Corriere della Sera, 2 settembre 2014
Il primo sindaco donna di Betlemme da oggi e fino a giovedì sarà a Brescia
Vera, paladina nonviolenta della causa palestinese
«Il mio popolo da decenni subisce una violenza senza precedenti» L’appello «È giunto il tempo che ciascuno si assuma le proprie responsabilità su ciò che accade al popolo palestinese»
Non è la stella cometa, ma è comunque un bel segno. Senza dubbio, doveroso. Sui cartelli con scritto «Brescia» all’ingresso della città è infatti finalmente comparso il nome di Betlemme, accanto a quelli di Darmstadt e di Logroño. Ce n’è voluto del tempo: sette anni. Al 2007 risale infatti il gemellaggio tra la Leonessa e la cittadina palestinese il cui nome significa «Casa del Pane». Ed è questo cartello che Vera Baboun, prima sindachessa donna della storia di Betlemme, vedrà quest’oggi nell’entrare in città. Arriverà a Brescia su invito di un’amministrazione comunale che, con il fondamentale contributo della CCDC (Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura) e dell’Associazione di Amicizia Italia-Palestina, intende rinsaldare e ravvivare un gemellaggio alquanto sui generis , voluto fortemente dall’allora sindaco Paolo Corsini, che gestì tutto l’iter in maniera autonoma e non proprio ortodossa (il suo mandato da primo cittadino era sul finire e volle fare in fretta, sorprendendo sia l’opposizione sia coloro che avrebbero potuto e dovuto supportarlo). Se si esclude qualche piccolo simbolico contributo offerto da Brescia per iniziative educative in Palestina, in collaborazione con i Francescani della Custodia di Terrasanta, da allora ad oggi è stato il silenzio. Soprattutto istituzionale. Ma con oggi si riparte. L’invito alla sindachessa era partito mesi fa, in tempi di (relativa) calma. Ma la polveriera si è nel frattempo riaccesa. E Vera Baboun arriva a Brescia proprio nel mezzo di un ennesimo sanguinoso conflitto, che è costato al suo popolo oltre duemila morti, di cui la maggior parte civili. Parlerà di sé e della sua Betlemme domani, alle ore 18 in Loggia, in occasione di un incontro pubblico organizzato dalla CCDC, dal titolo «Vita e speranza a Betlemme». A Brescia già concesse una intervista in esclusiva, apparsa sulle pagine del Corriere , il 20 ottobre del 2012 in occasione dell’elezione a primo sindaco donna della storia di Betlemme. Raccontò la propria drammatica storia (il marito era un militante nelle file di Fatah che morì di «crepacuore» per i soprusi perpetrati ai suoi danni dall’esercito israeliano) e fu molto chiara relativamente alle proprie posizioni: «Sono contro la violenza e propendo per il dialogo. Ma sono per la assoluta libertà del popolo palestinese, che da decenni sperimenta una condizione di occupazione e di violenza senza precedenti». Domani non potrà fare a meno di ribadire il concetto. Aggiornandolo sulla base di quanto accaduto negli ultimi tempi, alla luce anche della condanna ufficiale dell’Onu relativamente all’operato israeliano. «Non è il caso di continuare a girare attorno all’argomento tentando di evitare di andare a fondo e dire la verità. Seppure in maniera non violenta, è giunto il tempo che ciascuno ‘stati e persone’ si assuma le proprie responsabilità rispetto a quanto sta accadendo al popolo palestinese» ha spiegato ieri. Probabilmente, così come ha fatto di recente in una intervista al quotidiano Ha-Aretz (in ebraico, «La Terra») parlerà anche della disoccupazione e dell’economia che non va («la situazione spaventa i turisti e il muro blocca il flusso di merci e persone»), delle colonie, dell’acqua che scarseggia, degli ospedali che mancano. È decisa Vera Baboun. E assai risoluta. Dalla sua parte ha la forza che ha generato la lettura e lo studio della letteratura afro-americana femminile di protesta. Voci di donne grandi, come quella di Toni Morrison, che le hanno insegnato «come una donna può e deve lottare per i propri diritti. Senza arrendersi mai, nemmeno di fronte alla morte». Voci che ha ascoltato e riascoltato durante il proprio dottorato in letteratura inglese alla Hebrew University di Betlemme e che le sono valse l’avvio della carriera accademica presso l’università di Betlemme ‘istituto fortemente voluto da Paolo VI’ poi abbandonata per accettare l’incarico di direttrice di un istituto scolastico cristiano ortodosso che, mai prima d’allora, aveva avuto una cattolica ‘tantomeno donna’ al vertice. Tutto è però per il momento sospeso: gli impegni politici la assorbono completamente. Non è semplice essere la sindachessa di una città plurireligiosa e multiclanica, dove il primo cittadino deve necessariamente essere cristiano (così decise Arafat), e in cui la percentuale di cristiani continua a calare. Per di più, una città occupata (è eloquente il titolo dell’ultimo libro di Abuna Ibrahim Faltas, «Dall’assedio della Natività all’assedio della città») di 30mila abitanti, con oltre 5mila rifugiati. Non è facile, ma c’è speranza. Mahmud Darwish, sommo poeta palestinese, riconosciuta vox populi e unico vero cantore di una patria che sembra non poter esistere, ha definito la Palestina «una metafora». Ma su questo, Vera Baboun non vuole sentire ragioni. Nemmeno di natura letteraria. «Se la Palestina fosse solo una metafora, allora cosa verrei a fare a Brescia?».