Che il “dialogo” costituisca una caratteristica storica fondamentale del pontificato di Paolo VI appare chiarissimo. Non solo nel senso che egli si distinse come un uomo di dialogo, su vari piani e in contesti diversi, ma soprattutto perché fece entrare il “dialogo” nelle fibre più intime della vita ecclesiale. Egli era ben consapevole che la Chiesa nel mondo moderno, caratterizzato da mutamenti rapidi e profondi, sempre più pluralistico e complesso, non avesse altra strada per cercare momenti di sintonia che rendessero, non dico credibile, ma possibile l’annuncio cristiano. E tuttavia questa prospettiva, per nulla ovvia, apriva delle difficoltà pastorali grandissime perché rompeva con atteggiamenti codificati, con comportamenti cristallizzati e gessificati da secoli, con mentalità autoritarie e clericali, che ordinavano imperativamente e non dialogavano. Montini ne era ben consapevole.
Il 10 giugno 1963, undici giorni prima della sua elevazione al soglio pontificio, egli affermava: “la vita della Chiesa si avvicina a delle ore grandi e mosse. Non si può prevedere una fase tranquilla, uno svolgimento uniforme, isocrono. […] e quindi avremo delle belle, drammatiche manifestazioni di pensiero e di atteggiamenti. Guardiamo di capirle nella loro realtà […]. Dovrei anche aggiungere che il dramma della vita ecclesiastica si complica, e si arricchisce. Da questo: che il mondo è in tumulto, che il mondo è in una evoluzione accelerata che forse non ha mai avuto. E la Chiesa va appresso, resta in ritardo, anticipa, parla, eccetera. Il dialogo col mondo diventa anche qui, da una parte, confuso e polemico; dall’altra, invece, felice e quasi profetico, ché apre i sentieri dell’avvenire e della giustizia, come è stata, per esempio, l’ultima enciclica di Papa Giovanni sulla pace”. Dialogo, dunque, necessario e ineludibile, forse qualche volta confuso, qualche altra felicemente profetico, sempre difficile ed esigente.
Al dialogo Paolo VI dedicò l’intera terza parte della sua prima enciclica Ecclesiam suam, sulla quale ritornerò più avanti. Lo storico gesuita O’Malley ne ha ben indicato l’importanza storica: “L’enciclica ebbe un impatto diretto sul Concilio per un aspetto importante: il notevole rilievo che dava al dialogo. La parola ‘dialogo’ compare 77 volte, il suo significato e le sue applicazioni occupano per intero due terzi del lungo documento. Fu l’enciclica a immettere questa parola nella terminologia del Concilio: nella versione originale del documento sull’ecumenismo presentata al Concilio l’anno prima, per esempio, il termine non compare nemmeno una volta, mentre in quella riveduta, posteriore alla pubblicazione dell’enciclica, diventa una delle parole che più caratterizzano il testo. Fu in questo modo che il ‘dialogo’, così tipico dello ‘spirito’ del Vaticano II, entrò nella terminologia del Concilio; l’effetto più grande lo ebbe forse sullo schema sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”.
Ma in che senso Paolo VI valorizzò il dialogo? In questa sede non posso proporre una ricostruzione storica a tutto tondo. Rimando dunque, per tale più precisa contestualizzazione, alla mia biografia di Paolo VI, che tra pochi giorni sarà in libreria, edita dalla Morcelliana. Mi limito ora, pertanto, agli aspetti che mi paiono più rilevanti.
1. La fede come dialogo: la pedagogia divina
Innanzi tutto la fede stessa è, nella sua reale e profonda essenza, un dialogo. È Dio creatore che parla con la sua creatura e, in questo dialogo, la chiama, le manifesta il suo amore, la educa ad una vita nuova. Questo è un punto fondamentale della visione di Paolo VI, il quale nella Ecclesiam suam (del 6 agosto 1964) sottolineò:
Ecco l’origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con la umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’Incarnazione e quindi nel Vangelo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l’uomo a causa del peccato originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia. La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini(46) che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell’essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo. Il dialogo si fa pieno e confidente; il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si sazia. (n. 72)
Indubbiamente Paolo VI sentì con forza questa mistica dialogica e per questo volle valorizzare, proclamandole Dottori della Chiesa, figure come S. Caterina da Siena e S. Teresa d’Avila. E anch’egli ha lasciato personali testimonianze del suo dialogo mistico. Egli infatti sapeva ben addentrasi – con intimo consenso – in quella orazione contemplativa interiore in cui “il canto si fa sommesso, e sembra un segreto respiro, un monologo, un dialogo da innamorati. Dobbiamo attingerlo alla Sacra Scrittura per indovinarne alcune sillabe: «La voce del mio diletto! Ecco egli viene, a salti per i monti, a balzi per i poggi . . . Parla il mio diletto e mi dice: sorgi, affrettati, amica mia, colomba mia, bella mia, e vieni!» (Cant. 2, 8, 10). Il «Cantico dei Cantici» ci insegna certi sentieri della lirica amorosa, che trascendono dall’orizzonte dei sentimenti umani a quello del colloquio contemplativo”.
Si consideri poi che il dialogo diretto di Dio con l’uomo, nella fede, si affianca e talvolta si intreccia, per Montini, con il dialogo indiretto di Dio con l’uomo, nella ragione. Paolo VI, seguendo la tradizione tomista, vedeva questo secondo dialogo come possibile preambolo, come introduzione, al primo.
In tale contesto si poteva stagliare, per Montini, “uno sforzo di dialogo trascendente con Dio”, che poteva anche essere ellittico di un interlocutore, poteva essere cioè – dalla parte dell’uomo – inconsapevole e anonimo. Ma era pur sempre un dialogo implicito. Egli affermava: “Tutto è creazione; la scienza e la tecnica sono, in fondo, dialoghi con l’Essere primo. Cioé tutto suppone ed esige un principio trascendentale ed immanente. Tutto è rivelazione di un Pensiero presente ed operante, d’una parola creatrice, divina, diaciamo: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo“
Il Verbo: ecco. Nel Verbo, cioè nel Cristo-totale, Paolo VI vedeva il fondamento e il coronamento del dialogo di Dio con l’uomo, in ogni suo aspetto, declinazione, riverbero. Questo naturalmente portava alla Chiesa, vista come frutto del dialogo di Dio con l’umanità. Il 6 maggio 1970, a cinque anni dalla fine del Concilio, Paolo VI osservava: “che cosa vuol dire Chiesa? Chiesa vuol dire chiamata. Chiamata di Chi? chiamata di Dio. A chi questa chiamata? all’umanità. Subito la parola […] costituisce un rapporto sicuro, un dialogo vero, e infine una comunione, e perciò una salvezza e una beatitudine”.
Ma già nel 1964, nella Ecclesiam suam, Paolo VI aveva inserito la dialogicità al cuore dell’identità della Chiesa madre e maestra. Poiché “Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa, perché sia nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza” (n. 1), è evidente “quanto, da una parte, sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla Chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino” (n. 3). Ciò portava, per Paolo VI, in primo piano la questione “delle relazioni che oggi la Chiesa deve stabilire col mondo che la circonda ed in cui essa vive e lavora” (n. 13). Ma anche tale questione si riportava, in ultima istanza, alla dinamica dialogica della fede, con delle chiare e cogenti conseguenze:
73. Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità.
74. Il dialogo della salvezza fu aperto spontaneamente dalla iniziativa divina: Egli (Dio) per primo ci ha amati:(47) toccherà a noi prendere l’iniziativa per estendere agli uomini il dialogo stesso, senza attendere d’essere chiamati.
75. Il dialogo della salvezza partì dalla carità, dalla bontà divina: Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo unigenito:(48) non altro che amore fervente e disinteressato dovrà muovere il nostro.
76. Il dialogo della salvezza non si commisurò ai meriti di coloro a cui era rivolto, e nemmeno ai risultati che avrebbe conseguito o che sarebbero mancati; non hanno bisogno del medico i sani: (49) anche il nostro dev’essere senza limiti e senza calcoli. […]
78. Il dialogo della salvezza fu reso possibile a tutti; a tutti senza discriminazione alcuna destinato;(53) il nostro parimenti dev’essere potenzialmente universale, cattolico cioè e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l’uomo assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo.
2. La problematicità dei rapporti tra Chiesa e mondo
Ma per quanto limpida e lineare questa prospettiva potesse apparire, essa in realtà si increspava – e forse si agitava – subito in un mare di problemi. Non si poteva, cioè, prospettare un dialogo tra due interlocutori, Chiesa e mondo, quasi come due personalità reciprocamente esterne e l’una davanti all’altro. La Chiesa non era fuori dal mondo e di fronte ad esso: la Chiesa era nel mondo, soggetto protagonista del mondo umano-storico. Cioè era dentro ed era parte: quasi che il dialogo dovesse complicarsi in un coesistere di un’interlocuzione esterna e di una interna, senza poter preventivamente operare delle nette distinzioni. Ed inoltre quella parte di mondo che si potrebbe considerare fuori della Chiesa non aveva un’identità ed una storia univoche e immobili: e dunque, necessariamente, il dialogo si moltiplicava, con evidenti rischi di polverizzarsi.
Insomma il dialogo appariva, innanzi tutto, come problema, cioè come un ambito problematico che pullulava di problemi specifici, insorgenti ed accavallantisi, come onde di un mare molto mosso. Così nell’Ecclesiam suam Paolo VI ritornava più volte su questa necessaria impostazione problematica:
15. Si presenta cioè il problema, così detto, del dialogo fra la Chiesa ed il mondo moderno. […]
28. È a tutti noto che la Chiesa è immersa nell’umanità, ne fa parte, ne trae i suoi membri, ne deriva preziosi tesori di cultura, ne subisce le vicende storiche, ne favorisce le fortune. Ora è parimenti noto che l’umanità in questo tempo è in via di grandi trasformazioni, rivolgimenti e sviluppi, che cambiano profondamente non solo le sue esteriori maniere di vivere, ma altresì le sue maniere di pensare. Tutto ciò, come le onde d’un mare, avvolge e scuote la Chiesa stessa: gli animi degli uomini, che ad essa si affidano, sono fortemente influenzati dal clima del mondo temporale; così che un pericolo quasi di vertigine, di stordimento, di smarrimento può scuotere la sua stessa saldezza […].
90. Fino a quale grado la Chiesa deve uniformarsi alle circostanze storiche e locali in cui svolge la sua missione? Come deve premunirsi dal pericolo d’un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica e morale? Ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare, secondo l’esempio dell’Apostolo: Mi son fatto tutto a tutti, perché tutti io salvi?(58).
A fronte di questo quadro, complesso e problematico (in cui la Chiesa si muove come le onde sulla battigia, tra spinta e risacca: cioè si espande e si ritrae), Montini – che fino a quel momento aveva pensato che la principale attenzione fosse da riservare all’analisi del ‘mondo’, della società umana – compiva un radicale capovolgimento e volgeva l’attenzione alla Chiesa, alla coscienza del fedele: partiva cioè dal radicalismo evangelico come differenza cristiana. Ecco allora:
60. Vi è un […] atteggiamento che la Chiesa cattolica deve assumere in quest’ora della storia del mondo, ed è quello caratterizzato dallo studio dei contatti ch’essa deve tenere con l’umanità. Se la Chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé, e se essa cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina.
61. […] Il Vangelo è luce, è novità, è energia, è rinascita, è salvezza. Perciò genera e distingue una forma di vita nuova, della quale il Nuovo Testamento ci dà continua e mirabile lezione: Non vogliate conformarvi a questo mondo; trasformatevi e rinnovatevi invece nella mente per saper discernere qual è la volontà di Dio: quello che è buono, che piace a Lui ed è perfetto (38) ci ammonisce san Paolo.
Paolo VI sosteneva questo approccio nel 1964: l’anno prima, Martin Luther King aveva pubblicato in un volume (Strength to love), tradotto in italiano nel 1967, alcuni suoi sermoni. Tra questi uno partiva dallo stesso brano paolino (Rm 12, 2) citato da Montini, e con un filo argomentativo molto simile a quello montiniano.
Ma Paolo VI era pure molto attento ad evitare che il non-conformismo diventasse un arroccamento chiuso e polemico, che estraniasse integralmente la Chiesa dalla storia, auto-collocandosi fuori dal mondo. Osservava infatti:
65. Ma questa distinzione non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la Chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad essa, anzi si congiunge. Come il medico, che, conoscendo le insidie d’una pestilenza, cerca di guardare sé e gli altri da tale infezione, ma nello stesso tempo si consacra alla guarigione di coloro che ne sono colpiti, così la Chiesa non fa della misericordia a lei concessa dalla bontà divina un esclusivo privilegio, non fa della propria fortuna una ragione per disinteressarsi di chi non l’ha conseguita; sì bene della sua salvezza fa argomento d’interesse e di amore per chiunque le sia vicino e per chiunque, nel suo sforzo comunicativo universale, le sia possibile avvicinare.
La Chiesa, potremmo dire, fa il primo passo. La Chiesa si ferma e si china – come un Samaritano moderno – sul suo prossimo sofferente. La Chiesa si converte continuamente al Vangelo. E perciò si pone sempre, nei confronti della variegata realtà umana, in atteggiamento di misericordia e di carità:
66. […] Noi daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo.
67. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio.
Ma questo approccio pastorale, che non era una mera tattica ecclesiastica pratica di gestione delle relazioni umane, ma era approfondimento teologico ed ecclesiologico, alla luce del Vangelo, cambiava in modo profondo e radicale le modalità con cui, negli ultimi secoli, la Chiesa cattolica si era rapportata con il mondo: crollava cioè il paradigma intransigente, con le sue chiusure culturali integralistiche, con la sua autoreferenzialità trionfalistica, con il suo sguardo polemico e ostile sulla modernità, con le sue crociate e i suoi bastioni e le falangi di Cristo redentore.
Con l’enciclica sul dialogo, Paolo VI forniva dunque il suo importante contributo alla svolta storica che il Concilio Vaticano II stava realizzando, appunto come reformatio Ecclesiae e per una Ecclesia semper reformanda. Ed era un contributo che mirava alla coscienza del fedele, quasi si direbbe ad una riforma molecolare della Chiesa: cambiare, convertire al Vangelo, evangelizzare, gli stessi “stati d’animo” di ciascun fedele.
Prima ancora della Gaudium et Spes, dunque, nella Ecclesiam suam Montini affermava:
81. Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d’inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni.
82. Suppone pertanto il dialogo uno stato d’animo in noi, che intendiamo introdurre e alimentare con quanti ci circondano: lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell’umano discorso.
Il riferimento alla missione e al mandato apostolico non deve indurre in errore. Paolo VI non riproponeva, in forma più raffinata, la distinzione estrinseca tra Chiesa e mondo, come presupposto del dialogo. Non c’erano cioè paratie rigide tra dentro e fuori, tra vicini e lontani. L’unica condizione di possibilità del dialogo era la buona volontà, cioè la volontà sincera di dialogo. Questo solo contava, dentro e fuori la Chiesa.
Era allora solo come indicazione metodologica pratica che Paolo VI distingueva tra un dialogo ad intra ed un dialogo ad extra. Giova, tuttavia, accogliere questa prospettiva e vedere, ora, come il dialogo, nella visione montiniana, si sviluppi nelle due dimensioni; ma considerandole, direi, come due grandi arcate di una volta a crociera: due archi trasversali che si incrociano in una chiave di volta.
3. Il dialogo ad intra
Una prima, decisiva dimensione era il dialogo interno alla Chiesa, tra tutti i membri della comunità ecclesiale. Era, per Paolo VI, un dialogo domestico tra persone libere e forti.
In realtà nell’ecclesiologia pre-conciliare, in cui la Chiesa si autopercepiva come società perfetta e come ecclesia militans, perciò come esercito schierato in campo per combattere la santa battaglia, le relazioni intra-ecclesiali erano fortemente piramidali e gerarchiche, improntate alla compatta disciplina e alla pronta obbedienza, non certo ad un dialogo familiare e domestico.
Fino al Vaticano II era il magistero, la Chiesa docente, che perimetrava a priori possibilità e limiti del dialogo interno con i fedeli, cioè con la Chiesa discente. La comunicazione era prevalentemente a senso unico e dall’alto (dalla cattedra episcopale,
dall’ambone, dal pulpito), fortemente sacralizzata. Le direttive pastorali erano date dal papa ai vescovi, dai vescovi ai presbiteri e dai presbiteri al popolo. Per l’attuazione di tali direttive si poteva attivare un dialogo, prevalentemente a due (tra vescovo e prete), ma era evidentemente un dialogo a libertà limitata in partenza. Vi erano tuttavia anche forme più collettive: tra prete e associazioni del laicato; nonché in modalità più dirette e amicali: tra i laici, soprattutto se di Azione cattolica.
Da arcivescovo di Milano, dal 1955 al 1963, Montini cercò di superare queste rigidità relazionali inserendovi il dialogo: dialogo pastorale, cioè del pastore e in cui il pastore era al centro.
Con il Concilio il punto di vista si approfondiva e, progressivamente, cambiava: dal dialogo pastorale si passava ad una pastorale del dialogo, che si innestava in un’ecclesiologia di comunione. Il dialogo cioè non era un’attività importante della Chiesa, non era una modalità o una strategia comunicativa, era parte dell’identità profonda della Chiesa, amata e chiamata e perciò amante e chiamante. La pastorale del dialogo apparteneva, dunque, a tutti i membri della Chiesa e si esprimeva, innanzi tutto, rinnovando, in senso comunionale e comunitario, le stesse relazioni intra-ecclesiali.
Ciò non annullava ruoli e ministeri e non eliminava, in particolare, il ministero pastorale e gerarchico. Ma ora il dialogo pastorale non era più solo il dialogo del pastore con il gregge, bensì di tutto il Popolo di Dio. Il pastore ascoltava tutti e si confrontava con tutti, in forma personale ma anche comunitaria. Operava poi il discernimento e tracciava la sintesi a posteriori. Permaneva così la dialettica autorità-obbedienza, ma l’autorità si poneva come servizio e carità pastorale e l’obbedienza si svolgeva a dialogo. Nell’Ecclesiam suam Paolo VI lo chiariva.
Di lì a poco, per la verità, doveva aprirsi per la Chiesa cattolica e per Paolo VI la difficile stagione della contestazione, in cui il dialogo si fossilizzava in dissenso sistematico, cioè, per meglio dire, in una progressiva e reciproca chiusura: quello che viene talvolta denominato ‘dialogo fra sordi’. Molte potenzialità positive, energie giovanili generose e creative, vennero allora bruciate. Un giudizio storico equanime richiederebbe una lunga analisi. Mi limito ad osservare che fu il prezzo pagato ad un rinnovamento autentico, in cui la Chiesa cattolica, nelle sue diverse componenti, si espose, con sincera immediatezza, ad un vero dialogo, senza essere ancora preparata e pronta, senza essere stata educata al dialogo, all’atteggiamento pastorale dialogante, alla disposizione dialogica dell’animo, senza aver imparato a dosare con equilibrio tempi e modi, evitando impaurite chiusure, indebite lentezze e velleitarie fughe in avanti.
E tuttavia, nel crogiuolo delle contrapposizioni accese e del dissenso, andava comunque emergendo una precisa focalizzazione della condizione necessaria per il dialogo intra-ecclesiale: focalizzazione che, paradossalmente, dopo il pontificato di Paolo VI, in un periodo più di consensi e certezze che di dissensi e dubbi, si sarebbe appannata.
Mi riferisco alla precisa messa a punto che, sulla linea del Concilio, la Pontificia Commissione per le Comunicazioni sociali, istituita da Paolo VI, prospettò, il 23 marzo 1971, nell’istruzione pastorale Communio et Progressio.
Tale istruzione approfondiva infatti, tra l’altro, un fondamentale aspetto della vita ecclesiale, quello dell’opinione pubblica nel seno stesso della Chiesa. Giungeva così a mettere a fuoco, con precisione, la condizione essenziale per un vero dialogo intra-ecclesiale e cioè il principio della libertà di parola nella Chiesa. Nella Communio et Progressio, dunque, si trova la migliore e più limpida focalizzazione di tale questione in un testo del magistero della Chiesa. Si tratta di una focalizzazione non ancora superata:
La Chiesa è un corpo vivo e ha bisogno dell’opinione pubblica, che è alimentata dal colloquio fra le diverse membra. Solo a questa condizione essa può diffondere la sua dottrina e allargare il cerchio della sua influenza. “… Mancherebbe qualcosa alla sua vita, se l’opinione pubblica le venisse a mancare; la colpa di questa carenza ricadrebbe sui pastori e sui fedeli”.
Perciò è necessario che i cattolici siano pienamente coscienti di avere quella vera libertà di parola e di espressione, che si fonda sul “senso della fede” e sulla carità. […]
Chi ha responsabilità nella Chiesa procuri d’intensificare nella comunità il libero scambio di parola e di legittime opinioni ed emani pertanto norme che favoriscano le condizioni necessarie per questo scopo.
Vastissima è la zona di ricerca, nella quale può attuarsi questo dialogo interno; benché le verità della fede appartengano alla essenza stessa della Chiesa e non possano in nessun caso essere lasciate alla libera interpretazione dei singoli, tuttavia la Chiesa avanza con la storia umana e deve quindi rendersi idonea all’inserimento nel mondo orientandosi opportunamente secondo le contingenze di tempo e di luogo, sia perché le verità della fede vengano proposte validamente nelle diverse situazioni storiche e culturali sia per aggiornare la sua azione pastorale secondo il ritmo del rinnovamento che si attua nel mondo.
Pertanto, quando un cattolico intende seguire fedelmente le indicazioni del Magistero, può, anzi deve, ritenersi impegnato in una libera ricerca per attingere una più profonda comprensione delle verità rivelate o per farne una presentazione più adatta alla nostra società pluralistica in continuo mutamento. Questo libero dialogo nella Chiesa non nuoce certamente alla sua saldezza e unità; anzi, con la rapida circolazione dell’opinione pubblica, il dialogo può favorire la concordia di intenti e di opere. Ma perché questo colloquio possa alimentarsi e intensificarsi utilmente è sommamente importante che tutti conservino, anche nel dissenso, una carità longanime e si sentano animati dal desiderio di continuare e di rafforzare l’intesa e la collaborazione.
Con precisione, dunque, questo documento chiariva come il dialogo interno dovesse essere fondato su una vera libertà di parola, come ciò fosse una condizione per la stessa missione della Chiesa e come un’eventuale carenza fosse una colpa grave. Aggiungeva inoltre che la libera ricerca e il libero dialogo non solo non indebolivano l’unità della Chiesa, ma la rinsaldavano profondamente, così che, se essi si indebolivano, era la stessa unità ecclesiale a soffrirne. In un contesto in cui fossero radicati e forti il “senso della fede” e la “carità” era possibile perfino il dissenso.
Queste indicazioni non sempre furono attuate nelle Chiese locali. Ma tuttavia ci fu un’innegabile fioritura di strutture collegiali e sinodali (dal Sinodo mondiale dei vescovi ai consigli presbiterali ai consigli pastorali diocesani e parrocchiali, ecc.). Tutto questo rappresentava uno sforzo affinché – senza togliere la centralità funzionale del ministero pastorale – al centro spirituale di tutta la comunità ecclesiale si riconoscesse sempre la presenza attiva dello Spirito Santo.
Anche per quanto riguarda il “dialogo ad extra” si richiedeva un passaggio dal “dialogo pastorale” alla “pastorale del dialogo”. Nel periodo dell’episcopato ambrosiano, il dialogo pastorale per Montini era all’insegna della difficoltà, per le enormi energie e capacità che richiedeva al Pastore, araldo del Vangelo. E tale difficoltà si accresceva per la caratteristica essenziale del mondo moderno visto, guardinianamente, come geloso di verità e valori, cristiani nella loro origine ma ormai decapitati del loro riferimento primo a Cristo e al Vangelo. Si stabiliva così un rigido dualismo Chiesa-mondo, che sospingeva Montini su sponde integralistiche, anche se egli cercava di evitarle, con intelligenza e sensibilità avvertita, ricorrendo soprattutto alla carità.
Da papa egli avvertì subito l’esigenza che la Chiesa non si estraniasse dal dialogo culturale, per paura del pluralismo e del confronto aperto, quasi che il dialogo minacciasse la cristallina fedeltà al deposito della fede. In realtà senza il dialogo tale deposito si fossilizzava, come morto reperto archeologico, come talento sotterrato nel terreno: questa sì vera infedeltà al Vangelo. Così egli parlava di dialogo “con gli atei, con i non cristiani, con i cristiani di varie confessioni”: sono questi, in effetti, i “cerchi concentrici” del dialogo intravisti nell’enciclica del 1964. Ed è significativo che, riformando la Curia romana, Paolo VI desse una configurazione unitaria e organica a quella che fu definita la “Curia del dialogo” e che si strutturava nei tre Segretariati: per l’unità dei cristiani (che si occupava delle questioni ecumeniche, ma anche dei rapporti religiosi con gli Ebrei); per i non cristiani (che si occupava dei rapporti con le altre religioni e, in particolare, con l’Islamismo); per i non credenti (che doveva impostare il dialogo aperto con tutti gli uomini e le donne di buona volontà).
Nella Ecclesiam suam Paolo VI ribadiva la volontà della Chiesa cattolica, già espressa con forza da Giovanni XXIII, di partecipare al movimento ecumenico, cioè al dialogo tra le Chiese cristiane, in vista dell’unità perduta. Si trattava, per lui, di un vero dialogo religioso, spirituale, evangelico, nella fede e nella carità. Con le religione non cristiane, invece, il dialogo era profondamente diverso, non era propriamente interreligioso, non avveniva sul piano della fede religiosa, ma dei valori morali e della cultura spirituale.
In ogni caso, tanto su questo piano del dialogo con le religioni non cristiane, quanto anche su quello ecumenico, Paolo VI conservava un certo ecclesiocentrismo, perfino romanocentrico: era la Chiesa cattolica romana che prendeva l’iniziativa di ricondurre tutti i fratelli separati all’unico ovile e il ministero petrino era presentato – senza alcuna problematizzazione – non come ostacolo all’unità, bensì come cardine dell’unità e a suo servizio.
Parzialmente diverso e più proteso verso l’altro era il dialogo con l’umanità in quanto tale, anche atea e non credente. Indubbiamente quello che stava a cuore a Paolo VI era la possibilità – e la capacità da parte della Chiesa – di aprire un dialogo con tutti gli esseri umani, sulla base della comune umanità. La Chiesa, dunque, in quanto “esperta in umanità”, non aveva mire politiche e temporali, neppure nel senso alto e nobile di una civiltà cristiana. Il cristianesimo non crea le civiltà, le salva: era questo dialogo di salvezza l’obiettivo essenziale e finale di papa Montini.
Nella Ecclesiam suam affermava:
Questo dialogo umano, rivolto a tutti gli esseri umani e a tutte le forme di comunità civili e formazioni sociali – stati, nazioni, corpi intermedi, famiglie – aveva, in ogni caso, per Paolo VI un nome preciso: pace. Il dialogo ad extra, se inteso con gli uomini e le donne di buona volontà, in modo generale e plenario, era essenzialmente un dialogo di pace: un dialogo pacifico e pacificatore, per la pace. Nell’Ecclesiam suam lo dichiarava apertamente.
Sulla base di una civiltà di pace, si apriva l’impegno per la giustizia e per la libertà, nella linea di un umanesimo plenario – che Paolo VI definiva nella Populorum Progressio – anch’esso fondato sul dialogo e sulla collaborazione con uomini e donne di buona volontà. Di questo umanesimo la Chiesa era fermento. E il dialogo umano e di pace si intrecciava strettamente al dialogo di salvezza: “Per i poveri specialmente, per i diseredati, per i sofferenti, perfino per i morenti. Per tutti” (n. 99).
E non era un compito prevalentemente di vertice. Era una missione che il papa affidava alle comunità locali, alla base. Nell’Octogesima adveniens affermava: “Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito Santo – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà -, le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi” (n. 4).
In questo capillare impegno dal basso per la costruzione della pace, della giustizia e della libertà, si sarebbe edificata – come Paolo VI avrebbe più volte ripetuto negli ultimi anni del suo pontificato – la “Civiltà dell’amore”.
Cristo Liberatore era infine, per Paolo VI, la chiave di volta del dialogo (tanto ad intra quanto ad extra: anzi proprio nel loro incrociarsi e co-implicarsi). Da Cristo Liberatore, mite e umile di cuore, derivava la mitezza cioè la nonviolenza della liberazione evangelica: ciò aveva due decisive conclusioni nella prospettiva montiniana sul dialogo.
Paolo VI non si nascondeva né ignorava il pericolo – sempre incombente – di un annacquamento compromissorio dell’annuncio evangelico. Ogni dialogo vero e non pregiudizialmente limitato e depotenziato correva dei rischi: “Ma il pericolo rimane. L’arte dell’apostolato è rischiosa. […] solo chi vive in pienezza la vocazione cristiana può essere immunizzato dal contagio di errori con cui viene a contatto” (Ecclesiam suam, nn. 91-92).
Ma allora – ecco le due conclusioni di liberazione – da un lato ci voleva una dialettica di autentica sapienza e, dall’altro, una prudenza pedagogica. La pienezza della vocazione cristiana era, così, non un requisito astratto, presupposto una volta per tutte, a monte di ogni dialogo, ma una dimensione esistenziale permanente, viva e vitale, che si metteva continuamente in gioco accompagnando il dialogo, a monte e fino a valle.
Nell’Ecclesiam suam, dunque, da una parte, Paolo VI affermava:
Dall’altra parte, in questo contesto dialogico, fatto di fraternità, di amicizia e di servizio, Paolo VI innestava le note caratteristiche e distintive per educare ad una vera comunicazione spirituale. E con questa citazione concludo:
NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.2.2015 su iniziativa della Diocesi di Brescia, Acli, Pax Christi, Ccdc.