1.Filosofo cristiano-luterano, Søren Aabye Kierkegaard (5.5.1813 – 11.11.1855) trascorse la sua vita a Copenhagen, sua città natale. Ultimo di sette fratelli (cinque dei quali morti precocemente), ricevette dal padre (un custode di pecore dello Jutland, che era riuscito ad arricchirsi come commerciante di tessuti) una rigida educazione pietista, improntata al senso del peccato, che lo rese un uomo dal temperamento riflessivo e malinconico. É vero che da giovane condusse una vita libertina e scapestrata. Tuttavia, a partire dagli anni 1836-1838, aderì decisamente al cristianesimo. Dopo aver studiato senza troppa convinzione filosofia e teologia per dieci anni (1830-1840), nel 1841 si laureò in teologia con un lavoro su Il concetto di ironia in costante riferimento a Socrate, per tener fede a una promessa fatta al padre morto nel 1838. Visse nel periodo dei grandi movimenti di rivolta nazionali, che tuttavia giudicò sempre negativamente, in quanto, a suo parere, ciò di cui c’era bisogno era una rivoluzione dei cuori e non dei rapporti sociali.
Kierkegaard era solito firmare con pseudonimi le opere in cui presentava modi di vivere (come la vita estetica e la vita etica) in cui non si riconosceva, mentre firmava col suo nome quelle opere che facevano riferimento al modo di vivere religioso (quello in cui egli si riconosceva). Tra le opere pseudonime di Kierkegaard ricordiamo: Aut-aut. Un frammento di vita, 1843; Timore e tremore, 1843; La ripresa, 1843; Briciole di filosofia, 1844; Il concetto dell’angoscia, 1844; Stadi sul cammino della vita, 1845; Poscritto conclusivo non scientifico, 1846; La malattia per la morte, 1849; Pratica di cristianesimo, 1850. Tra le opere firmate col suo nome, invece, ricordiamo i numerosi Discorsi edificanti e i Discorsi cristiani (1848). Ogni pseudonimo aveva un preciso significato: Il concetto dell’angoscia, per esempio, è firmato da un certo Vigilius Haufniensis = la sentinella di Copenhagen, in quanto Vigilius è colui che vigila, sorveglia, fa la guardia, mentre Haufniensis è l’aggettivo di Hafni, nome latino di Copenhagen. Inoltre Kierkegaard faceva in modo che a presentare le forme di vita in cui non si riconosceva (vita estetica e vita etica) fossero personaggi fittizi da lui creati (ad. es.: il seduttore Johannes e il magistrato Guglielmo). In realtà Kierkegaard, descrivendo la visione del mondo e la psicologia dei personaggi delle sue opere pseudonime, presentava aspetti o lati della sua complessa e multiforme personalità, secondo un metodo proprio di molti scrittori e romanzieri. Kierkegaard, cioè, riusciva a immedesimarsi nei personaggi delle sue opere pseudonime, perché ne condivideva la psicologia e le esperienze. Dopo essere stato da giovane un libertino (vita estetica), ad un certo punto si fidanzò con Regine Olsen, ma, dopo un anno, decise di troncare il rapporto e di non sposarsi più (vita etica), per dedicarsi a «reintrodurre il cristianesimo» in una cristianità ormai ritornata pagana (vita religiosa).
Considerato il progenitore o l’antenato della filosofia dell’esistenza novecentesca, che è, almeno in parte, il risultato di una Kierkegaard-Renaissance (cioè di una riscoperta del pensiero kierkegaardiano), Kierkegaard ha influenzato fortemente anche la cosiddetta “teologia dialettica” (Karl Barth), nonché la letteratura europea del Novecento (Heinrich Ibsen, Reiner Maria Rilke, Franz Kafka, Thomas Mann).
2. La libertà è per Kierkegaard «infinita possibilità di potere», ovvero possibilità di scegliere tra molteplici (se non addirittura infinite) possibilità. La libertà è scelta. L’individuo è tuttavia chiamato a scegliere, nel corso della sua vita, non solo tra molteplici possibilità, ma soprattutto tra molteplici «stadi sul cammino della vita», ovvero tra molteplici «forme di esistenza», che tipologicamente si possono ridurre a tre (sebbene poi ognuna di esse presenti ulteriori articolazioni al suo interno): la vita estetica, la vita etica, la vita religiosa.
Non a caso la filosofia viene intesa da Kierkegaard non come conoscenza oggettiva, come «teoria» (dal greco theoreĩn = osservare) o «speculazione», rispecchiamento (da speculum = specchio) alla Hegel, ma come riflessione esistenziale, come edificazione, come meditazione su «come vivere», su come «edificare, costruire» la propria vita. Essa deve cioè aiutare il singolo individuo a costruire saggiamente la sua vita. Il vero filosofo non è un pensatore oggettivo, disinteressato (come il medico specialista, che tratta il paziente come un mero caso clinico), bensì è un pensatore soggettivo, interessato (come il medico di famiglia, che si occupa o, meglio, si «preoccupa» di chi ha di fronte, del bene del paziente in quanto persona).
Ora, la vita estetica, incarnata per antonomasia dal seduttore, ruota attorno alla ricerca del piacere momentaneo, del godimento. Dal momento però che il godimento è questione di un attimo fuggevole e irripetibile, tale modus vivendi è fatto di tanti momenti tra di loro separati e manca di continuità. Nella vita estetica, inoltre, il seduttore sceglie di non scegliere, ovvero sceglie di non impegnarsi con alcuna donna in particolare, perché solo così può lasciarsi aperte tutte le altre possibilità di conquista. Rifiutandosi di scegliere una donna determinata, il seduttore rifiuta però altresì di calarsi dentro la realtà, finendo per aleggiare su di essa come un fantasma. Questa impostazione di vita si ripresenta anche in ambito lavorativo. Infatti l’uomo estetico è anche colui che rifiuta di scegliere un lavoro preciso, in quanto non riesce a impegnarsi in niente. Insomma: per Kierkegaard l’uomo estetico, che non sceglie né una donna né un lavoro preciso, manca di serietà, non conosce l’impegno, non ha la capacità e la volontà di fare una scelta precisa e responsabile.
Incarnazione della vita etica, caratterizzata da serietà e impegno, è invece il buon padre di famiglia, che ha sposato la donna amata e ha scelto un lavoro stabile. Egli è un individuo che non rifiuta di calarsi coraggiosamente nella realtà, prendendo delle decisioni concrete. La «scelta» è infatti ciò che dà continuità alla sua esistenza, raccordando tra loro i momenti di piacere e di godimento che conservano la loro legittimità nella vita matrimoniale. Per Kierkegaard l’uomo etico fa una scelta interiore seria e responsabile, ma si adegua al contempo alle norme e alle regole vigenti nella società (matrimonio e lavoro). Non a caso il termine «etica» in Kierkegaard include sia la dimensione interiore della morale kantiana (un azione è moralmente buona, quando è buona l’intenzione con cui la si compie), sia la dimensione sociale dell’eticità hegeliana (= insieme di norme, tradizioni, abitudini, vigenti di una determinata società).
Emblemi classici della vita religiosa sono invece due personaggi biblici che, in nome della fede in Dio, sono entrati in conflitto con il mondo circostante: Abramo e Gesù. In nome di una verità più alta, Abramo ha avuto il coraggio di sospendere l’etica e di confliggere con le regole della sua comunità, accettando di sacrificare il proprio figlio Isacco. Lo stesso vale per Gesù Cristo, che è stato condannato alla morte di croce per essersi opposto ai valori etici dominanti nell’ebraismo del suo tempo. Per Kierkegaard vivere religiosamente significa, infatti, vivere nella sequela di Cristo ed entrare in conflitto con il mondo, rompendo con le regole della comunità. Questo è il nucleo della vita religiosa. Tuttavia, proprio perché si oppone, rispondendo all’appello di Dio, ad ogni tipo di conciliazione col mondo, l’uomo religioso è destinato a vivere una vita segnata dalla solitudine (essere abbandonato da tutti) e dalla sofferenza (dover portare la croce).
3. La libertà, come infinita possibilità di potere tra molteplici forme di esistenza, si realizza quindi in ultima analisi nello scegliere che cosa fare di se stessi. L’uomo è chiamato a scegliersi, a dare cioè un’impronta e una direzione precisa alla sua esistenza, non solo perché è quello che è in base appunto alle sue scelte e alle sue decisioni, ma soprattutto perché per Kierkegaard, che è un filosofo cristiano, dalle sue scelte dipende il suo destino eterno. Il singolo non ha un’essenza predefinita, predeterminata o precostituita, ma è ciò che decide di essere, è ciò che si fa in base alle sue scelte e alle sue decisioni (concezione non-sostanzialistica del singolo). A differenza delle cose che sono soltanto ciò che sono e non possono essere diversamente (cioè non possono mutare), l’uomo è una realtà non-definita, non-determinata, che ha da scegliere tra infinite possibilità. Come diranno Heidegger e Sartre, se nelle cose l’essenza precede l’esistenza, nell’uomo l’esistenza precede l’essenza.
Il singolo è infatti «se stesso e il genere». L’uomo si distingue essenzialmente dall’animale per il fatto che non è un semplice «esemplare» di una «specie», ma è un «individuo» che ha un rapporto dialettico con il suo «genere». Quel che caratterizza l’esemplare di una specie animale è il fatto che esso è (e fa) senz’altro ciò che deve essere (e fare) secondo la determinazione della specie. Le sue azioni non sono il risultato di un soppesamento di possibilità diverse e di una scelta tra di esse; anzi, l’esemplare si comporta nel modo tipico della specie, che impronta istintivamente il suo agire: in esso tutto è universalità. Nell’uomo, invece, l’istinto viene vinto dalla libertà: ogni individuo ha la possibilità di reagire in modo non puramente istintuale agli impulsi che gli provengono dall’interno e dall’esterno e quindi di strutturare la sua vita in un modo differente. Certo: l’individuo infatti è anche genere. La vita individuale non si esaurisce però nella partecipazione all’universalmente-umano, ma si costituisce soltanto nella decisione cosciente rispetto all’universale: con ogni singola scelta l’individuo individualizza l’ineludibile rapporto con l’universale. Quindi, se l’animale in quanto esemplare sta in una connessione salda e immutabile con la sua specie, l’uomo, sebbene non possa uscire dalla relazione col genere umano, si può scegliere e quindi si rapporta coscientemente e liberamente all’universale.
Il singolo però è anche «una sintesi» di anima e di corpo, di eternità e temporalità, come si afferma ne Il concetto dell’angoscia, ovvero di finito e infinito, di necessità e possibilità, come si afferma ne La malattia per la morte, mentre lo spirito (l’Io, il Sé) è il terzo elemento sintetizzante, quello che è chiamato a porre la sintesi tra corpo e anima, tra temporalità e eternità, scegliendo se fondarsi sul finito o sull’Infinito, come si afferma ne Il concetto dell’angoscia, ovvero a porre in relazione finito e infinito, possibilità e necessità, fondandosi su Dio (sulla “potenza che l’ha posto”), come si afferma ne La malattia per la morte.
Infatti «una sintesi non è pensabile se i due elementi non si uniscono in un terzo. Questo terzo è lo spirito […] Lo spirito dunque è presente, ma come immediato, come sognante. Ora, in quanto è presente, esso è, in un certo senso, una potenza ostile, perché disturba continuamente il rapporto tra l’anima e il corpo: rapporto che sì esiste, ma anche non esiste, in quanto ottiene l’esistenza soltanto dallo spirito. D’altra parte esso è una potenza amica appunto perché vuole fondare il rapporto».
Secondo Kierkegaard, insomma, il singolo individuo è chiamato a mettere in relazione (sintetizzare) elementi polari che lo caratterizzano strutturalmente, ma che altrettanto strutturalmente confliggono tra loro e tale sintesi, tale scelta racchiude in sé la possibilità del successo, ma al contempo dello scacco, della realizzazione ma al contempo della sconfitta.
4. Kierkegaard pensa però la libertà non astrattamente, ma nel suo farsi concreto. Per questo è estremamente critico nei confronti dell’idea di libertà come liberum arbitrium indifferentiae, cioè di quell’idea di libertà per cui l’uomo, al momento di scegliere, starebbe almeno per un momento in una posizione neutrale rispetto al bene e al male e, se non avesse il libero arbitrio, finirebbe come l’asino di Buridano che, non avendo il libero arbitrio, messo di fronte a due identici mucchi di fieno posti alla stessa distanza, restò incerto su quale scegliere e morì di fame. L’idea di un liberum arbitrium indifferentiae è per Kierkegaard una mostruosità concettuale, che non coglie la vera e autentica natura della libertà. Concretamente, infatti, una libertà come indifferenza non esiste.
In primo luogo la libertà non precede la risolutezza, ma si realizza in essa, non è mai soltanto «possibile», bensì vive unicamente nell’atto vitale concreto: «appena è, è reale». La scelta è quindi essenziale alla libertà: dove non c’è scelta, la libertà è un’illusione; dove dominano irresolutezza e arbitrarietà, la libertà è un’astrazione e una finzione.
In secondo luogo la libertà non è una facoltà soltanto formale che consenta all’individuo di scegliere indifferentemente e arbitrariamente questo o quello, ma è una facoltà esistentivamente mossa, in quanto grazie ad essa l’individuo può guadagnare e realizzare se stesso. Quindi per Kierkegaard si ha autentica libertà solo laddove l’individuo sceglie la propria realizzazione (e non il proprio fallimento), ciò che è necessario (e non qualcosa di arbitrario), il bene (e non il male), l’Infinito (e non il finito), l’eternità (e non la temporalità), ovvero laddove cerca anzitutto il regno di Dio (e non il regno di Dio tra le altre cose). Solo la libertà che si decide appassionatamente per il bene, solo la libertà che, superando l’indecisione e la paura, si risolve per Dio e si abbandona a Lui, si realizza conformemente alla sua essenza e alla sua destinazione.
Prima di scegliere tra molteplici possibilità, prima di scegliere tra molteplici forme di esistenza, prima di scegliere se stesso, prima di risolvere in qualche modo la tensione che lo caratterizza, l’individuo vive però in una condizione d’ingenua conciliazione, che Kierkegaard definisce, riferendosi al mito biblico, di «innocenza» (dato che l’uomo non ha ancora fatto il salto nel peccato) o di «ignoranza» (dato che non è ancora cosciente della distinzione tra bene e male). In questo stato di pace e di quiete (in questo status integritatis) in cui l’uomo non è ancora determinato come spirito, in cui cioè il suo spirito è sì presente, ma ancora come «sognante», egli non avverte ancora distintamente la tensione tra gli elementi polari che lo caratterizzano, ma la presagisce soltanto. Egli presagisce cioè soltanto che dovrà porre in relazione gli elementi contraddittori che in lui sono ancora in indistinta unità, che dovrà porre la sintesi, che dovrà scegliersi e scegliere fra infinite e molteplici possibilità, ovvero che egli è nulla. E in tale momento è preso dalla vertigine dell’angoscia:
«L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito, ma è determinato psichicamente nell’unione immediata colla sua naturalità. Lo spirito nell’uomo è come sognante […] In questo stato c’è pace e quiete: ma c’è, nello stesso tempo, qualcosa d’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora, che cos’è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia. Sognando, lo spirito proietta la sua propria realtà; ma questa realtà è il nulla. L’innocenza vede però continuamente questo nulla al di fuori di sé»
A produrre l’angoscia in quanto «vertigine della libertà» è quindi il nulla, che l’Io scorge guardando dentro se stesso, nell’abisso delle sue infinite possibilità, al momento di dover porre la sintesi, quando lo spirito si risveglia dal suo sonno. L’angoscia ha quindi la sua genesi nel fatto che l’individuo si fa con le sue scelte e le sue decisione e quindi, prima della scelta, non è ancora ciò che sarà, è ancora «nulla». Nel momento della decisione e della scelta, nel momento di tentare di darsi una figura, un’identità, di diventare se stesso, l’Io viene preso dalla vertigine dell’angoscia perché si ritrova di fronte alla «possibilità angosciante di potere», al fatto di doversi scegliere tra molteplici e infinite possibilità, di dover mettere in relazione corpo e anima, temporale ed eterno.
L’angoscia è quindi l’espressione psicologica del momento del risvegliarsi dello spirito, ma è anche l’espressione psicologica del presagimento che il compito posto a ogni uomo (di determinarsi in piena libertà) è segnato dalla possibilità dello scacco e del naufragio. Quando getta uno sguardo dentro di sé, dentro l’abisso di infinite possibilità che lo caratterizza, dentro il nulla che egli è nel profondo, l’uomo scorge infatti in modo ancora indistinto la possibilità della riuscita, ma al contempo dello scacco, della realizzazione, ma al contempo del naufragio, o, nei termini del mito biblico, del diventare sicut deus o della morte.
Lo spirito che deve porre la sintesi, proprio perché preso dalla vertigine dell’angoscia alla vista delle sue infinite possibilità, ovvero alla possibilità del suo realizzarsi concretamente e realmente, ne resta tuttavia paradossalmente sopraffatto e, come ridotto all’impotenza, sprofonda nel peccato, in quanto finisce per afferrare il finito, il temporale (invece che l’Infinito, l’Eterno) e aggrapparsi ad esso. Aggrappandosi al finito piuttosto che all’Infinito, l’uomo però cade nell’illibertà, in quanto la libertà è scegliere l’Infinito, mentre l’illibertà (il peccato) è fondarsi sul finito. Insomma, paradossalmente nell’angoscia l’uomo avverte la sua libertà, ma sprofonda nell’illibertà e nel peccato (che è, come dicevano i medievali, aversio a deo et conversio ad creaturam), ovvero, di fronte alla libertà come infinita possibilità di potere, l’uomo è preso, sopraffatto e reso impotente dall’angoscia e, nel momento della scelta, nel momento di porre la sintesi, si risveglia colpevole.
Nell’antinomicità dell’angoscia si riflette quindi l’antinomicità della libertà concretamente pensata. Infatti se l’angoscia, come libertà imbrigliata, induce l’uomo a fondarsi sul finito (invece che sull’Infinito), ed è quindi la condizione di possibilità del peccato, si può dire che l’uomo nell’angoscia sperimenta la sua illibertà. Al contempo però, se l’angoscia, svelando all’uomo le sue infinite possibilità, lo rimanda alla sua libertà, si può dire che l’angoscia è l’indizio psicologico della possibilità della libertà, è il “mostrarsi della libertà nella possibilità”. L’angoscia rende trasparente per l’uomo la possibilità della sua libertà, ma gli fa scoprire, dopo la possibilità della libertà, anche la realtà della libertà nella colpa. Viceversa: la libertà è sì qualcosa che può essere incatenato dall’angoscia, ma, ciononostante, sta ineluttabilmente come compito e pretesa di fronte all’uomo, che deve realizzarla appassionatamente e seriamente. L’angoscia è quindi segno di una libertà realmente esistente, anche se in se stessa già sempre «imbrigliata». Non a caso la libertà viene esperita solo quando ci esperiamo come non-liberi, solo quando ci scontriamo con i suoi limiti. Tra il momento in cui lo spirito (ancora sognante) avverte la libertà di potere e viene preso dall’angoscia e il momento del suo risveglio (il momento della scelta effettuata, della libertà realizzata), sta infatti l’enigmaticità e misteriosità del salto: «Nello stesso momento tutto è cambiato e, mentre la libertà si risolleva, essa vede che è colpevole. Tra questi due momenti si trova il salto che nessuna scienza ha spiegato né può spiegare».
Ora, in questa caratterizzazione kierkegaardiana della libertà, risuona un celebre passo della Lettera ai Romani, in cui Paolo tematizza una libertà che è a tal punto in sé vincolata da fare ciò che propriamente non vorrebbe fare e in cui l’Io (il soma) appare talmente scisso tra esistenza secondo la carne (sarx) ed esistenza secondo lo spirito (nous) da non essere in grado di venire in chiaro di se stesso – una condizione che può tanto dar motivo di disperazione quanto aprire alla speranza della redenzione: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Sono uno sventurato!” (Rm 7, 14-25).
5. Secondo Kierkegaard, ogniqualvolta l’individuo deve compiere una scelta tra diverse possibilità, viene preso dall’angoscia. Questo stato d’animo, che accompagna sempre ogni scelta, è quindi il sintomo della libertà dell’uomo. L’uomo prova angoscia perché è libero. L’angoscia però è altra cosa dalla paura (o timore). La paura è quel sentimento che proviamo di fronte a un pericolo concreto e determinato (un terremoto, un assassino). Stato affettivo fondamentale, che permette a tutte le specie viventi di sopravvivere, esso è comune agli uomini e agli animali e suscita fondamentalmente due reazioni: la fuga o il contrattacco. L’angoscia è invece quel sentimento che proviamo di fronte a un pericolo indeterminato e indefinito. Ad esempio, nel momento di scegliere tra più possibilità, non sappiamo ancora se la nostra scelta avrà successo o se sarà un fallimento e, per questo, veniamo presi dall’angoscia. Abbiamo paura di qualcosa che non c’è ancora («angoscia del niente»), ma che ci sarà appena avremo compiuto la scelta. L’angoscia è quindi un sentimento che provano solo gli uomini, che sono liberi e hanno la capacità di ricordare il passato e progettare il futuro, mentre gli animali provano soltanto paura, perché sono mossi dagli istinti e quindi non hanno il problema di scegliere, ma solo di reagire ai pericoli. Insomma: l’angoscia accompagna sempre il momento della scelta, della decisione.
Ma perché Kierkegaard ricorre alla determinazione intermedia dell’angoscia per spiegare la genesi del peccato?
In primo luogo, perché vuole cercare di spiegare l’intima dialettica di libertà e peccato in maniera più adeguata di quanto faccia la tradizionale teoria della concupiscenza, che non riesce a rendere conto a sufficienza del carattere specificamente umano del peccato, in quanto fa riferimento ad una dimensione (la concupiscenza, appunto) che è comune all’uomo e all’animale, laddove invece l’angoscia con la sua insuperabile ambiguità è una dimensione specificamente umana.
Soprattutto, però, la teoria della concupiscenza non tematizza a sufficienza l’intima scissione presente nell’uomo al momento della scelta e della caduta nel peccato – scissione rappresentata miticamente in Genesi 3 dalla scena del dialogo di Adamo con il serpente, liberamente reinterpretata da Kierkegaard come monologo di Adamo con se stesso. Tale teoria è sottesa infatti da un’idea sostanzialistica dell’Io come identico a sé, come strutturalmente mosso dalla epithymia, dalla concupiscientia, dall’amor sui, che confligge con quella non-sostanzialistica kierkegaardiana, secondo cui l’Io non ha una «natura» (e tanto meno una natura «peccaminosa», concupiscente), bensì è chiamato a porre personalmente la sintesi tra gli elementi antinomici e contraddittori che lo compongono e, in questo, può sia riuscire che fallire.
Certo: la libertà si realizza sempre e soltanto nello spazio di situazioni concrete e finite ed è, quindi, condizionata da fattori naturali, nonché dalla storia personale e collettiva del singolo. Questo può dare l’impressione che le scelte degli individui siano determinate causalmente da fattori antecedenti e che quindi il salto sia “un semplice passaggio” logicamente (razionalmente) ricostruibile. Kierkegaard tuttavia attribuisce a questi fattori solo una funzione «pre-disponente», in quanto determinante resta per lui il momento della scelta e della decisione, che è un atto di libertà e che resta sotteso nascostamente ad ogni azione.
A questo proposito egli usa la coppia di concetti «qualità/quantità» (nonché quella di «interiore/ esteriore»), per distinguere l’atto di libertà (e quindi il salto nel peccato) – che non è accessibile all’osservazione empirica e quindi è una determinazione «qualitativa» –, dai fattori naturali, storici e sociali (condizionanti tale atto e predisponenti al peccato), che sono accessibili all’osservazione empirica e, quindi, sono determinazioni soltanto «quantitative». Nessuna determinazione quantitativa (più o meno angoscia, più o meno peccato) può però produrre una nuova qualità, può essere cioè all’origine del peccato, dato che questo nasce esclusivamente tramite il salto qualitativo dell’individuo, tramite la decisione della libertà che è qualcosa d’interiore. È vero: l’angoscia è qualcosa che non solo rende possibile il peccato, ma fa propendere ad esso, in quanto, come pre-disposizione, condiziona la volontà umana. Questa pre-disposizione, insita nell’uomo, non va però compresa in modo biologico-genetico, come se liquidasse la libertà del singolo, determinandolo completamente, ma è, anzi, un momento costitutivo della libertà stessa. È quindi sbagliato, secondo Kierkegaard, parlare di un peccato ereditario, in quanto ammettere la strutturale peccaminosità della natura umana vorrebbe dire mettere in questione la libertà e responsabilità dell’uomo, e cioè il fatto che l’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio. La peccaminosità non s’identifica mai con la finitudine umana. Il peccato è sempre il risultato di un libero rapporto del singolo con sé, in quanto, in caso contrario, verrebbero meno l’imputabilità dell’individuo e la bontà della creazione. Il peccato è unicamente presupposto di se stesso
Tuttavia, se si comprende il peccato come il risultato di un determinato modo di realizzarsi della libertà, si tratta di vedere come rapportare questo fatto alla restante storia della realizzazione della libertà. In questo senso è indubbio che tramite il primo peccato (quello di Adamo) sia entrata nel mondo la peccaminosità e che questa peccaminosità abbia condizionato tanto la storia personale di Adamo quanto la storia successiva del mondo, così come il primo peccato di ogni singolo uomo venuto dopo Adamo condiziona la storia personale di costui e la storia del genere umano dopo di lui. La peccaminosità quindi entra nel mondo tramite il primo peccato di ogni uomo, perché il peccato presuppone se stesso, ma, una volta entrata nella vita del singolo e del mondo, influisce pesantemente sulla storia successiva dei singoli e del mondo. L’individuo, anche se dà inizio personalmente alla sua storia di peccato tramite la sua scelta, comincia la sua storia all’interno di una storia che lo condiziona pesantemente. Il suo peccato è il “peccato d’origine” che fa entrare la peccaminosità nella sua vita e nella storia del mondo, ma la storia del mondo, che è storia di peccato, grava come un’ipoteca o un’eredità sulle spalle degli individui delle generazioni seguenti. È questo per Kierkegaard il vero e proprio “peccato ereditario/originale”. La massa di peccato, che si è accumulata – andando progressivamente crescendo – lungo la storia, rappresenta insomma una sorta di presupposto che adombra, impronta l’agire individuale, anche se non lo determina in maniera radicale e definitiva. L’individuo cioè non riparte mai da zero, in quanto appartiene ad una storia del genere che, anche se non lo determina, influisce sulle sue scelte.
Ora, sottolineando l’importanza della dimensione storico-sociale nelle scelte dell’individuo – che è al contempo “se stesso e il genere”, cioè individuo ed essere generico (o storico-sociale) –, Kierkegaard supera la concezione sociniano-illuministica del singolo che deve rispondere solo di se stesso e ridà spazio in certo qual modo all’idea del peccato originale/ereditario – da lui reinterpretato però come una sorta di condizionamento –, senza però negare l’idea moderna della responsabilità del soggetto. Egli infatti vuole prendere le distanze dal possibile equivoco che riconduce il peccato esclusivamente al singolo atto di libertà dell’individuo. Se la libertà non viene mai meno, essa appare però condizionata dalla storia precedente, che è essenzialmente una storia di prosecuzione del peccato. La libertà ha una costituzione storica: non comincia mai soltanto da se stessa e non ricomincia mai del tutto da capo, ma si colloca in un contesto storico che influisce su di essa. L’Io come essere totalmente autonomo e libero è una finzione e un’astrazione, dato che la libertà ha già sempre a che fare con delle strutture di illibertà e di peccato esistenti e insuperabili. Se il peccato non è un’eredità nel senso di un segno indelebile, di una malattia ereditaria, la storia della libertà è però una storia di peccato e quindi condiziona l’agire di chi viene dopo. Una volontà assolutamente libera non esiste: è una finzione, una chimera. Se è vero che il genere ricomincia sempre da capo con ogni individuo, perché ogni individuo pone da capo il peccato col suo primo peccato, il peccato non è riconducibile solo alla libera azione del singolo solipsisticamente pensato. La peccaminosità (come condizione) è il retaggio della storia del genere umano e influisce sull’agire del singolo individuo come un sorta di pre-disposizione (maggiore o minore) al peccato.
Questa pre-disposizione (più o meno forte a seconda dell’individuo e dell’epoca) è tuttavia una determinazione puramente «quantitativa», che non elimina la possibilità reale del salto qualitativo nel peccato: la storia dell’uomo è infatti pur sempre storia della libertà. Ne consegue che la libertà ha un suo ruolo nell’atto del peccato anche laddove l’orizzonte del suo accadere non appare più neutrale. Per Kierkegaard – fedele in questo all’idea moderna della responsabilità dell’individuo – il peccato nasce sempre dal peccato, cioè dal salto, è cioè sempre risultato di una scelta individuale.
Egli intende infatti contrastare la pericolosa tendenza “estetica” a parlare genericamente del peccato (ovvero a “rattristarsi” di esso come di un destino che assale ineluttabilmente l’uomo), sorvolando sull’effettiva colpa dell’uomo. Il peccato dell’uomo è anzitutto e soprattutto colpa dell’uomo. Se è vero che il genere non rincomincia del tutto da capo con ogni singolo individuo, ma ogni individuo s’inserisce in una storia di peccato già iniziata, vero è però anche che ogni singolo individuo, pur collocato in una storia che è storia di peccato, ricomincia tuttavia sempre da capo con il genere (con la storia umana come storia di peccato), ovvero si rapporta coscientemente ad essa, scegliendosi e perdendosi (cioè peccando) in prima persona. Per questo, secondo Kierkegaard, il nostro primo peccato è il “peccato d’origine”. Il peccato è sì anche segno di strutture di peccato, è anche il frutto di una storia di prosecuzione e propagazione del peccato, ma questa non è la sua essenza originaria. La peccaminosità (il peccato come condizione) acquista rilevanza solo in virtù dell’appropriazione del peccato da parte del singolo, che ne costituisce il proseguimento. La tendenza a voler riportare il peccato alle strutture sociali, invece che a se stessi, è la forma sublimata della tendenza a vedere la colpa sempre e solo presso gli altri.
6. Insomma: con la sua originale interpretazione di Genesi 3, Kierkegaard ha voluto, da un lato, superare una concezione astratta della libertà (liberum arbitrium indifferentiae) sottolineando non solo il suo carattere vincolato (al momento della scelta), ma anche i suoi condizionamenti storici, biografici e biologici. Al contempo, però, egli ha voluto criticare una concezione ereditaria (di matrice agostiniana) del peccato, sottolineando l’importanza del salto qualitativo, al di là di (e nonostante) ogni vincolo o condizionamento. Il peccato non può essere spiegato logicamente, casualmente: il peccato non è un passaggio, ma un salto. Tramite la determinazione intermedia dell’angoscia, Kierkegaard ha tuttavia cercato anche di trovare un accesso all’idea di peccato d’origine, di caduta nel peccato. Come stato d’animo fondamentale dell’esistenza umana, l’angoscia è il mostrarsi della libertà nella possibilità. La libertà, guardando nell’abisso delle infinite possibilità che le si aprono davanti, al momento del salto è però presa dall’angoscia e si ritrova vincolata (finendo o per scegliere di non scegliere o per scegliere il finito invece dell’Infinito), perché anticipa sì la futura realtà della libertà, ma al contempo presagisce il possibile scacco e, quindi, la possibile perdita di sé. L’angoscia appare quindi come un fenomeno che rende non-libero l’uomo, anche se lo rimanda e contrario alla sua libertà. Per questo l’angoscia è uno stato d’animo ambiguo: essa è segno di reale libertà, ma al contempo di una libertà in se stessa vincolata, che finisce per perdere se stessa. Il concetto dell’angoscia è quindi una fenomenologia della illibertà, che include però una nostalgia per la possibile (anche se sempre mancata) realizzazione della libertà.
Ora, questa condizione originaria e strutturale della libertà è uguale in tutti gli uomini. Non c’è differenza qualitativa tra Adamo e quelli che sono venuti dopo di lui, perché non esiste una differenza tra una condizione prelapsarica (status integrationis) e una condizione postlapsarica (status corruptionis). Il primo peccato di Adamo sta sullo stesso piano del primo peccato di ogni altro uomo, per cui Adamo non può essere estrapolato dalla storia. Egli ha perso la condizione prelapsarica di innocenza in virtù del concreto salto nel peccato allo stesso modo in cui l’hanno persa tutti gli altri uomini dopo di lui. Adamo anticipa solo idealmente il destino dell’intero genere umano, ovvero è solo il prototipo dell’uomo peccatore, che pone il peccato per sé e al contempo per l’umanità. In questo modo, però, il peccato diventa per ogni generazione a venire l’orizzonte irreversibile e ineludibile dell’agire. Inoltre, dato che l’angoscia non è soltanto lo stato d’animo che inquieta prima del salto, ma è anche il frutto di ogni nuovo peccato commesso, dai tempi di Adamo si registra una crescita quantitativa di angoscia, che pesa sulle generazioni successive come una sorta di eredità. Non a caso, se l’angoscia prima della caduta era ancora senza oggetto, era ancora angoscia del nulla, dopo la caduta perde la sua ambiguità e diventa sempre più angoscia di qualcosa. Tuttavia la storia di peccato di ogni singolo individuo non è tanto il prodotto non voluto dell’influsso delle colpe storicamente ereditate, ma è solo ed esclusivamente il risultato del suo proprio peccato, poiché solo la sua propria caduta ha dato inizio alla sua carriera di peccatore. Il più d’angoscia ereditato può facilitare il salto nel peccato, ma non può determinarlo. Il peccato è una condizione di colpevolezza, risultato di un salto inspiegabile, non determinato da nulla, ma frutto della scelta di una libertà imbrigliata dall’angoscia; il peccato è il presupposto di se stesso. Questo resta, secondo Kierkegaard, il significato filosofico fondamentale di Genesi 3.
7. Kierkegaard guarda quindi anzitutto all’angoscia del nulla, dell’indeterminatezza, della libertà, che prende e assale l’individuo nel momento della decisione (del salto qualitativo), quando egli sta per scegliere tra una molteplicità innumerevole di possibilità e, quindi, per fissarsi, per darsi una figura e un’identità precisa e concreta, decidendo cosa fare di se stesso (dato che egli non è ancora quello che sarà una volta fatta la scelta), col rischio di realizzarsi ma anche di andare incontro ad uno scacco, di riuscire ma anche di fallire ‑ quando, cioè, egli sta per abbandonare la condizione edenico-infantile di innocenza e ignoranza (in cui il suo spirito è ancora sognante, è ancora virtualmente tutto), per lacerare l’originaria e aproblematica unità psico-fisica tra corpo ed anima, per porre la sintesi tra gli elementi contraddittori che lo costituiscono e, così, per scegliere se stesso, diventando spirito, singolo, Io. All’angoscia della libertà, che dà luogo – senza per altro produrla causalmente ‑ alla colpa originaria, succedono tuttavia altre forme d’angoscia, in quanto l’angoscia non viene meno con la prima scelta – dato che non viene meno la possibilità ‑, bensì si ripresenta – dato che si ripresenta la necessità di scegliere ‑: una scelta non è infatti mai definitiva, ma ad ogni nuova occasione può essere rimessa in discussione. Nella condizione post-edenica muta, però, il carattere dell’angoscia: adesso la libertà (qualitativa) di scelta (che pure resta sempre salva per Kierkegaard) appare fortemente (quantitativamente) condizionata dalla storia (individuale, ambientale, sociale) di colpa che pesa sulle spalle dell’individuo, rendendo la sua angoscia più riflessa, più lucida, più qualificata, più tormentosa.
L’individuo avverte adesso un’angoscia della sessualità, che deriva dalla presa di coscienza del conflitto tra spirito e corpo. Se nello stato originario di innocenza, di armonia psicofisica edenico-infantile (nello status integritatis segnato dall’ignoranza della differenza tra bene e male) lo spirito ancora sognante provava angoscia della sua libertà, della sua indeterminatezza, del suo nulla, ora lo spirito prova angoscia del suo legame con la natura, della sua unione con la corporeità, del fatto di vivere in un corpo sessuato. La naturalità specifica dell’uomo (impulsi, pulsioni, desideri, bisogni) non è infatti di per sé peccaminosa, ma lo diventa quando l’uomo cerca in essa un acquietamento alla sua angoscia. Ne consegue che, nella misura in cui ‑ nella vertigine del nulla ‑ l’angoscia spinge l’individuo ad aggrapparsi al finito e, quindi, a peccare, la sensibilità inevitabilmente si trasforma e le pulsioni umane diventano fonte di peccato: cosa che produce a sua volta angoscia.
Esiste poi un’angoscia per il male commesso (si pensi al «giocatore» che, giocando, ha perso tutto ciò che aveva), per le eventuali future conseguenze del male commesso (ad es. la rovina della propria famiglia), nonché per la possibilità di commettere nuovamente il male già una volta commesso (il giocatore presagisce che, se gli capiterà di ritrovarsi al tavolo da gioco, cederà di nuova alla tentazione). Senza dubbio questa forma d’angoscia ha, almeno in parte, una funzione positiva, visto che spinge a lavorare per eliminare la negatività posta. Tuttavia essa tende a sfociare in una forma inautentica di pentimento ‑ il senso di colpa, che si rattrista soltanto esteticamente per il male commesso, nonché per le possibili conseguenze da esso provocate, ma non conduce ad un reale cambiamento di vita, ad una vera metanoia ‑, finendo per essere solo segno di una condizione di debolezza. Un pentimento segnato dall’angoscia (ovvero un’angoscia che appare come pentimento) arriva infatti «sempre con un attimo di ritardo», per cui, lungi dal liberare dal peccato, sta invece direttamente al suo servizio. Esso, se da un lato sembra esprimere e riflettere la tragedia della buona volontà, della lotta seria con se stessi, dall’altro in realtà non prende veramente sul serio il male compiuto: «Una coscienza del peccato, realizzata profondamente e seriamente nell’espressione del pentimento, è una grande rarità». Il senso di colpa è in fondo solo un meccanismo di difesa con cui si cerca di evitare l’angoscia, ovvero con cui ci si risparmia l’elaborazione della colpa, facendo credere illusoriamente di soffrire terribilmente per essa. Nel pentimento inautentico l’angoscia abbandona, infatti, il suo orientamento al futuro, interpretando se stessa come punizione naturale e ineluttabile per il peccato commesso, e rifugiandosi nel ruolo di vittima. In questo modo, però, il pentimento, ormai disoccupato e impotente, non riuscendo più a trovare una via d’uscita, comincia a ruotare vertiginosamente su se stesso, finendo per impazzire. Al contempo l’individuo, che si pente in maniera inautentica, tende a scusare e a giustificare almeno in parte le sue scelte, a non considerarsi del tutto responsabile per le conseguenze del male commesso. In questo modo, però, egli diventa preda di una catena irrisolvibile di sensi di colpa che, invece di portare ad un cambiamento della situazione, lo trascinano e lo avviluppano ancora di più nel peccato, tanto che questo ad un certo punto finisce per prendere stabile possesso dell’individuo, per diventare sua carne e suo sangue, per ottenere una sorta di «diritto di cittadinanza», per mettere salde radici in lui. Egli finisce così per assuefarsi al peccato, magari affogando la propria angoscia, i propri sensi di colpa, nell’alcool, nella droga, nel divertimento, nel sesso.
L’individuo può essere assalito però anche dall’angoscia del bene, che lo induce a restare ostinatamente nella condizione di colpa, ad opporsi ostinatamente a ogni cambiamento di vita, a rifiutare ostinatamente ogni offerta di salvezza, a restare ostinatamente autocentrato, nella ricerca di sicurezze che provengono dal finito, in un disperato tentativo di autofondazione che si manifesta come chiusura, taciturnità, mancanza di comunicazione. É questa l’angoscia dell’uomo estetico, che rifiuta la scelta per tenersi aperte più possibilità possibili, o del cristiano borghese (il pagano di ritorno), che preferisce attenersi alla morale vigente e all’opinione dei più, rinunciando ad esser singolo (individuo autentico) e confondendosi nella massa, pur di godere delle sicurezze sociali e sfuggire al peso della decisione.
Ora, è possibile che l’individuo soggettivamente non avverta, non senta più angoscia alcuna, avendo ceduto all’omologazione, essendosi rifugiato nella massa. Tuttavia l’angoscia può sempre riaffacciarsi ad ogni momento (in presenza, o meno, di un contrattempo o di una disgrazia) o nella forma inquietante dell’angoscia dell’assenza di un’evidenza di senso, che assale soprattutto chi vive esteticamente nella ricerca del godimento e del piacere dell’attimo, o dietro le molte e banali preoccupazioni per il domani che sono tipiche del modo etico di vivere dei cristiani borghesi:
«Mentre il cristiano parla sempre e solo dell’oggi, il pagano parla sempre e solo del domani. Per lui è in fondo del tutto indifferente come sia la giornata odierna, serena o triste, felice o infelice; egli non può arrivare a goderla o a usarla, in quanto non riesce a liberarsi della scritta invisibile sul muro: domani. Domani forse soffrirò di fame, anche se oggi non ne ho sofferto; domani forse i ladri mi porteranno via i beni, i calunniatori mi faranno perdere l’onore, la fugacità mi priverà della bellezza e l’invidia dell’esistenza mi sottrarrà la felicità ‑ domani, domani! Che cos’è l’angoscia? È il domani. La preoccupazione terrena è la madre dell’angoscia, che è a sua volta madre della preoccupazione. Per attizzare la fiamma, bisogna soffiare sulla brace. Ma i desideri e le insicurezze del mondo sono due correnti d’aria che fanno proprio da tiraggio e attizzano il fuoco della passione che cova sotto l’angoscia».
Tuttavia queste preoccupazioni, se inducono alla disperata ma illusoria ricerca di sicurezze (potere, denaro, riconoscimento sociale), non riescono mai veramente ad acquietare l’angoscia; anzi, l’individuo preoccupato e angosciato per il domani, roso dall’invidia e dalla competizione, dato che utilizza qualsiasi mezzo (non esclusi la violenza, l’omicidio, la guerra) per salvaguardarsi rispetto ai pericoli che il futuro potrebbe portare, finisce per moltiplicare l’angoscia in misura esponenziale, dando vita ad una catena infernale di paure, laddove, nel cercare vanamente di rimuovere l’angoscia che avverte in sé, la suscita negli altri. Anche la vita apparentemente priva di angoscia è sottesa, quindi, da un’angoscia rimossa, profonda, che può esplodere da un momento all’altro: esplosione che non fa che confermare l’esistenza di una patologia già presente in forma sommersa. Insomma, l’angoscia appare insuperabile. E proprio in questo sta il suo aspetto inquietante e terribile: nel fatto che essa può cambiare forma, che è passibile delle più strane metamorfosi. L’angoscia può infatti celarsi e nascondersi anche dietro un’armonia e una bellezza di facciata, può mascherarsi e camuffarsi anche dietro forme di apparente felicità e contentezza.
Un ruolo formativo nella vita dell’individuo l’angoscia lo può svolgere solo tramite la fede nell’intervento redentivo di Dio, solo tramite la fiducia assoluta e incondizionata nell’Eterno: infatti l’individuo può imparare ad angosciarsi in maniera autentica (cioè, ad angosciarsi del finito), a pentirsi in maniera autentica (cioè, a cambiare vita) ‑ fino a ritrovare la “quiete” e la “pace” dell’Eden ‑ solo ponendosi in trasparenza nella potenza trascendente che l’ha posto. In caso contrario, egli cade ineluttabilmente nella disperazione. Infatti, se l’angoscia è espressione del fatto che il singolo, da sé, non può giungere all’equilibrio e alla quiete, la disperazione (la malattia mortale) è il punto di fuga ultimo di tale condizione d’angoscia, è il tentativo illusorio di autofondarsi, in cui sfocia chi non vede altra via d’uscita alla sua condizione d’inquietudine e di spaesamento. Nell’ottica kierkegaardiana, infatti, il cristiano borghese ‑ invece di preoccuparsi primariamente, se non addirittura esclusivamente, della sicurezza esteriore e del prestigio sociale, invece di dannarsi nella ricerca della ricchezza, del potere, del successo e della fama (che è un modo inautentico di preoccuparsi di sé) ‑ dovrebbe preoccuparsi di costruire un rapporto diverso con se stesso, fondato sulla fiducia non nel finito, ma in Dio (che è il modo autentico di preoccuparsi di sé). A tal fine, però, sarebbe necessario che egli ‑ invece di cercare di porre rimedio all’angoscia, che lo dilania nel profondo, costruendo una fitta rete di meccanismi autoprotettivi che in realtà danno origine ad una serie infinita di sempre nuove forme di preoccupazione ‑ imparasse ad angosciarsi come si conviene. L’angoscia lucidamente accettata e consapevolmente assunta, infatti, svela l’inconsistenza e problematicità del mondano, la vanità delle illusioni e delle speranze che si rivolgono a ciò che è umano e finito, evidenziando la possibilità dello scacco e del naufragio, nonché l’impotenza dell’uomo nel gestire e dirigere il proprio destino. Quindi si tratta di suscitare nel singolo ‑ facendo opera di disinganno ‑ una giusta angoscia di fronte all’inaffidabilità del finito, affinché questi «trapassi dall’«impazienza» dell’eretismo affaccendato e inquieto alla “pazienza” che nasce dal rafforzamento e consolidamento dell’interiorità. Tuttavia l’angoscia «redime mediante la fede», ovvero ha una funzione veramente positiva solo nella fede, che può essere raggiunta unicamente tramite un salto. Solo la fede, infatti, riesce a togliere all’angoscia il suo pungiglione e ad aprire all’uomo una nuova prospettiva, che gli consente d’interpretare in modo diverso e nuovo la finitezza e di affrontare in modo più calmo e distaccato le contingenze e le distrette della vita. L’angoscia ha dunque una funzione propedeutico-formativa alla fede, ma può essere vinta e superata solo dalla e nella fede, che libera l’uomo dalla sua angosciata concentrazione su di sé e sul finito e, dischiudendogli la dimensione dell’Eterno, gli rende possibile un approccio non più angosciato con il mondo e il prossimo.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 23.4.2015 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
Testi introduttivi a Kierkegaard: