi alle Sacre scritture. Mi limito a sottolineare l’idea di un Alzheimer che fa dimenticare i propri peccati e anche e soprattutto i torti subiti: è una forma di perdono, forse la sola vera e totale cancellazione del male ricevuto, umanamente possibile.
La voglia di vita permane anche con il passare del tempo: dice una di queste vecchie: ho tanta biancheria e ancora me ne compro, ma i miei giorni calano (ricordiamo le lenzuola de “La böba”, in “Poesie”, cit., p. 55) che segnavano il tempo dell’amore.
vers – La quarta e ultima sezione, è “vers”. Oltre ai due significati della parola “vers” presenti nell’ultima poesia (verso poetico e direzione) qui ci sta anche quello di “verso” come parola disarticolata tipica del demente. Ci troviamo infatti di fronte a una vecchiaia di grave malattia, fisica e mentale.
Franca Grisoni, che da tempo collabora alla rivista “Psicogeriatria” commentando poesie di vari autori sull’Alzheimer, dà una lettura straordinaria e inaudita della condizione estrema della vita: la bava alla bocca “è il suo nuovo canto”, le parole perse vengono segnate da un angelo che le sconterà dal suo debito, le vecchie in cerchio sulle loro carrozzelle e le loro invettive, gli insulti che rivolgono al prossimo che cerca di aiutarle (“Putana… putana…”) la Grisoni ci aiuta a leggerli come un “Padre, Padre / perché mi hai abbandonato?”.
… “e cerco e cerco / finché non so più / che cosa ho perduto”, dicono le dementi che col loro soffrire purgano anche i nostri peccati.
L’immobilità del corpo (“Sono a me prigione”) spalanca aperture mentali vertiginose: c’è una sequenza straordinaria di poesie, un nucleo numerato con numeri romani da I a AVI (pagg. 90-95), in cui è il lago a venire alla persona immobile, che ha dentro voli di uccelli, pesci e la persona, probabilmente una persona semplice, si gira nel letto e riflette sul fatto che deve esserci una livella che tiene il cielo, il lago e il prato a bolla. È questa una sequenza straordinaria, visionaria, con pensieri ed esperienze forti, di gioia, di pienezza, di vastità in una persona immobile a letto.
Non c’è tristezza, né malinconia, non l’estenuante “malattia dell’infinito” illustrata da Pietro Citati nei suoi saggi sul Novecento. Qui c’è il dolore, che è un’altra cosa; il dolore è vita, è lotta, coraggio, e c’è anche l’abbandono confidente a una dimensione ancora piena di grazia.
Ci sono le voci mute dei morenti: il Signore sta mostrando davanti agli occhi di uno i regali che gli ha fatto, per renderlo consapevole di quanto erano belli, proprio adesso che sta per perdere tutto. Ci sono morenti pieni di vita e altri che desiderano solo spegnersi. Accendersi – spegnersi sono verbi che tornano di continuo in questa raccolta.
C’è una poesia in cui una “lei” non sa più se è già di là. La morte in fondo è un volo. E dopo la morte c’è il vivo che rimane e che dice: “Vorrei lasciarti riposare”, ma qui “tutto ti chiama” (con un forte richiamo a “La giardiniera” e ad altre successive raccolte).
Sono immagini, queste, che ci vengono da una poetessa che è anche una persona che nella sua vita è stata spesso accanto alla sofferenza, e in particolare alla sofferenza e al declino estremo dei vecchi. La verità che si sente in questi testi – detta con parole leggere, commoventi, umanissime – è esperienza.
Desidero infine sottolineare l’importanza di questa raccolta nell’ambito dell’opera complessiva di Franca Grisoni, perché dentro ci troviamo due importanti dichiarazioni di poetica: nella poesia “Parle da sul?” l’autrice nomina, credo per la prima volta, il “dialetto che sento / e ascolto prima d’averlo pensato!”, frase che condensa il tema dell’ispirazione poetica, quello che Franco Loi esemplifica spesso citando il “ditta dentro” dantesco (“I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando” – Purgatorio, Canto XXIV).
Altra dichiarazione di poetica è la poesia finale. È l’unica di questa raccolta che possiamo attribuire con sicurezza all’io della poetessa. Ecco la sua traduzione in italiano:
Mai stata così lontano / e lungo e lungo il viaggio / e non l’ho raggiunto / il porto tanto sospirato. / Itaca da indovinare / che mi chiama / a remare sempre più in là / facendomi perdere / i luoghi che ho già passato / i non più da ricordare. / / Qualcuno qualcosa / chiama a continuare / nel senza riva / che non posso raggiungere / ma hanno un verso le onde / eterne e lunghe / che possono incantare / e il verso – il dove – / vuole essere cantato.
Un Ulisse al femminile – che è più quello dantesco che quello di Omero – al termine del suo viaggio (viaggio che forse è la vita stessa, o la poesia) dice: “Mai stata così lontano”. È vero: questo de “L’ös” è il viaggio più alto e più vasto che la poetessa di Sirmione abbia compiuto in una raccolta. Un viaggio che ha tentato di andare oltre le Colonne d’Ercole dell’invisibile all’uomo.
“ma hanno un verso le onde / (…) / e il verso – il dove – / vuole essere cantato”
dove l’evidente doppio significato della parola verso (vers) – verso poetico e direzione – ci dà l’immagine di un poeta che, come Ulisse, rema nell’infinito (“il senza riva”) sempre più in là, spinto non si sa da chi verso qualcosa che non si può raggiungere. La poetessa dunque come esploratrice di nuove dimensioni dell’essere, e ricercatrice della sua – e nostra – patria vera.
Di questa navigazione, “noi della razza di chi rimane a terra”, dobbiamo esserle infinitamente grati.
Il testo della relazione qui riportato è stato pubblicato sul numero 111 della rivista Città & Dintorni (dicembre 2013).