Venerdì 27 marzo 2015 nella Sala Bevilacqua di via Pace n.10 in Brescia è stato presentato il libro di Carlo Maria Martini, edito dalla Scuola Editrice, “Figli di Abramo. Noi e l’Islam”. Sono intervenuti il filosofo Massimo Cacciari e il teologo Massimo Rizzi. L’incontro è stato promosso da Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, Editrice La Scuola e Padri della Pace. I testi qui trascritti non sono stati rivisti dagli autori.
MASSIMO RIZZI: Grazie di cuore per l’invito di stasera, a voi tutti e al prof. Cacciari. Vi ringrazio soprattutto per il contenuto dell’incontro: pubblicare testi del genere oggi è coraggioso.
Il titolo di questi testi – che, seppure abbiano più di vent’anni, sono solo apparentemente datati per contenuto – è già emblematico: Figli di Abramo. La figliolanza è ciò che accomuna tutti gli esseri umani. Non tutti siamo padri, io per esempio non lo sono. Ma tutti siamo figli: in una figliolanza ci si può ritrovare, una figliolanza in cui si dice la diversità ma in cui si dà comunanza, soprattutto in questi tempi in cui invece si sottolinea la diversità come divisione. Noi e l’Islam: e non perché esiste semplicemente una relazione tra noi – un noi a mio parere sempre più sfilacciato, al tempo stesso idealizzato ma inesistente – e l’Islam. È l’Islam che soprattutto oggi conosciamo ancora troppo poco. Riproporre questi testi del cardinal Martini, vecchi di vent’anni, non è un’operazione editoriale e commerciale; è qualcosa di molto più serio. Riproporre i testi di un grande uomo della Chiesa come il cardinal Martini è un’operazione innanzitutto culturale, perché ci chiedono di rimetterci in gioco di fronte all’avvento di questa sfida – o questione, come la chiamo io, o problema, come lo intendono altri -, cioè la presenza diffusa dell’Islam. Rileggendoli a distanza di anni, ho provato a sostituire i nomi dell’attualità di allora con i nomi dell’attualità di oggi; vi assicuro che mettendo al posto di Afghanistan e di Kabul, Parigi o la Tunisia o la Libia, il discorso continuava a filare perfettamente. Gli elementi di discernimento che il cardinal Martini propone sono di estrema attualità.
Quando mi capita di intervenire in questi dibattiti, mi accorgo di come continui a persistere un’associazione che invece va superata: quella tra Islam e immigrazione. Forse stiamo lentamente capendo che dobbiamo andare oltre questa identificazione non più corretta. E soprattutto occorre introiettare la percezione di fare parte ormai di un mondo che è plurale, su tanti fronti. Oggi l’attenzione verte specialmente sul fattore immigrazione, e su questo la Chiesa non ha nulla da recriminarsi. Il cardinal Martini stesso diceva, vent’anni fa, che la presenza di una serie di gruppi di musulmani sul nostro suolo comportava in primo luogo un’opera di accoglienza e assistenza, casa e lavoro. È uno sforzo che impegna tutti, e la nostra comunità e le nostre diocesi hanno dato prova, in questi anni, di grande spirito di solidarietà. E tuttavia, seppure persistano azioni solidali, nella Chiesa, con la Caritas, ci accorgiamo oggi che l’operazione da compiere non è più tanto quella dell’accoglienza, ma stimolare una riflessione che dia il via a un processo di presa di coscienza di questo pluralismo che è ormai in atto. Quest’esigenza ci chiede di superare l’approccio assistenziale, che tante nostre comunità cristiane e la società civile hanno messo in campo, per avere – con le parole del cardinale – il “coraggio di non limitarci a questi provvedimenti”.
Oggi non possiamo dire che l’Italia abbia un’esperienza consolidata nel campo dei rapporti interreligiosi. Ci sono state alcune prassi che sono state provate da diverse realtà. Dice un famoso pensatore tedesco: “Le società pluralistiche e globalmente interconnesse hanno un futuro su questa terra solo se procedono insieme”. Se vogliamo evitare lo scontro di civiltà non esiste né in Europa né altrove alcuna alternativa al dialogo sincero, critico, franco tra le religioni e tutte le culture.
Il cardinal Martini dipingeva anni fa con alcune pennellate, rade ma dirette, quella che era la realtà dell’Islam. Intendiamo per Islam l’insieme delle pratiche e delle credenze che si rivolgono a Maometto e al Corano, ben consci delle complessità di un simile macrocosmo e delle sue molteplici ramificazioni. Allora iniziamo a comprendere ciò che ancora troppo pochi hanno capito, e cioè che non esiste “un” Islam: esistono molti Islam. Penso che se fosse presente qui qualche musulmano forse non condividerebbe questa affermazione. E da una parte ha ragione, perché esiste univocità nell’espressione della fede: “Io testimonio che solo Dio è Allah”. Sono vere queste univocità della testimonianza, di Dio, della comunità; ma allo stesso tempo assistiamo a un frammentarsi interno alla religione. Anche se i musulmani oggi sono diversi per etnia, provenienza, radici, correnti religiose interne, e sono cittadini di diversi Paesi, è però vero che la fede islamica è un universalismo che oltrepassa le frontiere. Se non è facile parlare di Islam in generale, è ancora più difficile definire il fenomeno dell’Islam tra noi, dell’Islam in Europa.
Il secondo passaggio che il cardinale compie è quello di riconoscere che esistono dei valori dell’Islam. Questo punto non è indifferente. Mi capita spesso di parlare con persone semi-acculturate, anche con dei preti, che mi fanno questa domanda: “Ma quali valori ha apportato l’Islam nella storia?”. Vi invito a il libro del card Martini perché si tratta di grandi parole religiose e morali, che hanno aiutato centinaia di migliaia di persone a rendere a Dio un culto onesto e sincero, insieme a pratiche di giustizia.
Mi permetto di soffermarmi su un punto particolare, che è quello della riflessione sulle relazioni tra la Chiesa e l’Islam. Noi come Chiesa cosa possiamo dire? Penso che nelle corde del cardinale si senta, cito, “quello che io chiamo la bussola per i cristiani oggi, ovvero il Concilio Vaticano II”. Un Concilio che ha più di cinquant’anni, ma è rivivificato da ciò che papa Francesco ha detto al Giubileo, fatto in un anno speciale, l’anno della misericordia. La parola misericordia ha tutta una sua accezione nel Corano. Ogni invocazione coranica inizia così: “Dio clemente e misericordioso”. Ma, soprattutto, non potrebbe essere che in questo anno della misericordia fossero anche i musulmani a dirci del loro modo di vedere Dio, di quel Dio dalle viscere materne. Perché questa è l’espressione: in ebraico e in arabo rachmanè la pancia della madre. E cosa c’è di più misericordioso di questo?
Vi invito con tutto il cuore a rileggere alcuni stralci essenziali del testo del Vaticano II. In particolare la Dignitatis Humanae e la Nostra Aetate. La Dignitatis Humanae perché ribadisce l’esistenza del diritto alla libertà religiosa, di culto e di coscienza: “questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere liberi dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano”. Libertà religiosa che compete alle singole persone e ai gruppi religiosi.
Permettetemi un riferimento locale: in una società che si vanta dei diritti dell’uomo e del rispetto della libertà, come fanno ad accadere cose come quelle degli ultimi giorni? Non so se si possa parlare di libertà di culto e religione dove non esiste la possibilità di celebrare il proprio culto. Il riferimento che faccio va all’ultima legge al riguardo approvata in Regione Lombardia. È necessario avere il coraggio di “insistere su un processo di integrazione che, con le parole del cardinale, è ben diverso dalla semplice accoglienza e da qualunque sistema religioso”. Certo, l’integrazione comporta l’educazione dei nuovi venuti perché si inseriscano armonicamente nel tessuto della nazione ospitante.
MASSIMO CACCIARI: Credo che dovremmo essere più consapevoli tutti. Probabilmente siamo ancora alla vigilia di scelte e decisioni in momenti ancora più drammatici rispetto a quelli di vent’anni fa. Se leggete i testi del cardinale Martini, la prima impressione che se ne ha è questa. Martini denunciava la situazione a lui contemporanea. Oggi, dobbiamo riconoscerlo, siamo messi infinitamente peggio. Non è maturata una maggiore consapevolezza dei problemi sopracitati, anzi. Occorre esserne consapevoli. Le società europee stanno affrontando un periodo di grande crisi riguardo al profilo culturale, oltre che a quella coscienza di cui alcuni elementi erano prima richiamati. Non stiamo andando nella direzione indicata da Martini e dobbiamo saperlo. I nostri concittadini, noi stessi, come facciamo a sentirci innocenti di quello che sta capitando? Come facciamo a ritenerci innocenti rispetto all’integrazione? Come, rispetto alle centinaia di persone che in questo esodo crepano come cani? Come faccio a sentirmi innocente? Perché so che occorrerebbe fare questo e quello, e mi dico: “Sono diverso da quelli che fanno le leggi, e quindi sono legittimato a credermi innocente”. Io non mi sento innocente, assolutamente. Mi sento reo di quello che continua a capitare, in modo sempre più drammatico. Occorre davvero avere grande cura della situazione che si sta delineando in Italia e in Europa nel rapporto tra loro e l’Islam.
Il cardinal Martini – cerco di toccare due o tre punti per prendere consapevolezza di qualcosa che è tutto da mettere in pratica – ha parlato ai suoi concittadini, anche al di fuori dell’ambito della Chiesa, con un discorso politico. Il suo discorso politico, condotto sempre come era solito fare Martini, il cui magistero toccava i problemi politici con grande attenzione, nella consapevolezza del suo proprio limite, è molto chiaro.
Prima di tutto, occorre che si converta la politica dell’Occidente. Conversione è un bel termine che ha anche un significato laico, significa cioè assumersi pienamente la responsabilità di una decisione. Le tragedie che stiamo vivendo – da 20-25 anni a questa parte va sempre peggio – hanno anche cause politiche evidentissime. Non derivano da errori contingenti; derivano da prospettive culturali erronee, che conducono inevitabilmente a determinate conseguenze, che sono le nostre attuali. Ripeto, Martini svolge il discorso con grande attenzione, ma è chiaro. Si è pensato al momento della caduta del muro di Berlino, al momento della fine del comunismo, che si potesse stabilire non una pace (concetto su cui poi tornerò) tra i popoli ma un Impero universale. Si è pensato che finita la contrapposizione fra i titani che avevano vinto la seconda guerra mondiale, ne rimaneva uno e quello era l’Impero. Questa è stata la politica voluta, consapevole. Ma alla caduta delle contrapposizioni ideologiche di allora, alla fine delle tragedie del Novecento, l’unico mondo in cui possiamo pensare di convivere è un mondo plurale. È un mondo in cui non è possibile che si affermi la volontà egemonica di uno solo. È nuovamente facile da dire, ma nuovamente difficile da compiere, perché vi sono culture e società (fra cui in gran parte anche quella americana) che non hanno questo discorso di pluralità, che vede il mondo non teleologicamente orientato e destinato a diventare un uno. Certo, è il discorso della tolleranza dell’Occidente, che funziona come se si dicesse: io sono diverso da Ilario, perché Ilario è ancora immaturo, non ha capito la mia posizione, quindi bisogna ancora educarlo ma si riuscirà. Questa è la tolleranza. È ben diverso il discorso per cui io riconosco e apprezzo la differenza e fondo il dialogo sulla base del fatto che questa differenza non è momentaneamente destinata a venire meno. La gran parte della cultura politica occidentale è basata sulla visione teleologica del progresso storico per cui alla fine ci sarà l’impero, magari non degli Stati Uniti, ma del nostro modo di pensare, del nostro modo di vivere. La nostra cultura, per quanti sforzi abbia fatto una certa filosofia, non è nella sua quintessenza più profonda (come emerge anche dal punto di vista tecnico e scientifico) una cultura del dialogo. Bisogna ripartire da questo riconoscimento che ha determinata conseguenze politiche che qui potete leggere.
Quindi, innanzitutto, questa questione politico-culturale è all’origine del tragico peggioramento della situazione che stiamo vivendo, su cui incombe il terrorismo. Che non è vero terrorismo, perché quando un gruppo è situato in determinati punti sulla carta geografica e poi agisce in un certo modo, è uno Stato territorializzato che lotta anche con strumenti di tipo terroristico. Ma questo, ahimè, è un aspetto presente anche nelle guerre tradizionali della storia. Badate che quando le guerre escludevano il terrorismo contro popolazioni inermi è un periodo della storia militare europeo che sarà durato un secolo e mezzo; dopodiché, le guerre hanno sempre avuto una loro componente terroristica. Quindi realismo, altrimenti non si capisce nulla.
Dunque, primo aspetto denunciato qui: conversione politica. Poi, realismo. Tratto tipico dell’Occidente è inoltre la secolarizzazione futura di tutti. È una corrente potentissima. Ma è irrealistico pensare che la religione non possa continuare a costituire un potente ed essenziale fattore anche nel conflitto politico. Questa è una cosa che finalmente gli scienziati della politica cominciano a riconoscere. Esiste la corrente della secolarizzazione, ma più cresce, più è potente, più produce degli anticorpi. E noi l’avevamo dimenticato. Ma come, ci chiediamo, questi barbari che confondono la dimensione politica con la religione? Leggete Machiavelli. I grandi capi politici sono anche i grandi capi religiosi. L’eccezione straordinaria è Gesù Cristo. Quelli che formano comunità non hanno mai formato il popolo solamente secondo criteri puramente secolarizzati. D’altra parte, in Islam sono presenti ora tanti popoli che vengono almeno da un secolo e mezzo di frustrazione, di sconfitte. Lo dico senza condannare né difendere nessuno. È dallo sgretolarsi dell’Impero Ottomano che questi subiscono frustrazioni, privazioni, colonialismo, sconfitte. Finisce la guerra mondiale e si dividono a caso i territori. I sovietici mettono i loro dittatori, gli americani i loro. Questi popoli tendono ad un risorgimento. Credete che questo risorgimento non avesse al suo interno un potente fattore religioso? Ma è immaginabile che in Iran si potesse far cadere lo scià, uno dei principali alleati degli Usa, se all’interno di questo movimento, in cui c’erano anche comunisti e i socialisti, non fosse stato preponderante l’elemento religioso. È evidente che c’è stata una totale sottovalutazione di questo elemento. Nella visione occidentale non c’è alcun rapporto con l’elemento religioso, e quindi non c’è stata capacità di comprendere questo movimento della nuova stagione dei popoli e dell’Islam. Le conseguenze non potevano che essere drammatiche, perché questa componente essenziale è andata totalmente perduta, senza trovare nessuna interlocuzione dal mondo occidentale. Quindi era naturale che cadesse poi in mano agli estremisti. Non va sottovalutato che queste componenti estremistiche sono quelle che, in Paesi dominati da esponenti di destra e sinistra, svolgevano anche opere di carattere sociale. Queste componenti radicate in una qualche tradizione religiosa, fondamentale comunque per fare comunità, sono quelle che operano in diversi territori con opere di carattere sociale: scuole, ospedali, assistenze. Il dialogo sulla componente religiosa è fondamentale. E qui le difficoltà diventano colossali.
Però non partiamo da zero, anche se è vero che se è difficile il rapporto e il dialogo su altri temi, su questo lo diventa ancora di più. Dice Martini: come si fa a parlare di un crash tra le civiltà se Ismaele e Isacco sono fratelli? Bisogna partire da lì. E tanti motivi di prossimità possiamo trovarli anche leggendo il Corano. Tuttavia, la questione va affrontata con la necessaria radicalità. Bisogna essere coscienti del fardello che dobbiamo portare avanti. Perché la civiltà islamica dovrebbe essere inferiore alla nostra? Lo dicono in tantissimi. Cerchiamo di diventare tra quelli che non dicono questa fesseria. Il grande Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia parla dell’Islam e dice che è una grandissima civiltà -e lo dice un grande eurocentrico -, soprattutto per quanto riguarda il suo entusiasmo per l’uno, per l’unità. È la più grande civiltà che ha detto all’individuo singolo: cosa credi di essere tu singolo, tu devi sottometterti, non come uno schiavo, ma devi obbedire, con intelligenza e con tutto il tuo cuore. Rispetto all’uno tu non vali come individuo.
Ci rendiamo conto di cosa significa questo da un punto di vista culturale e politico? Perché l’indirizzo originariamente scientifico desunto dalla Grecia e da Aristotele e presente oggi, nell’Islam è venuto esaurendosi già nel Trecento. Avicenna forse lo conosceva ancora. Quell’indirizzo si è spento, ma ci sono cause culturali, di civiltà, profonde e dobbiamo riconoscerlo, senza presumere che noi invece, avendo elaborato un’altra filosofia-scienza, siamo superiori agli altri. Sono civiltà radicalmente diverse. La scienza e la tecnica non potevano nascere lì. Si sono sviluppate nel solco che inizia coi grandi maestri medievali della scolastica, che poi abbiamo assimilato e metabolizzato noi mentre lì non è avvenuto. Questo non si è verificato perché noi non abbiamo la passione per l’uno, bensì per l’individuo e per il particolare. Si possono combinare le cose, se riconosciamo una complementarità. Ma questo impegna anche la filosofia e la teologia dell’Occidente. È il grande tema umanistico, il grande tema del De Pace Fidei del cardinal Cusano, è il grande tema dei cabalisti cristiani, di Pico della Mirandola: la pace della fede, la pace tra le fedi.
Se dico che Gesù è il figlio di Dio, che il logos di Dio si è incarnato, che è morto in croce, eccetera, qualunque musulmano mi risponde che bestemmio. La passione per lui non ammette assolutamente ciò che è la quintessenza del cristianesimo, ovvero l’incarnazione. La pace, quindi, come si trova? Gli umanisti dicevano che esistevano correnti cabaliste, mistiche, da interpretare come prefigurazioni della santissima Trinità, dell’incarnazione, e via dicendo. Ma questi sono convertiti al cristianesimo che cercano di rileggere esperienze simili alla luce della rivelazione cristiana. Tutto sommato, anche queste correnti sono in qualche modo cristiane. Ma non è cristianizzando il prossimo che si porta la pace tra le fedi. E allora come? Mettiamo da parte questi temi? Ma se riconosciamo che la religione è fattore essenziale anche per fare popolo, per fare comunità, allora sarebbe bene possedere un metodo per affrontare questo problema. Il Concilio Vaticano II ha dato un’indicazione di massima, ma non l’ha conclusa. Io credo, in conclusione, che la possibilità di un dialogo su questa questione possa darsi soltanto su un orizzonte di teologia mistico-speculativa. Su un piano di teologia dogmatica, si rischia di arrestarsi alla differenza. La prospettiva giusta è quella del cardinal Cusano. Certo, le differenze ci sono e non possono essere sottaciute, perché io sono responsabile non soltanto del riconoscimento nei tuoi confronti ma anche della mia identità. Per giungere a dialogare non devo negare nessuna della due parti. Si può convincere o cercare di persuadersi, ma qui parliamo di dialogo fra grandi civiltà. Forse che il modo in cui tu e io predichiamo il Verbo possono pretendere di valere come comprensioni di Dio? Io so chi è Dio? Vi è il livello della mia parola, del mio linguaggio, il mio modo di dirlo, che è necessariamente commisto, ma cosa sono queste nostre parole, questi nostri dogmi? Sono congetture. Noi non possiamo che congetturare su ciò è sovra-essenziale, che non è determinabile come le cose. Le nostre parole non possono giungere a questo, e quindi congetturiamo insieme, mettiamole a confronto, visto che ognuna delle due congetture è radicata in una storia, in una cultura, in un linguaggio. Dobbiamo cercare sempre di affinare, di approfondire, perché queste fedi non possono essere negligenti, quella cristiana tanto meno. Eppure soltanto così possiamo dare il nostro contributo da filosofi e da teologi a problemi di carattere storico e politico generali che sono al centro di questo libretto, che ci invita a ragionare proprio su di essi.
DIBATTITO
Ma davvero è intrinseca alla religione, e soprattutto alla religione musulmana, la violenza? E se non lo è, come è possibile disinnescare il mito o la suggestione che le vi viene attribuita ogni giorno dai media?
MASSIMO RIZZI: Non è possibile dare una risposta, posso dare la mia. A scuola, dopo aver cercato di chiarire la diversità e la specificità dell’Islam, invito subito gli studenti a diffidare. Diffidare di chi parla loro a nome dell’Islam, e di chi parla dell’Islam. Sembra apparentemente in contraddizione con quanto detto dal professor Cacciari, ma vi si ricollega in verità, a proposito della preminenza dell’uno rispetto al singolo. Quel singolo che sembra quasi una tentazione, perché solamente all’interno dell’Islam si ha ragione di comprendere la sua poliedricità. Nessuno parla dell’Islam, non c’è voce autorevole dell’Islam. A differenza di quanto si può dire del cattolicesimo, che non solo ha un’autorità definitiva, se così si può dire, ma ha anche numerosi interpreti.
Dunque in questa varietà di prospettive dell’Islam, è anche possibile la violenza.
È possibile allora ritrovare il germe della violenza dell’Islam? A me piace fare riferimento ai testi biblici, per esempio del Deuteronomio, a quei passaggi dove si dice chiaramente della necessità di sterminare le popolazione conquistate. C’è un salmo addirittura cancellato dalla liturgia, poiché vi viene ordinato di sbattere i bambini sulle rocce e cose simili. Dire che l’Islam ha la pretesa di ritrovare nei testi fondatori la possibilità di giustificare la violenza è facile. Ma non è serio. Non è onestà intellettuale. Esiste il versetto che parla di violenza, ma come viene predicata? Come viene spiegato? Dovremo avere il coraggio di superare quell’incomprensione molto banale, per cui si può capire che anche solo un atto di lettura è un’interpretazione. Allora quella rinascita cominciata un secolo e mezzo fa all’interno della vicenda islamica ha due possibili esiti, uno dei quali porta indietro al medioevo: è la cosiddetta linea saudita che trova suoi interpreti anche nell’Isis, che pure qualche aiuto l’hanno ottenuto. D’altra parte, ci interessa il secondo esito di questo lavoro interpretativo, ossia la sofferenza di chi spende la propria vita per difendere un’idea, un’interpretazione che passi attraverso quelli che oggi definiamo criteri storico-critici. E noi che continuiamo a pensare che il mondo islamico sia univoco, forse dovremmo accorgerci che esiste qualcosa di più, di diverso. Esiste un sistema di filosofia, esistono scuole di filosofia, esiste la conoscenza. E allora, tornando alla domanda, c’è chi può cercare un appiglio o trovarlo. Abbiamo bisogno di ricomprendere la storia dell’Islam, quella del Dio pace e benedizione, per ritrovare come in quella storia ci siano componenti diverse. La componente politica, si diceva prima, coadiuvata dalla componente religiosa. È vero, oggi questo è uno degli snodi. Innanzitutto va ribadito come il percorso occidentale non sia per forza il migliore al mondo. Siamo tutti eurocentrici, italocentrici. Non dobbiamo cercare nell’Islam il lavoro che il rinascimento e la rivoluzione francese hanno prodotto; perché non dovremmo invece cercare qualcosa di diverso? Ogni civiltà ha fatto il suo percorso. Hanno bisogno i musulmani, da parte loro, di rileggere la storia del profeta per ricomprendere la questione di come si colloca la violenza oggi. Esiste un Islam di minoranza?
Certo a mio parere è chiara oggi una cosa, e cioè che l’Islam è una sfida dalla quale realmente è possibile apprendere questa relazione interrogante tra Stato e Chiesa. In questo il nostro giusto senso della laicità dovrà guardarsi dall’essere vissuto come separazione o addirittura opposizione, perché il cammino dell’uomo è quello del cristiano. Penso che l’avvento dell’Islam, in quanto sfida, ci interroghi su questa presenza della dimensione religiosa nell’agone politico. Il professor Cacciari prima diceva che è bene che un cardinale dica cosa pensa anche su temi politici, ma quasi nessuno oggi è di questa opinione. Dall’altra parte anche la civiltà cristiana ha da interrogarsi sul rapporto tra individuo e comunità: dove sta il punto di bilanciamento? Sicuramente l’Islam ci indica una strada.
Voglio però concludere riprendendo l’approccio del cardinal Martini, che ci dice: attenzione, non tutti i musulmani aderiscono ai pilastri e alla prassi. Allora, al di là delle posizioni teologiche che sono inamovibili, forse ci sono altri spazi da indagare. Oltre allo spazio mistico, io dico anche lo spazio del quotidiano e dell’incontro con le persone. Per questo mi permetto anche di lasciarvi l’immagine del camminare come declinazione del verbo dialogare, perché è necessario camminare l’uno incontro all’altro: se non ci si muove non si dialoga. Le distanze che a volte sono culturali, ma a volte sono anche fisiche, non permettono di entrare in relazione. E solo entrando in relazione, anche nella piccolezza delle relazioni quotidiane, può fare superare alcuni di quei facili incasellamenti che ci mettono a rischio di identificare la violenza con l’Islam. Sicuramente la questione è problematica. Se andiamo a sondare l’origine dell’Islam possiamo cogliere elementi in più, ed è quello che forse dovremmo invitare gli amici musulmani per ricomprendere la questione della violenza.
MASSIMO CACCIARI: L’Islam è tante cose, ci si massacra e ci si continua a massacrare in nome dell’Islam. Pensiamo all’Isis che ha sì sgozzato tanti occidentali ma ha tagliato molte più teste ai propri compaesani. All’interno di grandi civiltà c’è guerra civile, è la condizione normale. Purtroppo dobbiamo prenderne atto. Speriamo che la nostra natura si redima, ma al momento non ne vediamo segni. Le differenze sono forti, e rispetto alla corrente fondamentale europea e occidentale se ne possono individuare molte, ed è già stato fatto da numerosi esperti. Il problema è che questo non può causare una separazione, perché il mondo diventa sempre più un unico paese, in cui però c’è nel frattempo una pluralità che cresce, e dentro queste singole unità cresce la differenza, o per lo meno non si attenua. I diversi Islam interpretano il Corano, l’intendimento del testo non è uguale per tutti. La via, la Shariʿah, implica l’interpretazione. Anche qui la differenza rispetto a quello che intendiamo noi su interpretazione ed esegesi è immensa. Perché ciò che fa l’islamico non è traducibile nella nostra esegetica, ma potremmo definirla come una forma di apologetica. Non è la nostra teologia, quella di Agostino, di Tommaso. E nemmeno quella di Averroè lo era. In quanto filosofo e scienziato, io dico delle cose completamente diverse. Non si tratta di doppia verità. Questa scuola da cui deriva tutto un filone politico e teologico occidentale, fino alla separazione tra politica e scienza e filosofia, nell’Islam è stata completamente assente. Poi si massacrano dentro l’islam come ci siamo massacrati anche noi. E allora come dovremmo interpretare il cristianesimo se ci mettessimo a estrapolare dalla Bibbia quelle parti che parlano delle guerre tra Israele e gli altri popoli? Bisogna fare un’esegesi, un’interpretazione legate con altri elementi. Tuttavia non possiamo negare che vi sia una profonda differenza, come quella che esiste tra Gesù e Maometto. Maometto è un condottiero. È un capo religioso e capo di un esercito, non metaforicamente. Quindi sono nodi duri da sciogliere, e questo deve appassionarci, non le cose facili. Un’esegesi che nello stesso tempo interpreti i testi fondamentali e permetta un dialogo che non sia una riduzione ad unum e neanche il tentativo di trovare un minimo comune denominatore, di cui non ci facciamo nulla.
Violenza, in generale. Io non sono convinto che la presenza della violenza nelle religioni sia estirpabile in una forma o nell’altra, fintanto che si pensa all’assolutezza di una religione. Perché c’è sì il modo di comprendere la violenza come quella delle armi; e tuttavia non esiste solo questa forma di violenza, ma c’è pure quella di chi propone escatologicamente l’affermazione della sua verità. Questo implica un atteggiamento nei confronti dell’altro non necessariamente violento nel comune senso, ma volto a convincerlo, vincerlo a me. Questo è il punto che mi pare irrisolvibile, se non nell’offrire le proprie convinzioni congetturalmente. Questo non significa relativismo. Ma non potrò mai pretendere nel limite del mio linguaggio, che è una prigione da un certo punto di vista, come sostiene Wittgenstein, che ciò che io affermo sia assoluto. Quando tento di farlo ho nei confronti dell’altro necessariamente un atteggiamento di violenza.