La libertà non è tema centrale in Pascal e tuttavia la sua filosofia è una filosofia della libertà. Difficile negare che il pensiero di Pascal sia un pensiero della libertà, come risulta dalla sua opposizione al razionalismo metafisico sulla base di una profonda ispirazione cristiana. Del resto anche il razionalismo di Cartesio, pur avversato da Pascal, aveva ripreso temi del volontarismo assegnando a Dio una libertà assoluta. Pascal sta del tutto all’interno dell’orizzonte moderno, che è segnato non solo dalla nuova scienza, ma anche dall’affacciarsi del principio della libertà come principio ontologico, che definisce una concezione di Dio che tende a distaccarsi dall’antica metafisica. In Pascal tuttavia al centro dell’attenzione non è l’essere di Dio, ma la condizione dell’uomo. In questa il tema della libertà emerge sotto un duplice profilo, quello pratico dell’esperienza morale nel suo rapporto con l’esperienza religiosa, e poi quello teorico dell’alternativa tra fede e ateismo, cioè quello del rapporto con la verità ultima. In ambedue gli ambiti si vedrà come, nonostante l’anticartesianesimo, l’ordine della ragione non sia eliminato (Pascal non è un irrazionalista) e tuttavia sia preceduto dall’ordine della libertà e questo a sua volta s’intrecci con l’ordine della grazia.
La libertà dell’uomo alla luce del peccato originale
1. Condizione dell’uomo come medietà tra nulla e infinito
Per comprendere la libertà umana secondo Pascal occorre illustrare la sua antropologia.
– Nella natura è un essere intermedio tra il nulla e l’infinito (v. Pensieri, 84). Condizione che suscita inquietudine.
– Nell’ambito pratico si manifesta come desiderio, che non si arresta mai su nulla, ma va sempre oltre. Il desiderio si rivela duplice, si rivolge al finito, ma tende all’infinito: non si acquieta di nessuna finitezza e però cerca sempre nuovi oggetti finiti a cui attaccarsi. Qui si vede come la condizione intermedia ci appaia insoddisfacente.
2. La medietà di fatto produce tensione e non sintesi
La dimensione infinita della finitezza rende dimentichi della finitezza stessa e questa, chiusa nel suo orizzonte, rende dimentichi dell’infinità. L’uomo si avverte partecipe dell’infinito, ma anche lontano da esso. Grandezza e miseria dell’uomo.
Sulla grandezza molti filosofi hanno fatto leva per esaltare l’uomo considerandolo capace di diventare un essere divino, capace cioè con la sua ragione di conoscere Dio e con la sua volontà di diventare perfettamente virtuoso. Ma su questa via hanno finito con il rovesciare completamente il senso della virtù: ne hanno fatto motivo di orgoglio, hanno divinizzato l’uomo, sono giunti ad affermare che “il dolore e la morte non sono mali” (Conversazione con De Saci, 316). Questo rovesciamento è, a ben vedere, molto naturale: Epitteto – scrive Pascal – “dopo aver cosìben compreso ciò che si deve… si perde nella presunzione di ciò che si può” (ibi); il suo errore consiste molto semplicemente nel credere che quel che dobbiamo fare sia in nostro potere di farlo. La morale stoica diventa morale dell’orgoglio ed anzi della “superbia diabolica”.
Al contrario la morale scettica fa leva sulla miseria dell’uomo e conduce all’ignavia. Montaigne conclude che si deve abbandonare la ricerca del bene e della verità: “che se ne deve lasciare la cura agli altri; e restare nel frattempo in riposo,[…]; e accettare il vero e il bene a prima vista, senza indagarli, perché sono così poco solidi che, non appena si chiude un poco la mano, essi sfuggono tra le dita e la lasciano vuota” (ibidem, 324); la sua regola di condotta consiste “nella completa comodità e tranquillità”; la sua virtù “è spontanea, familiare, piacente, gaia, e per così dire ridente; essa segue ciò che la attira, e se ne ride con negligenza degli accadimenti buoni o cattivi, mollemente sdraiata in seno a un’inoperosità tranquilla” (ibidem, 325). Il presupposto è che la ragione è irrimediabilmente lontana dalla verità, dall’infinito.
Queste opposte correnti filosofiche sono in fondo tentativi di evitare la contraddizione della condizione dell’uomo, cosa che si può fare eliminando uno dei due termini della contraddizione stessa, o la miseria (così fa lo stoicismo) o la grandezza (così lo scetticismo), dove la miseria non sta semplicemente nella finitezza dell’uomo ma in una finitezza separata dall’infinità. e la grandezza non sta semplicemente nella dimensione di infinità ma in un’infinità che informa la finitezza.
Ora però la contraddizione tra grandezza e miseria (e qui sta una delle più straordinarie intuizioni di Pascal) non si può veramente superare, perché i due termini contrari sono direttamente e non inversamente proporzionali. L’uomo non è pensabile semplicemente o come misero o come grande, perché quanto più appare misero tanto più appare grande, e quanto più appare grande tanto più appare misero. Infatti, proprio nel prender coscienza della sua profonda miseria, l’uomo avverte più acuta la nostalgia di un’originaria o di un’ancora possibile grandezza, che gli impedisce di cadere in una piatta accettazione della miseria stessa e lo risospinge verso l’infinito: “Nonostante la vista di tutte le nostre miserie, che ci toccano, che ci stringono alla gola, abbiamo un istinto che non possiamo reprimere, che ci eleva” (Pensieri, 274). E non solo la miseria è controbilanciata dal sentimento della grandezza, ma anche è manifestazione di essa: “La grandezza dell’uomo sta in ciò, che si riconosce miserabile” (Pensieri, 255, v. 256); “Tutte queste miserie provano la sua grandezza. Sono miserie di grande signore, miserie di un re spodestato” (Pensieri, 269, v. 275). Insomma lo stato in cui l’uomo si trova è definibile come stato di miseria solo perché confrontato con una grandezza assente, con un’altra natura, di cui restano però le tracce; così come la grandezza che l’uomo avverte in sé‚ non fa che dimostrare la sua miseria, perché è una grandezza perduta, una grandezza di cui resta solo più l’aspirazione.
3. Il peccato originale
La chiave per spiegare questa condizione contraddittoria è per Pascal il peccato originale, che egli intende proprio come fallimento del tentativo di impadronirsi del segreto della finitezza umana. Ora il peccato originale è stato il primo esercizio della libertà umana. Così Pascal lo descrive mettendo le sue parole in bocca alla Sapienza divina: “Io ho creato l’uomo santo, innocente, perfetto; io l’ho colmato di luce e di intelligenza; gli ho comunicato la mia gloria e le mie meraviglie. […] Ma non ha potuto sostenere tanta gloria senza cadere nella presunzione. Ha voluto rendersi centro di se stesso e indipendente dal mio soccorso. Si è sottratto al mio dominio; e uguagliandosi a me con il desiderio di trovare la sua felicità in se stesso, io l’ho abbandonato a se stesso” (Pensieri, 483). La radice del peccato è dunque nella presunzione generata dalla stessa gloria a cui Dio ha elevato l’uomo. Essendo stato reso capace di Dio, egli si presume capace di Dio da se stesso. Il peccato è un quasi impercettibile spostamento d’accento nella verità. Se l’infinito ha unito a sé il finito, sembra legittimo credere che il finito possa unire a sé l’infinito. Ma in questo spostamento va perduto il segreto di quell’unione: il finito era sì unito all’infinito, ma non possedeva quel segreto; il tentativo superbo di realizzarla da sé non può allora che fallire producendo l’interminabile e vano processo con cui il finito insegue l’infinito.
Ora quella condizione originaria della libertà, che precede la caduta, è irrecuperabile; di essa restano in noi solo il “vuoto” e la contraddizione che esso determina, mentre ne viene meno del tutto la memoria (v. Pensieri, 640). Lo stoicismo, che presume di ricongiungere il finito con l’infinito, non fa in fondo che ripetere lo stesso peccato d’orgoglio originario; a sua volta lo scetticismo si limita ad accettare l’impossibilità di recuperare quel rapporto, ma in questo modo non riconosce che esso ha per l’uomo un carattere costitutivo.
Peraltro lo stesso rimedio offerto dal cristianesimo non realizza una sintesi armonica, non ripristina la condizione originaria. La grazia infatti ricongiunge l’uomo a Dio soltanto negandolo: per tornare a Dio si deve negare se stessi. E ciò è diverso dallo scetticismo, che nega sì il potere dell’uomo ma senza con ciò ricongiungerlo a Dio, ed è diverso dallo stoicismo che invece ricongiunge l’uomo con Dio ma senza negarlo anzi esaltandolo. Nel peccato originale è avvenuta la dissociazione di quelli che, secondo Pascal, sono i due amori dell’uomo, l’amore di Dio e l’amore di sé. In conseguenza di tale dissociazione i due amori sono diventati assolutamente incompatibili, al punto che, per amare Dio, è necessario odiare se stessi: “Bisogna amare solo Dio e odiare se stessi” (Pensieri, 707, v. anche 564, 433). Questa antitesi un po’ schematica deve, tuttavia, essere precisata. E’ quanto avviene soprattutto nel Pensiero 712 (ma v. anche 710): “La vera ed unica virtù è di odiare se stessi (perché si è odiosi per la propria concupiscenza) e di cercare un essere veramente degno di essere amato, per amarlo. Ma siccome non possiamo amare ciò che è fuori di noi, occorre amare un essere che sia in noi, e che non sia noi […]. Ora non c’è che l’essere universale che sia tale. Il regno di Dio è in noi. Il bene universale è in noi, è noi stessi, e non è noi”. Nell’amare Dio che è principio del nostro essere amiamo dunque anche noi stessi. Ma come possa realizzarsi questa coincidenza è incomprensibile, perché il nostro vero “noi stessi” è smarrito.
Il principio dell’amare solo Dio e dell’odiare se stessi è il cercato principio della morale, principio che rovescia quelli della morale dell’orgoglio e della morale dell’ignavia, che nella loro diversità hanno tutti in comune il primato dell’amor di sé. Ma tale principio ha un carattere paradossale, perché nell’amore di Dio realizza una coincidenza fra l’amore di sé e la negazione di sé.
4. Libertà e grazia
Perciò la conversione all’amore di Dio non può essere fatta da quella libertà umana, che è decaduta dalla sua condizione originaria. La condizione che rende possibile anteporre l’amore di Dio all’amore di sé è l’intervento della grazia, ma quest’azione della grazia sembra vanificare la libertà. Nella polemica antimolinista e nella ripresa delle tesi agostiniane negli Scritti sulla grazia, oltre che nelle Provinciali, Pascal osserva che nell’uomo originario vi era un rapporto di perfetto equilibrio fra libertà e grazia, perché l’uomo disponeva di un libero arbitrio e, allo stesso tempo, di una grazia sufficiente per salvarsi (v. Scritti sulla grazia, a cura di G.Morra, Forlì, Edizioni di Ethica, 1966, pp. 26-27 e 32-33), e azione divina e azione umana si potevano integrare perfettamente; al contrario, dopo la caduta, il libero arbitrio “infallibilmente e spontaneamente si rivolge al male”, oppure, quando sia data la grazia, “sceglie spontaneamente e infallibilmente la legge di Dio”. Nelle azioni buone vi è un concorso della volontà umana, ma solo in quanto sia mossa dalla volontà divina, al punto che “si può attribuire l’azione alla sola volontà di Dio” (ibi). “Quando piace a Dio – è scritto nella XVIII Provinciale – toccare l’uomo con la sua misericordia, gli fa fare ciò che vuole e nel modo che vuole”. E però aggiunge: “senza che questa infallibilità dell’azione di Dio distrugga in modo alcuno la libertà naturale dell’uomo”. La libertà infatti non verrebbe forzata, perché, “trovando la sua gioia più grande nel Dio che la affascina, vi si porta infallibilmente da sé con un movimento affatto libero” (Le provinciali, a cura di G. Preti, Torino, Einaudi, 1972, p. 240). Come nel rapporto fra amore di Dio e amore di sé, anche qui la grazia non distrugge la libertà umana, e però la loro unità è pensabile solo più come coincidenza della libertà con la grazia; e come l’amore di Dio, più che risanare l’amore di sé, si può dire che lo assorba, così la grazia, più che restaurare il libero arbitrio, lo trasforma in volontà rivolta a Dio, in una libertas maior (il problema è se non sia indispensabile anche quella minor per definire la libertà).
La dottrina agostiniana della grazia, che Pascal adotta, preserva tuttavia la complessità del rapporto tra finito e infinito, che non è né di semplice identità e neanche di semplice opposizione; più di quanto non facciano le due opposte teologie che Pascal si trovava a combattere, che erano – allo stesso modo delle due filosofie, la dogmatica e la scettica – semplificazioni riduttive: il molinismo perché rendeva superflua la grazia, il protestantesimo perché rinunciava alla libertà umana. Ma la complessità del rapporto, se non si lascia ridurre, nemmeno si lascia comprendere: di qui anche le oscillazioni tra affermazioni che salvaguardano la responsabilità dell’uomo in ordine alla salvezza (v. Pensieri, 831) e altre che la escludono, come quella terribile: “Non si capisce nulla delle opere di Dio, se non si prende per principio che Egli ha voluto accecare gli uni e illuminare gli altri” (Pensieri, 573).
In ogni caso è la coincidenza paradossale di libertà e grazia ciò che rende possibile l’azione morale, per la quale non è più sufficiente la semplice legge morale: “La legge comandava quello che essa non donava. La grazia dona ciò che essa comanda” (Pensieri, 667). È questo l’aspetto più paradossale della fondazione religiosa della morale: che essa si presenti cioè alla nostra volontà come un’obbligazione, ma allo stesso tempo come un’obbligazione a cui essa non può da se stessa ottemperare. L’analisi pascaliana della condizione dell’uomo ha annullato ogni spazio per un’azione moralmente buona al di fuori della grazia. Non c’è spazio per una morale autonoma, perché Dio è l’unico bene (Pensieri, 721), ma Dio è perduto, il rapporto con lui è interrotto, e la “ricerca del vero bene” è “inutile” (Pensieri, 693). E tuttavia è una ricerca che rivela la traccia del perduto rapporto col vero bene, una traccia che consente di riconoscerlo almeno negativamente: “Anche se non si può determinare ciò che è giusto, si vede bene ciò che non lo è” (Pensieri, XXI). Il vero bene non è dunque del tutto estraneo all’uomo, anche decaduto, perché ne permane in lui una traccia; ed è proprio in virtù di questa traccia che si può dire che ciò a cui la grazia irresistibilmente spinge è anche in qualche modo ciò che è autonomamente voluto. Poiché il bene che l’uomo, spinto dalla grazia, persegue, è un bene inscritto nella sua natura, si può anche riconoscere una certa autonomia della morale. Si potrebbe allora dire che ciò che la grazia ispira non è qualcosa di arbitrario ed estraneo alla legge morale e che quindi la libertà è sì forzata dalla grazia, ma è forzata a rispettare la sua propria legge.
5. Legge morale e volontà di Dio
Su questo punto vi sono due difficoltà. In primo luogo la già ricordata libertà di scelta: la grazia non finisce per sopprimere la libertà di scelta? (E in effetti questo tema non è adeguatamente messo a fuoco da Pascal; e però senza la libertà di scelta come sarebbe pensabile il peccato originale?). La seconda difficoltà sta nel fatto che le norme morali vengono ricondotte da Pascal alla volontà di Dio, coerentemente con il principio dell’amore di Dio quale supremo principio della morale. “Cambiamo la norma che abbiamo seguito fin qui per giudicare di quello che è buono. Tenevamo come norma la nostra volontà, assumiamo ora la volontà di Dio… Tutto ciò che Dio non vuole è proibito” (B 668 C 648); “la ragione per cui i peccati sono peccati sta solo nel fatto che sono contrari alla volontà di Dio” (Lettera a M.lle de Roannez, sett.-ott. 1656). Questo volontarismo estremo, che ricorda quello di Cartesio e implica l’assolutezza della libertà divina, è però in Pascal anzitutto una conseguenza dell’assunto che la ragione ha smarrito i criteri di verità: essa deve, di conseguenza, conformarsi a ciò che Dio le rivela e che si presenta perciò come manifestazione della sua volontà. Altrove però Pascal sostiene che la corruzione della nostra natura sta nel fatto che “l’uomo non agisce con la ragione, che costituisce il suo essere” (Pensieri, 422), e che il ben pensare è il principio della morale. La ragione non è dunque considerata estranea alla morale, cosìcome non è considerata estranea alla fede. Ma allora il seguire la volontà di Dio non può essere un atto di sottomissione cieca; se la volontà di Dio, come tale, è la legge morale, ci sono tuttavia motivi per assumerla come legge, e queste sono il riconoscimento che la stessa ragione fa della sua propria impotenza e il riconoscimento che il finito non può realizzare la sua vocazione al ricongiungimento con l’infinito se l’infinito stesso non ne prende l’iniziativa. La conflittualità fra i due punti di vista, della ragione e della fede, non viene eliminata (ciascuno di essi di per sé tende ad escludere l’altro), ma viene giustificata la loro compresenza.
Un altro aspetto per cui si può riconoscere in Pascal una salvaguardia della libertà sta nel fatto che l’ordine morale è assimilato all’ordine della carità (Pensieri, 829), che viene caratterizzato dicendo che esso “consiste principalmente nella digressione, su ogni punto che abbia rapporto con il fine, verso quest’ultimo, per mostrarlo sempre” (Pensieri, 72). Ciò significa che l’etica non è un sistema di norme; non ci sono leggi (o una legge) generali da cui dedurre le leggi specifiche. Di volta in volta si tratta di realizzare la carità trovando nel caso particolare il modo particolare, ed anzi unico, di realizzarla (Agostino). Si tratta di un’etica non della ragione, ma del sentimento e dell’intuito, di un’etica del cuore, di un cuore – s’intende – purificato dalla grazia. Questo aspetto intuitivo e creativo dell’azione morale ha indubbiamente a che fare con la libertà.
Riassumiamo, conclusivamente, i risultati della nostra riflessione sulla morale pascaliana. Di fronte alle contraddizioni dell’esistenza la morale razionale si era infranta. Perciò aveva dovuto sottomettersi alla religione: oggetto dell’agire morale (Dio), legge (la volontà di Dio) e forza operante (la grazia) sono divenuti i medesimi dell’esperienza religiosa. “La vera natura dell’uomo, il suo vero bene, e la vera virtù, e la vera religione, sono cose la cui conoscenza è inseparabile”, Pensieri, 428). Ma la sottomissione alla fede – abbiamo visto – non annulla l’esperienza morale, non è un semplice riassorbimento della morale nella religione, perché la dimensione morale non è annullata, ma invece paradossalmente sintetizzata con la religione. Resta, come dicevo, la difficoltà di pensare la libertà come libertà di scelta.
Il ruolo della libertà nella conoscenza: la scommessa
1. La condizione dell’uomo e il sapere
Nell’ambito del sapere la condizione mediana dell’uomo gli consente di affermare l’infinito ma non di giungere a comprenderlo. Perciò Pascal afferma che non percepiamo i primi principi (ma ci dobbiamo arrestare a quelli che ci appaiono tali) né le verità ultime, allo stesso modo in cui i nostri sensi non percepiscono nulla di estremo (Pensieri, 84). E naturalmente nel sapere, come nell’essere, la condizione dell’uomo non solo è intermedia tra nulla e infinito, ma anche è squilibrata, come si manifesta nel fatto che gli uomini con «una presunzione sconfinata» hanno voluto «comprendere i principi delle cose, e di là giungere a comprendere il tutto», ciò che è per noi impossibile (ibi). Ma questa «presunzione» non è del tutto immotivata, perché anzi è inscritta nel naturale desiderio dell’uomo di cogliere l’infinito. Si spiega in questo modo la distinzione che nel saggio Sullo spirito geometrico Pascal introduce fra convinzione e certezza. Vi sono termini primi e principi che la scienza non può ulteriormente definire e spiegare e che ci appaiono certi, ma il doversi fermare ad essi è segno del fatto che «gli uomini sono in uno stato di impotenza naturale e immutabile a realizzare una qualsiasi scienza secondo un ordine del tutto perfetto» e devono accontentarsi di un ordine «meno convincente». Il che, indirettamente, rivela l’inevitabile insoddisfazione (come senso di impotenza e di insufficiente convinzione) di fronte ai limiti della scienza. Questa insoddisfazione, così come la presunzione – che Pascal ridicolizza – di volere trattare I principi delle cose o De omni scibili (Pensieri, 84), sono il segno di una tendenza, allo stesso tempo, naturale e vana; esprimono la nostalgia di un altro rapporto tra finito e infinito, in cui la differenza non sia inconcepibilità della relazione e frattura. Segno questo della corruzione della ragione prodotta dal peccato originale.
Questa corruzione ha intaccato non solo la volontà ma anche le facoltà conoscitive. Per questo la ragione (ma anche il cuore) è incapace di trovare una mediazione soddisfacente tra finito e infinito. Agli occhi della ragione finito e infinito si separano e si escludono reciprocamente: quando si guarda la finitezza, non si vede più l’infinità, e quando si guarda l’infinità, non si vede più la finitezza. È anche per questo che le filosofie si sono divise nelle due correnti opposte dello scetticismo e dello stoicismo.
2. Superiorità della scommessa su Dio
Ma il sapere umano può veramente uscire dalla contraddizione fra la dimensione della finitezza che esclude l’infinito e quella per cui invece è unita ad esso? A questo proposito Pascal segue un’istanza razionale: dalla contraddizione si deve uscire. E lo si può fare riconoscendo che, a causa del peccato originale, è diventato possibile sia affermare sia negare Dio, perché affermazione e negazione si riferiscono a due stati diversi, la natura originaria e salvata da un lato, e quella corrotta dall’altro. Proprio perché i due opposti si riferiscono a due stati diversi la contraddizione non c’è. Ma naturalmente questo richiamo all’evento del peccato originale non è un’ovvietà: richiede il salto della fede.
Ora questo salto non è cieco ma motivato, è dunque un salto che tiene insieme libertà (la libertà del salto) e ragione (la motivazione del salto). È ciò che avviene con il celebre argomento della scommessa, che ha come oggetto l’alternativa tra la fede e l’ateismo. Ma in che rapporto sta questa alternativa con quella fra stoicismo e scetticismo? Potremmo dire che scetticismo e stoicismo restano al di qua della scommessa, perché in realtà non decidono quell’alternativa di fondo. Essi escludono la contraddizione: lo scetticismo è un agnosticismo che non nega Dio ma neanche lo afferma; lo stoicismo è illusorio perché non prende veramente in considerazione le ragioni contrarie, non riconosce la negatività della condizione umana. Scetticismo e stoicismo non sono posizioni terze tra ateismo e fede o meglio lo sono solo a prezzo di nascondere la contraddizione della condizione umana. L’unica terza posizione tra fede e ateismo che Pascal riconosce è quella di chi ricerca gemendo (Pensieri, 333). Al di là di questo restano solo due posizioni coerenti: l’ateismo che esce effettivamente dalla contraddizione in quanto nega l’infinito, la fede cristiana, che esce dalla contraddizione in quanto distingue i due stati di peccato e grazia. L’ateismo sopprime radicalmente la contraddizione, mentre la fede la supera o almeno indica la possibilità di superarla.
Che la contraddizione non si possa eludere, che fra le due possibilità si debba scegliere appare a Pascal inevitabile, dalla contraddizione si deve uscire. Egli perciò biasima coloro che non scelgono, perché pensano di poter evitare la contraddizione o con la neutralità agnostica (gli scettici) o con l’illusione deistica (gli stoici), ma in realtà non la evitano, perché i primi non escludono del tutto Dio e i secondi non possono negare la negatività della condizione umana. La richiesta della scommessa (Pensieri, 451) è precisamente un dichiarare che non si può stare in quelle posizioni elusive, ma occorre riconoscere la contraddizione per poterla sciogliere: o Dio esiste, nonostante le condizioni che sembrano negarlo, o Dio non esiste, nonostante le condizioni che sembrano affermarlo. La richiesta della scommessa è uno smascheramento dell’illusione di una facile ed elusiva conciliazione. E questo perché – ripeto – non si può ignorare la contraddizione: non ci si può illudere, da un lato, di affermare una finitezza radicale e insieme non escludere Dio, e non si può, dall’altro, pensare a una semplice continuità tra finito e infinito e insieme non ignorare la distanza che li divide (e in fondo Pascal pensa che anche il razionalismo, come lo scetticismo, tende all’ateismo: pene infatti l’uomo al posto Dio). L’uscita dall’illusione richiede però una scommessa proprio perché non si dà una sintesi razionalmente praticabile. E allora bisogna decidere o per la possibilità di conciliare, nonostante tutto, Dio e il mondo o per l’impossibilità di tale conciliazione, bisogna dunque decidere per la fede o per l’ateismo.
Qui Pascal riconosce che c’è un elemento di costrizione: non siamo liberi di non scegliere. Ma per altro verso proprio la scommessa è eminentemente un atto di libertà. È una libertà finita, perché le condizioni della scelta sono date: l’alternativa le si impone. La scommessa può essere letta dunque come l’intervento della libertà nell’ordine del sapere. Un intervento non arbitrario. Pascal non è irrazionalista e perciò ritiene si debba superare la semplice contraddizione. E non solo questo, ma anche porta delle ragioni per giustificare la scelta della fede, al punto da farla sembrare un calcolo utilitaristico.
Ma ci sono anche altre ragioni, per me più convincenti, che evidenziano la superiorità della scelta per la fede: a) Ha una maggiore potenza esplicativa ed è più rigorosa, proprio perché non annulla la contraddizione, ma la risolve, sia pure in termini non razionali. Offre perciò una comprensione complessa e non riduttiva della condizione umana spingendola fino alla contraddizione, ma poi risolvendola. b) È più consapevole di essere una scelta. Anche oggi l’ateismo quando non si presenta nella forma dell’agnosticismo, si ammanta di scientificità, di pura razionalità; mentre la fede sa di essere un salto, non ingiustificato, non irrazionale, ma pur sempre un salto. Rispetto al razionalismo, all’agnosticismo e all’ateismo non è dogmatica, nel senso che non ritiene di essere l’unica conforme a ragione, perché riconosce la plausibilità della scelta contraria e riconosce perciò che gli argomenti a proprio favore non sono decisivi, perché potrebbe comunque dimostrarsi una scelta sbagliata. Comprendendo la fede come grazia riconosce ancor di più che non vi sono argomenti decisivi a suo favore. La fede è un salto del cui valore ci si può convincere pienamente solo compiendolo. Le ragioni della scelta sono anche di ordine morale e la resistenza alla scelta di fede lo dimostra (ibi). Questa è un’altra ragione per cui si deve riconoscere che la dimensione morale e quindi la libertà è direttamente implicata nella conoscenza.
Quel che Pascal ci vuol dire è che nella definizione degli orientamenti di fondo, nelle questioni di senso la libertà è decisiva. Dell’originario non c’è dimostrazione. Che il mondo abbia un senso non è dimostrabile. Giunti alla questione ultima occorre un salto che orienta la ragione, di per sé incapace di scegliere. Pascal mostra che la radice della filosofia, come di ogni visione del mondo, è la libertà, il che non significa un semplice salto nel buio, perché la ragione può comprendere la necessità del salto e può vagliarne le conseguenze e controllarne i risultati.
NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta il 10 aprile 2015 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.